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Chiedereste a queste ragazze di affittarvi l’utero per 5mila euro?


di Marina Terragni (F, 27 luglio 2016)


– È la cifra che arriva alle ragazzine dei Paesi poveri (sempre che non finisca nelle mani di padri o mariti), mentre le organizzazioni che gestiscono il business si arricchiscono. Una giornalista ci spiega come funziona questa forma di schiavitù che qualcuno chiama gesto d’amore. E che trasforma la relazione tra una madre e il bambino che cresce nella sua pancia in un losco affare.

Il catalogo (online) è questo: povere ragazze cambogiane nel loro vestito della festa, abitini fiorati e tutine fluo, timidamente in posa su un fondale bianco. Un osceno mercato di piccole donne pronte a “surrogare” una maternità, più frequentemente costrette a farlo da mariti o fratelli papponi. E a prezzi stra-competitivi: solo 30mila dollari (contro una media di 150mila nelle supercliniche californiane), dei quali si calcola che a loro ne arrivino non più di 5mila. Sempre che non finiscano nelle mani dei familiari sfruttatori. Il plus offerto dall’agenzia Surrogacy Cambodia, tra gli ultimi arrivi nel colossale business dell’utero in affitto (un affare globale da almeno 3 miliardi di dollari con un enorme potenziale di crescita), è la possibilità di scegliere il sesso del nascituro: se vuoi un maschio, gli embrioni femmina si buttano via.

Figli come prodotti di lusso

Nei Paesi poveri l’unica ricchezza di cui disponi è il corpo. La vendita di un rene frutta fino a 250mila dollari: 5-10 mila al povero corpo mutilato, tutto il resto alla filiera criminale, la mafia della carne umana, i chirurghi compiacenti. Ma anche l’affitto di utero può fruttare un gruzzoletto analogo. E in apparenza senza danni permanenti, sempre che la gravidanza vada bene: solo un’insanabile ferita nell’anima di quella madre che non è una madre (e allora che cos’è?) e di quel figlio che non è un figlio, ma solo un prodotto di lusso. Se il traffico d’organi, almeno per ora, continua a suscitare scandalo e riprovazione, di fronte all’utero in affitto e al mercato dei figli le reazioni sono flebili. Il mainstream è possibilista.

La condanna del Parlamento Europeo

Che orrore, certo, gli abusi, le cliniche prigione con le gestanti detenute per nove mesi, le baby farm in Nigeria piene di ragazzine incinte che dopo il parto spariscono con le loro creature e non si sa che !ne fanno. Ma l’uso, invece, regolato da un contratto a cui la donna aderisce liberamente e con tutte quante le garanzie igienico-sanitarie, ebbene, perché no? Se in Paesi “civili” come la California e il Canada si può, perché non si dovrebbe poter fare anche da noi? È civile anche la Svezia, e lì il divieto è assoluto. Sono civili la Norvegia, la Danimarca, la Germania, la Spagna e la Francia: come da noi, l’utero in affitto non è ammesso. Al momento l’Europa tiene duro: il Parlamento Europeo condanna la pratica della surrogazione e la considera una questione “urgente” di diritti umani.

Un mercato potenziale sconfinato

Ma gli assalti della bio-lobby sono metodici e continuativi. Le agenzie di surrogacy organizzano i loro tour pubblicitari nel Vecchio Continente. Il mercato europeo è una sconfinata prateria, l’infertilità è in vertiginoso aumento e poi ci sono le coppie gay, naturalmente sterili. I soldi in ballo sono troppi. E se una donna decide in piena libertà di usare il proprio corpo come le pare, prestandosi per una gestazione conto terzi, perché mai uno Stato “etico” dovrebbe impedirglielo? «Il corpo è mio»: non era questo lo slogan principe del femminismo?

Nessuna lo fa gratis

La legge italiana ed europea parla di indisponibilità del corpo se non per un uso solidale e “samaritano”. Posso donare il sangue o un rene, ma non posso venderli. Posso anche condurre una gravidanza per altri (in alcuni casi i tribunali italiani l’hanno concesso) a patto che non vi sia passaggio di denaro. Il corpo è tuo, l’utero è tuo, ma il bambino che dai alla luce non è tuo. Non è un oggetto di tua proprietà e non puoi venderlo. Gli esseri umani non si vendono e non si comprano. «I !gli non si pagano», diceva Filumena Marturano. «Non si tratta di vendita, ma di un dono», è la risposta standard. Nessuna lo fa gratis, ma la strategia di marketing delle agenzie di surrogacy punta sulla retorica ipocrita delle “sante donatrici”. «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividono lo stesso obiettivo: donare la vita» (Artparenting, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri !gli il più puro atto di gentilezza» (Extraordinary Conceptions, California).

Dopo il parto il legame non si interrompe

Anche i committenti (coppie eterosessuali in otto casi su 10, per il resto coppie gay e maschi single) magnificano l’ “incantesimo d’amore”: così lo ha definito Nichi Vendola, padre da qualche mese via surrogazione. Una donna che offre i propri ovociti, un’altra disponibile alla gestazione per conto di perfetti sconosciuti che quasi sempre vivono dall’altra parte del pianeta. Ma i soldi sono il meno, giusto un “rimborso”. Ciò che conta è la gioia di aiutare gli altri. Straordinaria empatia che però, come da contratto, non deve assolutamente scattare nei confronti della creatura da cui ci si separerà subito dopo il parto. Per evitare il rischio che la gestante si attacchi al bambino, alcuni contratti prescrivono di non accarezzarsi il pancione. Ma, carezze e non carezze, per il piccolo che nasce quella è sua madre. La riconosce dalla voce, dall’odore, dal ritmo del cuore, dalla temperatura corporea. I legami epigenetici che si instaurano in quei nove mesi non si interrompono al momento del parto. La neonatologia insegna che la gravidanza prosegue fuori dal corpo per altri 2-3 anni, il tempo che serve al bambino per separarsi dalla madre. Ricordarlo, oggi, equivale a negare un diritto dato per acquisito. L’immagine di una donna che allatta è diventata istigazione all’omofobia.

Non facciamo del corpo una merce

Le femministe di tutto il mondo – le francesi di CoRP, le svedesi di Kajsa Ekis Ekman, le spagnole di No Somos Vasijas, le italiane di Se Non Ora Quando? e tutte le altre – non prendono di mira l’omogenitorialità e chiedono infatti che l’adozione venga aperta anche ai single e alle coppie di fatto. Il punto è un altro, ed è un punto decisivo per la civiltà umana: che del corpo-anima non si faccia merce, che l’invasività del mercato si fermi sulla soglia della relazione più intima che ci sia dato sperimentare, quella del figlio con la madre e della madre con il figlio. Una lotta che le donne stanno conducendo per il bene di tutte e tutti.

Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli, di Marina Terragni (VandA Epublishing. 5,99 euro), [è] un’inchiesta su un business planetario in espansione costante (attualmente negli Stati Uniti nascono più di duemila bimbi da uteri in affitto) nel quale le donne diventano mezzi di produzione e i bimbi merce in vendita.


 

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Ma utero in affitto non vuol dire libertà


di Paola Tavella (IoDonna, 23 luglio 2016)


– L’industria della surrogacy fattura tre miliardi e cresce del 200 per cento l’anno. Progresso? No, solo una nuova forma di sfruttamento. Marina Terragni lo denuncia in un libro di successo. Che fa discutere.

È significativo, secondo me, che la schiacciante maggioranza di giornaliste, studiose, attivisti dei diritti umani, femministe e lesbiche che si occupano da più di vent’anni anni di biopolitica e nuovi modi di nascere avversi lo sfruttamento commerciale della gravidanza e della produzione industriale di neonati destinati a coppie eterosessuali o omosessuali e maschi singoli di ogni orientamento (fenomeno in crescita). Uso le espressioni “sfruttamento” e “vendita” perché ritengo che espressioni neutre, edulcorate o “politicamente corrette” siano solo un astuto strumento del marketing dell’industria della surrogacy, che fattura ormai 3 miliardi e ha un tasso di crescita del 200 per cento l’anno.

Per orientarsi su questo difficilissimo tema va colmato innanzitutto un deficit di informazione, come ha fatto Marina Terragni mandando in libreria per Vanda Publishing un breve, fulminante testo, Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (si trova anche in ebook), di cui molti e molte – fra le altre Susanna Tamaro sul Corriere – hanno discusso in questo ultimo mese. Sull’utero in affitto, ha scritto per esempio la psicoanalista junghiana Costanza Jesurum, ognuna/o tende a reagire non in base alla brutale realtà ma al proprio vissuto nei confronti della propria madre o della propria maternità, perché l’argomento ha immensi contenuti archetipici, emotivi, simbolici. Il successo del libro di Marina Terragni è dovuto alla capacità dimettere ordine proprio in questo magma, intanto liberandosi dall’accusa che avversare la trasformazione delle donne in mezzi di produzione e dei figli in merce significhi schierarsi contro l’omogenitorialità maschile o il desiderio delle coppie sterili. Terragni è invece favorevolissima alla genitorialità gay ma difende un’ovvietà: il neonato non può fare ameno del corpo di sua madre, della sua origine, della sua storia umana. quando questo avviene per disgrazia cerchiamo di trovare rimedio, ma nella surrogacy il danno viene organizzato.

Così Terragni giudica un equivoco qualificare quella pro-surrogacy come una opinione di libertà, e quindi progressista.

La libertà, scrive, non va scambiata con una sorta di “dirittisimo”, come se desiderare un figlio equivalesse al diritto di comprarlo e scavalcare a suon di dollari i veri diritti, quelli scritti nella Dichiarazione dei Diritti Umani e dei fanciulli. Terragni racconta le condizioni atroci in cui le fabbriche di bambini costringono le fattrici in Nigeria, in India, in Nepal, in Ecuador, dove l’80 per cento di quelle che si prestano sono analfabete e non leggono il contratto. Ricchi occidentali pagano per trasferire in una donna di colore l’ovulo fecondato comprato da una donna dell’Est Europa o da una brillante studentessa americana che non riesce altrimenti a pagarsi gli studi, in modo che il figlio nasca bianco. anche in California o in Ucraina i contratti sono scritti per garantire i clienti, non certo la “lavoratrice” che accetta ogni sorta di prescrizione e restrizione, che può essere costretta a abortire, partorisce davanti ai clienti e non può toccare la figlia o il figlio, tanto che dopo la nascita molte vengono sedate di routine, per evitare incidenti. Alcune di queste donne dichiarano di volere aiutare le coppie sterili, oppure si sentono investite da una missione umanitaria – come se il denaro non c’entrasse. Così la mistica della maternità, l’oblatività, il sacrificio femminile vengono rimasticati e riproposti come strumento di propaganda per fare un sacco di soldi, e solo una minima parte va alle fattrici, il resto tocca a mediatori, agenzie, avvocati, medici. Allora, dice Terragni, chiedere l’abolizione universale dell’utero in affitto “non significa soltanto contrastare il nuovo feroce volto del patriarcato e il mercato che divora tutto, ma difendere un punto irrinunciabile di civiltà che ruota intorno al riconoscere e rispettare la differenza sessuale, il cuore della natura umana. Cancellare la maternità e la relazione fra madri e figli significa mettere indubbio tutta la nostra civiltà”.


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Io, figlia di madre difficile non vorrei essere nata dalla gestazione per altri


di Susanna Tamaro (Corriere della Sera, 5 luglio 2016)


– Il fondamento della vita è la genealogia. La storia di chi ci precede fa di noi persone. L’intervento di Susanna Tamaro.

Appena ho terminato la lettura del coraggioso e attualissimo pamphlet di Marina Terragni, Temporary mother (VandA ePublishing), mi è sorta spontanea una riflessione: come mai è stato accolto da un siderale silenzio? E subito è seguita una domanda: quanti sono i fondamentalismi del nostro tempo? Ce ne è uno macroscopico — quello religioso — che per le sue tragiche conseguenze è purtroppo noto a tutti. Ma non se ne annidano forse altri intorno a noi, più miti, più benefici, apparentemente più innocui? In fondo la scomparsa delle ideologie del ‘900 e l’innegabile eclissi del cristianesimo hanno lasciato un grande vuoto di etica e di orizzonti, e il vuoto non è facile da reggere. O si accetta di attraversarlo — consapevoli che l’incertezza fa parte del destino dell’uomo — oppure ci si attacca a qualcosa, a un particolare, e si trasforma quel particolare nel metro della totalità; da quel momento in poi, tutto quello che non si conforma alla totalità che ci rappresenta va combattuto. E in che modo? Con l’invettiva, la ridicolizzazione, la derisione: tutte armi che il mondo della rete offre con democratica generosità. Per linciare una persona basta un click, in meno di un secondo si guadagna la certezza di essere dalla parte giusta del mondo, senza mai essere sfiorati dal dubbio che la parte in cui ci riconosciamo sia soltanto un microscopico spicchio della realtà totale. Questi fondamentalismi domestici — che potremmo chiamare identitari, perché ci si identifica completamente con un’identità parziale — sono particolarmente vivi e attivi nel campo della bioetica, campo a cui la Gpa appartiene di diritto.

Gpa, gestazione per altri. Non occorre essere dei filosofi del linguaggio per capire che la prima e più grande manipolazione del pensiero avviene attraverso le parole. Parlare di «pulizia etnica», ad esempio, è molto diverso che dire «sterminio di massa» perché se c’è del pulito, il nostro inconscio automaticamente pensa che qualcosa in fondo di buono c’è. E così dire «gestazione per altri» e tutt’altra cosa che dire «utero in affitto». Il concetto di affitto porta con sé l’idea, infatti, dell’oggetto e del commercio — grazie al denaro, posso affittare una macchina, un appartamento — mentre la definizione «per altri» ci indirizza verso una positività buonista che rende questa condizione, non solo accettabile, ma anche desiderabile. Ne consegue che tutti coloro che si oppongono a questo progetto sono persone retrive, egoiste, prigioniere di un oscurantismo che non ha più senso di esistere, e — soprattutto — nemiche della Felicità e dell’Amore, i due grandi Totem all’ombra dei quali vive prostrato il nostro tempo. Come puoi pensare, infatti, di negare a qualcuno il diritto di essere felice, il diritto di amare?
Non è forse con la stessa suadente strategia che i predatori di ovuli — quest’abominevole categoria di «benefattori» — si aggira tra le giovani ragazze? «Non vuoi rendere felice una coppia a cui il destino ha negato questo diritto? C’è gente che dona un rene e tu sei così egoista da non voler donare un misero ovetto? Ci guadagni anche due soldini di rimborso, che fanno sempre comodo…». Per delle bambine cresciute con gli ovetti Kinder, questo discorso sembra innocuo, convincente. In fondo che c’è di male? Tranne poi dire, come ho letto in un’intervista fatta a una ragazza donatrice: «Oddio, non è che poi da qualche parte ci saranno dei bambini che mi assomigliano?».
Sempre per l’esercizio di chiamare le cose con il loro nome, gli ovetti — diciamolo allora, per chi zoppica in biologia — sono i nostri figli. Figli che prima iberniamo e poi lanciamo nel mondo come fossimo piante che si affidano alla fecondazione anemofila. Spargiamo semi senza sapere dove andranno a finire. Noi, le madri, non verremo mai a conoscere il loro destino. Può esistere qualcosa di più atroce di questo? La maternità — la condizione fondante del vivente — ridotta a livello delle piante, senza identità individuale. La genealogia ridotta a quella uniformante della specie.
Ma forse è proprio qui, contemplando il punto più basso dell’abisso, che il bio business getta la maschera e fa vedere il suo vero volto, che non è quello di un salvatore bensì quello di un famelico generatore del nulla. Attaccare la maternità, distruggere le sue viscere misericordiose vuol dire attaccare e distruggere i fondamenti del mondo. Per capire questo non occorre essersi rimpinzati di opuscoli Pro Life, basta aver visto almeno una volta una gatta a cui siano stati sottratti i gattini, la trepida cova di una rondine, le povere donne che scendono dai barconi stringendo al petto i loro figli sopravvissuti all’orrore. Basta ricordare l’ultima telefonata di quel povero ragazzo morto nella strage di Orlando: «Mamma, sto per morire, ti voglio bene». O basta anche, semplicemente, ricordare la morte della propria madre. Con la Gpa tutto questo non potrà avvenire, perché la super donna, super generosa — la complementare della donatrice — la donna che tutte noi dovremmo ammirare, cede immediatamente ad altri il frutto del suo ventre.

La verità scientifica — elevata nel nostro tempo a unica verità — a questo punto diventa afasica, muta, inessenziale. Tutti i meravigliosi e straordinari studi sugli intensissimi rapporti che intercorrono in quei nove mesi tra la madre e il suo bambino diventano carta straccia. Nel tempo della fattibilità, il piccolo è ridotto a cosa, viene assemblato in un luogo indifferente ma il suo esistere ridiviene reale soltanto nel momento in cui viene onorato il contratto e consegnato nelle mani dei felicissimi committenti. D’altronde, come dar loro torto? Ogni bambino è un miracolo davanti a cui rimaniamo tutti a bocca aperta! Però, questo miracolo ha un piccolo difetto. È un essere umano e, in quanto tale, probabilmente prima o poi comincerà a farsi domande.

Già perché, assieme agli studi scientifici, sono finiti nel cassonetto decine di capolavori della letteratura con protagonisti giovani orfani o figli illegittimi alla ricerca perenne del volto della madre, un paio di secoli di studi psicologici, l’intera psicanalisi. Il bambino Gpa è un bambino tabula rasa, nasce senza alcun passato e vive — e sappiamo già che sarà felice perché è stato desideratissimo — in un mondo che gli promette un amore incondizionato. Ma quando, un giorno, si guarderà allo specchio e capirà che non potrà mai risalire all’origine di una parte del suo volto, l’amore basterà? E basterà quando si renderà conto che sua madre, per un compenso, ha venduto l’ovulo che l’ha generato, cioè la sua vita?
Se penso alla mia famiglia, la parola «amore» è forse la trentesima che mi viene in mente e la maggior parte delle parole che la precedono non hanno certo una connotazione di positività, eppure io sono quella che sono perché ho avuto quei genitori. Genitori a loro volta generati da altri genitori. Il fondamento della vita umana dunque è la genealogia, non l’amore. Si può nascere anche da uno stupro, si può crescere in un lager. Ciò che fa di un essere umano una persona è prima di ogni altra cosa la storia di chi ci ha preceduto. In nome di che cosa mi chiedo allora, una persona, per esercitare il suo diritto alla felicità, può coscientemente privare un altro essere della sua genealogia? In nome dell’amore? Ma un amore che priva programmaticamente, per principio, qualcun altro di un ben più fondante diritto, che amore è?

E qui va smascherato il secondo passo del bio business. Dato che non esiste la maternità, non esiste neppure il destino. Nessuna unicità appartiene all’uomo. Non è importante sognare, pensare, combattere, danzare. Il corpo a corpo karmico non ci riguarda più. L’esteso campo del mistero — quel campo che ci rende davvero umani — è stato conquistato dalla tecnica ed è lei a preparare per noi delle vite indolori, immerse dall’inizio alla fine nella rilassata piacevolezza del suo Amore.
Le energie messe in moto per propagandare questa nuova visione dell’umano sono potenti, sempre pronte a esaltare con tutti i mezzi un singolo caso, capace di mettere in ombra, con la sua forza emotiva, i principi etici che da migliaia di anni governano la vita degli uomini. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso è il cardine principale su cui si fonda ogni civiltà degna di questo nome. Faccio outing: non vorrei mai essere nata da una Gpa. Nonostante mia madre non sia stata un esempio di amore materno, dalla sua morte in poi c’è un grande vuoto nella mia vita.
Per difendersi da questa aberrante visione del mondo, si dovrebbe prima di tutto cominciare a smantellare il grande ombrello dell’Amore Incondizionato, riportando questo importantissimo sentimento a due categorie fondamentali — l’amore generativo e l’amore oblativo — per ricordarsi che non poter generare non vuol dire non potere amare, anzi l’amore oblativo è spesso più grande e più libero di quello generativo.

E allora perché non lavorare strenuamente nel campo degli affidi e delle adozioni? I tre, quattro anni abituali di attesa, ad esempio, ridotti a nove mesi, il tempo di una gravidanza? Perché non pensare a Incentivi economici, apertura ai single e alle coppie omosessuali quando sia manifesta una stabilità affettiva? Togliere la maggior parte dei bambini dalle situazioni di anaffettività dell’abbandono dovrebbe essere il primo pensiero di una società umanamente degna. Perché, come dice il Talmud, «chi salva una vita salva il mondo intero», e questa salvezza — che nasce dall’amore oblativo — è l’unico vero e umile antidoto che possiamo opporre alla Gpa e allo strapotere del bio business sulla vita.