Pubblicato il

«Utero in affitto? Doppio sopruso»


di Anna Maria Ferrari, (Gazzetta di Parma, 27 settembre 2016)


– Marina Terragni: «Si sfrutta una donna bisognosa e si sottopone il bambino a un’esperienza molto dura: essere separato dal corpo della madre. Il mercato irrompe in una relazione che è fondamento di umanità».

Capovolge il mondo, subito. E’ lo sguardo sottosopra, la foto alla rovescia. «Non ne usciamo da questa violenza sulle donne. Continuiamo ad esercitare psicologismi sugli uomini, invece è arrivato il momento di appoggiare lo sguardo dentro noi stesse. Di connetterci fortemente alla nostra differenza per trovare un linguaggio, un simbolico adeguato. Il modo in cui ne stiamo parlando non funziona. Per esempio: guardiamo sempre la violenza che subisce l’altra. Non partiamo mai da quella che viviamo noi: la svalutazione subdola, i gesti misogini. Ci è richiesto di essere ammortizzatori della rabbia maschile. Tutte sappiamo di che cosa sto parlando. Ma su questo tacciamo. E invece si dovrebbe partire di qui».

Testa pensante del nuovo femminismo, legata a quel laboratorio che è la libreria delle donne di via Dogana, a Milano, una delle prime blogger italiane: Marina Terragni, una donna fuori dal coro. Ha cominciato giovanissima a Radio popolare, poi il Corriere della sera, L’Europeo, Linus, Il Foglio, e anche un po’ di tv. Scrittrice: l’ultima fatica è il pamphlet «Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli» (Vanda edizioni, eBook o ordinabile in cartaceo). 100 pagine di coraggio e idee da leggere tutte d’un fiato sulla maternità surrogata, che ci porta dritto a «una nuova forma di patriarcato» e nasce dall’antichissima «invidia dell’utero».

Un atto di accusa senza ideologismi che non è piaciuto a parte del mondo Lgbt, il movimento omosessuale e transessuale. Di sé dice: «Sono milanese: nata qui ma anche un po’ calabrese, americana, tedesca. Meticcia». Casa morbida, accogliente: libri, ricordi, foto, divani. Sguardo assertivo: si ferma, pensa, torna sempre al punto. E’ una pioniera della differenza sessuale: «Non c’è quasi più nessuna donna che voglia prendersi la briga di essere donna. La questione è la libertà di stare al mondo da donne, come soggetti che, per dirla in modo un po’ più complicato, non sono costrette a tagliare con se stesse e a mettersi a guerreggiare con gli uomini. Il rischio? Perdere se stesse».

Una donna amica delle donne, le parli e senti lo stesso modo di guardare il mondo. Si prende cura: «Sei venuta fino a Milano per intervistarmi? Beh, dopo vai a farti un giro, ti faccio vedere dov’è Lenno, lago di Como. Noi siano qui, Lenno è là, secondo me è molto bello, a Ossuccio c’è uno stupendo campanile romanico». Il lavoro e la vita: non solo autorità e controllo, ma ascolto, energia che corre, passione. Occhi di donna. Cerca le immagini sull’iPad, ti accudisce, mentre mostra il balcone di casa.

Violenza alle donne: un caso al giorno. A Parma Elisa Pavarani, 39 anni, è stata accoltellata dall’ex fidanzato: voleva lasciarlo.

«Anche solo il fatto che una donna voglia separarsi, può scatenare violenza. L’addio è diventato rischioso. Lasci il compagno e non sai come andrà a finire. E’ necessario proteggersi. Gli uomini dipendono da noi ma vivono un delirio di onnipotenza: l’indipendenza per noi è una disposizione naturale, ma per loro può essere devastante. Il delitto è l’estremo, ma tutte sperimentiamo la violenza e il dominio ogni giorno nei rapporti con l’altro sesso. Sappiamo di essere il terreno su cui si esercitano il disagio e la fragilità maschile. Il gesto incivile, lo sfogo rabbioso, la volontà di dominio. Eroghiamo lavoro di welfare anche su questo, contenendo la rabbia degli uomini. Parlarne a partire da noi, da quello che sperimentiamo, e non sempre dall’altra, aiuta a trovare un linguaggio, un simbolico efficace. La strada della consapevolezza passa di qui».

Abbiamo delle leggi che ci tutelano, eppure quelle che non denunciano la violenza sono più del 90 per cento. Perché?

«Le leggi servono ma non bastano: spesso sono inapplicabili. A Milano, per esempio, la quasi totalità delle denunce viene archiviata senza alcun atto di indagine. Anche nella lotta alla violenza abbiamo assunto un linguaggio maschile: la denuncia, il codice rosa. Non funziona così. Quello che la stragrande maggioranza delle donne fa – o non fa, non denunciando – va ascoltato. Alla loro scelta va data dignità. Questa ambiguità femminile non è semplicemente debolezza, ma tentativo di resistere, tenace ricerca di mediazioni. Quello che stanno cercando di fare è non essere del tutto vittime, conservare la competenza su ciò che hanno vissuto. Ina Praetorius parla di competenza dell’esserci».

Nel silenzio e nella solitudine non si va da nessuna parte, anzi si può morire.

«Bisogna trovare le parole, un simbolico che ci consenta di uscire di parlare di violenza come di una questione politica, e non più come di una sventura privata. Il contratto sessuale si è rotto, il patriarcato sta finendo: questo è il fatto politico. Noi continuiamo a consolare l’altra, e non diamo a questo fatto la dignità di un enorme fatto politico. Il grande seminario di Diotima quest’anno è dedicato al tema della violenza, ne parleranno le filosofe e sono molto contenta: si proverà a volare alto. La differenza sessuale va rimessa al centro. La crisi è pesata soprattutto sulle donne. Non solo e non tanto in termini di posti di lavoro, ma soprattutto come crisi di ritorno: tagli ai servizi, figli senza lavoro, mariti esodati con il loro disagio e la loro rabbia».

Abbiamo fatti enormi passi avanti. Anche nelle istituzioni, nei lavori che erano degli uomini, nella polis, là dove c’è il potere degli uomini.

«Siamo nello spazio pubblico. La vittoria di Hillary sarebbe un grande passo. Però penso che non basti. Dobbiamo trovare portare nella polis il nostro sguardo. Un esempio: sono stata per un anno e mezzo nella direzione nazionale Pd, ero convinta di trovare le altre, per me è naturale e indispensabile fare riferimento alle donne. Non le ho trovate, non ha funzionato».

Qual è allora il modo femminile di stare nel mondo?

«Adottare nello spazio pubblico i criteri che abbiamo da sempre usato nel cosiddetto privato. Portare i nostri modi, le nostre agende, le nostre priorità: l’attenzione all’altro, centralità della relazione. E farlo stando in dialogo con le altre. Ci vuole almeno un’altra donna con te, se vuoi combinare qualcosa. Un’altra che ti riporti costantemente alla genealogia materna. Diversamente non ce la fai».

Cosa pensa della polemica sul burkini? Giusto vietarlo?

«Credo che sia sbagliato pensare di vietare il burkini per legge. Il desiderio di liberarsene deve essere della donna che lo indossa: se glielo strappi non cambi nulla. Non puoi costringere una donna a essere libera e a esserlo secondo i tuoi criteri di libertà. Ovviamente quando si parla di infibulazione, di tutela dei corpi, di salute, leggi impositive sono necessarie. Ma la libertà obbligatoria non porta da nessuna parte: io posso solo esserci, lì accanto a lei, offrire i miei modelli, autorizzarla e accompagnarla nel suo percorso di liberazione. Il punto è sempre quello: ritrovare la differenza e giocarla nel mondo. Dentro le case, la nostra differenza era usata come una catena. Fuori dalle case, ci è stato chiesto di essere come gli uomini, rinunciando alla differenza sessuale».

Maschilismo. Nel saggio “Un gioco da ragazze” ha scritto che “una volta un uomo intelligente mi ha detto che l’essenza della virilità nell’esercizio del controllo sul caos minaccioso: ma quello che la cultura maschile legge come un disordine da controllare è semplicemente un altro ordine”.

«Il dominio dell’altro sesso sul sesso femminile è un artificio, quindi è continuamente minacciato. E’ un’impalcatura che rischia sempre di crollare e va costantemente riaffermata. Il fatto che qualcuna abbia cominciato a dire no ha incrinato la monumentale costruzione del patriarcato. Dalle crepe si è cominciata a vedere la finzione, il rovesciamento. L’invidia verso la potenza materna. Si sta smontando un sistema millenario con tutti i paradigmi che ne sono derivati: l’idea corrente di economia, i dispositivi politici, i modelli di convivenza. Tutto sta andando in pezzi. E noi, con i nostri gesti di libertà, siamo una minaccia evidente. La violenza contro le donne si radica qui».

Amore, maternità. Cosa hanno voluto dire nella sua vita?

Ho un figlio di 27 anni, vive solo qui a Milano. Nel rapporto con la maternità la mia generazione si è giocata molto. Sono rimasta incinta a 31 anni. All’inizio è stato conflittuale, ero una di quelle donne che rifiutavano la maternità come destino. Ero un ometto, pensavo di cavarmela negando il mio essere donna. L’esperienza della gravidanza e della maternità mi ha molto cambiato, come capita quasi a tutte. Non sei più il centro del mondo. Anche i padri spesso sperimentano questa secondarietà rispetto ai figli, ma per le donne è qualcos’altro: è lo spostamento del baricentro fuori di noi. La rottura dei limiti fittizi dell’individuo. Capisci che l’unità di misura è il due, non l’uno: cioè la relazione».

Cosa direbbe alle ragazze di oggi, che vivono la parità come un risultato acquisito?

«Non mi sembrano del tutto consapevoli. D’accordo, le “vecchie” lo hanno sempre detto delle “giovani”. Ma loro sono veramente convinte che tutto andrà liscio: con gli uomini, sul lavoro. Quand’è che vanno a sbattere? Quando vanno a convivere, e i loro compagni propongono modelli di relazione d’antan. Soprattutto con la maternità. Quando vedono i colleghi che fanno carriera, mentre loro, a parità di competenze, si sentono dire: “Mica vorrai fare figli!”. I costi della maternità incidono in modo irrisorio sui bilanci aziendali, questione di zero virgola. La questione è un’altra: non puoi volere sommare il potere maschile alla potenza materna? Ancora una questione di simbolico. Le ragazze pensano che la vita scorra via senza inciampi e quando c’è lo sgambetto, non hanno gli strumenti per capire. Noi li abbiamo costruiti».

L’ultimo libro, «Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli», ha suscitato infinite polemiche. Soprattutto da parte della sinistra e del mondo omosessuale.

«Gli insulti, pesantissimi, sono via via diminuiti, il processo di normalizzazione della Gpa sembra in stand by: solo pochi mesi fa, mentre scrivevo, la Gpa si presentava come un modo “normale” di avere figli. Era dato come un diritto acquisito e intoccabile. Adesso si è capito che c’è un problema. Sono soddisfatta di questo».

Uno degli argomenti di chi sostiene l’utero in affitto è quello del dono: si dice, la donna compie un gesto generoso verso chi non riesce o non può avere un figlio.

«Dove non ci sono soldi non c’è dono: ormai non provano nemmeno più a raccontarla, questa balla colossale. Insopportabile poi l’idea misogina della donna generosa fino all’abnegazione. Passa molto dolore in tutto questo, si fa mercato di una relazione intima come quella tra madre e figlio. Le gestanti non sono contenitori, sono le madri, quelle che i bambini riconoscono come madri. Spesso il loro terribile destino è imposto dalla violenza del marito, del padre, del fratello. Ma in primo piano va tenuta la creatura. Se neghi i superiori diritti del minore è la fine del mondo».

Ha scritto che il senso del limite lo mettiamo volentieri in funzione quando si tratta di sfruttamento delle risorse. Ma nel caso di fecondazione assistita e Gpa l’idea di darsi un limite è intesa come conservatorismo ottuso e omofobico.

«Il libro è stato sontuosamente recensito, ma quasi nulla sui media di sinistra. Anche se moltissimi a sinistra sono contrari alla Gpa. Ma c’è paura di uscire allo scoperto, si teme di essere giudicati antimoderni e contro i “diritti”. Mi aspetto che si parli sempre secondo coscienza, si discuta con verità, oltre le appartenenze. Non si tratta solo di sfruttamento del corpo delle donne, e del fatto che il bambino viene sottoposto per contratto a un’esperienza molto dura, la separazione dal corpo della madre: improvvisamente tutte le consapevolezze sulla psicologia infantile, sul rapporto madre-figlio, sembrano svanite. Il punto vero è che facciamo irrompere il mercato in una relazione, quella tra madre e figlio, che è fondamento di civiltà e di umanità. Lo facciamo burocraticamente, con un contratto, trasformando la riproduzione in produzione. E’ lo scippo della relazione madre-figlio, il sogno maschile originario: appropriarsi della potenza materna».

Gli uomini li amiamo. Come si fa?

«Ho fiducia nel fatto che se gli uomini troveranno il modo di essere uomini fuori dalla logica del dominio e dalle certezze dell’ordine patriarcale, se riusciranno a non mettersi più al centro e a riconoscere la loro differenza, la nostra civiltà avrà davvero svoltato. Saremo nel terzo tempo, il tempo del due. Noi donne cosa dobbiamo fare per dare loro una mano? Semplicemente essere donne».

Temporary mother

di Marina Terragni

Vanda, pag. 100, euro 10,00.


Pubblicato il

“Non possiamo assolutamente vendere i bambini che mettiamo al mondo”


di Luca Manes (La presenza di Maria, settembre 2016)


– Marina Terragni, giornalista e scrittrice, una delle voci più autorevoli e originali del pensiero femminile, ha scritto un libro per denunciare i pericoli della mentalità dell’utero in affitto. Un cammino, il suo, che nasce “per passione civile”. Come ci ha spiegato in questa conversazione. “Basta guardare l’immagine di Maria, per capire che andare a strappare il bambino dalle Sue braccia è una delle operazioni più violente che si possa concepire”.

Ogni anno migliaia di bambini nascono grazie alla pratica della maternità surrogata: più di duemila solo negli Stati Uniti, con un incremento annuo del duecento per cento. Un vero e proprio mercato in espansione a livello globale, nel quale le donne divengono oggetto di sfruttamento e il frutto del loro corpo, il figlio, oggetto in vendita. Diventa così possibile comprare quei figli che non ci è consentito avere. Basta pagare. È giusto? Perché una donna dovrebbe concedersi a una simile pratica?

Si può fare del proprio corpo quello che si vuole? Cosa significa essere una madre “surrogata”? Abbiamo affrontato la questione con Marina Terragni, milanese, opinionista e conduttrice radio e tv. Tra le prime blogger italiane, ha scritto per molte testate, fra cui “Io Donna”, “Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Panorama Mese”. È autrice di Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (VandA ePublishing), un pamphlet che analizza a trecentosessanta gradi l’argomento della surrogazione di maternità.

Come è nata in lei l’idea di scrivere un libro sul tema dell’utero in affitto? Un po’ per questioni biogra­fiche intime, un po’ perché sono stata testimone di almeno un paio di esperienze di surrogati. Mi sono sempre interessata a tutte queste tecniche di fecondazione assistita e negli ultimi anni ho messo gli occhi su questa faccenda, che è l’ultima evoluzione della tecnoscienza. Dopodiché la cosa è esplosa all’attenzione generale e allora ho messo insieme quelle riflessioni che avevo fatto in questi anni, continuando a pensarci. Il libro nasce per passione civile. Credo che quando si vanno a toccare i con­fini tra la nascita, la vita e la morte, ogni leggerezza e ogni ideologia vadano bandite. Tocchiamo i fondamentali della civiltà umana.

Quali sono gli elementi per cui lei critica questa pratica? Il fatto che sull’abbraccio tra la madre e il ­figlio si fonda la nostra civiltà. Anche quella precristiana nasce dalla presa d’atto di questo legame sacro e inviolabile in cui l’amore raggiunge la sua forma più alta, la sua perfezione. Poi basta guardare l’immagine di Maria, ricordarsi di che cosa signi­fica quell’e gie, per capire che andare a strappare il bambino dalle Sue braccia è una delle operazioni più violente che si possa concepire.

Secondo lei è possibile per la donatrice di utero sottrarsi alla relazione con la creatura che mette al mondo? È possibile, nel senso che alcune persone lo fanno. È un’azione che si può realizzare praticamente. Ma che fare questo porti alla nostra specie un sovrappiù di felicità, questa è una cosa da discutere. Evidentemente alcune persone ritengono di poterlo fare. Bisognerebbe svolgere un’indagine attenta su queste madri surrogate, interrogarle a fondo. Naturalmente non sto parlando di quelle povere donne del mondo che vengono messe sul mercato dai loro parenti, mariti, fratelli e padri. Diciamo che, se parliamo di una donna occidentale, con una situazione economica non disastrosa, c’è questa apparenza di libertà dentro la quale bisognerebbe andare a guardare attentamente. È comunque un gesto auto-violento. La gravidanza è un processo impegnativo per il corpo di una donna, rischioso. Quindi mi sembra davvero strano che oggi una donna in piena libertà non consideri almeno questi aspetti della questione. Ci devono essere sicuramente delle forti motivazioni per farlo e queste sono praticamente sempre di carattere economico, anche per quelle donne che non sono indotte dalla fame, dalle necessità materiali. Solo per casi rarissimi, si possono contare sulle dita di una mano, si può parlare di gravidanze solidali.

Si è generato un vero e proprio mercato attorno al fenomeno delle madri surrogate? Sì, certo. In una situazione ideale in cui non ci fosse questa preponderanza del mercato in ogni fatto umano, forse questa sarebbe una pratica concepibile. Il problema è che su centocinquanta mila euro che possono andare in California a una surrogata, in tasca a lei ne andranno venticinque. Tutto il resto è sfruttamento.

Perché non si può fare del proprio corpo quello che si vuole? Intanto ci sono delle leggi italiane ed europee che parlano d’indisponibilità del proprio corpo. È ammesso un suo uso solidale, cioè posso donare un rene anche a uno sconosciuto, posso donare il sangue, ma non posso fare mercato dei miei organi. Ma la cosa più importante è che in questo caso, a differenza della donazione di organi, c’è un terzo che andrebbe tenuto per primo, ed è la creatura che nasce. Posso anche pensare di fare di me quello che mi pare, ma il frutto del mio corpo, ovvero il bambino, non è mio. Nessuno di noi può fare commercio dei propri figli e quindi non si vede perché in questa situazione bisognerebbe ammettere un’eccezione. Non possiamo assolutamente vendere i bambini che mettiamo al mondo.

Come si è arrivati a questa cultura del possesso, per cui la donna è una cosa che può essere sfruttata e comprata? La cultura del possesso del corpo femminile è antica e millenaria. I corpi femminili facevano parte delle risorse materiali di un mondo governato dagli uomini, un atteggiamento tipico di una società di tipo patriarcale. Nel corso della storia, però, c’è stato un moto di liberazione da parte delle donne, che hanno ritenuto di poter decidere che cosa fare di se stesse e del proprio corpo, del proprio io. Questa di oggi mi sembra che sia una brutale fuga all’indietro, un ritorno al pensiero delle donne da considerarsi come risorsa materiale. Del resto abbiamo molti esempi oggi di ritorno all’indietro.

È un momento difficile per la libertà femminile. Da dove si riparte? Dal non aver paura di dire la verità. Sono convinta che la stragrande maggioranza dei cittadini europei sia contraria alla surrogazione. Tuttavia è solo una minoranza che parla contro la surrogazione. Ci sono persone che non si pronunciano perché non vogliono rogne, non è moderno esprimersi su un tema del genere, si teme di offendere i diritti delle coppie gay… Ma occorre attivare la propria coscienza davanti a ogni prova della vita, dalle più piccole alle più grandi, e ri­fiutare le formule preconfezionate di qualunque pensiero unico. C’è da fare una grande lotta contro il conformismo.