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Julie Bindel: “La prostituzione cancro sociale”


di Francesco Rigatelli (La Stampa, 8 marzo)


– Amnesty International?

Il mondo del cinema? Amnesty International? I medici contro l’Aids? Favoriscono tutti lo sfruttamento della donna. Lo sostiene Julie Bindel, attivista inglese, collaboratrice del Guardian e fondatrice di Justice for woman, nel suo libro Il mito Pretty woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione edito da Vanda con Morellini. Camicione bianco e fare da mastino, l’autrice, 56 anni, non teme la definizione di femminista radicale. Per lei semplicemente la prostituzione andrebbe proibita come il fumo. E chiunque la depenalizzi o semplicemente la accetti ne è complice.

Dopo due anni di ricerca e 250 interviste nel settore, Bindel sfata il mito della prostituta felice: «Non si tratta mai di una scelta della donna. È sempre un abuso pagato dal cliente. Infatti, parlare di lavoratrici del sesso è sbagliato, perché non è un lavoro e non è sesso. E anche definire i compratori di sesso come dei clienti è l’inizio di un abuso».

L’autrice, forte di viaggi in luoghi problematici per i diritti delle donne come l’India, la Cambogia, Dubai e la Turchia, ma anche negli Stati Uniti, in Germania, in Svizzera e nei Paesi Bassi, entra nel sistema: «Spesso il contratto è tra l’uomo e il pappone e anche quando l’accordo è diretto chi paga lo fa per il corpo della donna. Lui paga, ma lei non vuole veramente». Più che un libro sulle donne, il suo è uno studio sulla responsabilità degli uomini: «Invece di fare tante domande sul perché e il percome una finisca per prostituirsi, la vera questione è perché ci sia chi paghi per avere un rapporto non consensuale. Molti uomini sostengono di avere più diritto al sesso delle donne». Per Bindel dunque la prostituzione è essenzialmente «una questione di potere, perché molti uomini non desiderano nessuna interazione umana».

E anche la cosiddetta «girlfriend experience» del film Pretty Woman del 1990 di Garry Marshall con Richard Gere e Julia Roberts finisce per far passare «una schiavitù normalizzata». Così come Amnesty International, che è per la depenalizzazione del settore e non distingue lo sfruttamento in base al sesso «eppure è risaputo che la maggior parte dei compratori sono maschi e delle sfruttate sono femmine». Stesso discorso per «la lobby gay dei medici contro l’Aids, che include nella libertà sessuale pure la prostituzione». Altro rischio è la rete delle webcam, dove avviene secondo l’autrice «la connessione tra pornografia e prostituzione per i compratori di sesso virtuale».