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Marina Terragni. Temporary Mother


(Il Foglio, 29 giugno 2016)


– Sul valore sociale della maternità c’è ancora da discutere. Sul suo valore economico non ci sono più dubbi: dai 120-150 mila dollari all inclusive della California – la gestante premium costa un po’ di più – ai 20-30 mila per una docile surrogata indiana.

Esordisce così il pamphlet che la giornalista e blogger Marina Terragni dedica al tema “utero in affitto e mercato dei figli” (anche ebook a 5,90 euro), e che smaschera, spesso ridicolizzandola, la neo-lingua orwelliana con la quale per “altruismo” e “dono solidale” si intende il loro esatto contrario. Era difficile condensare in cento pagine una mole tanto notevole di informazioni e di considerazioni, ma l’autrice è un’osservatrice attenta del fenomeno della tecnoscienza applicata alla generazione umana almeno dalla metà degli anni Ottanta. Ad assisterla c’è anche uno sguardo sulle cose abbastanza libero da non trovare imbarazzante, per una femminista come lei, “il fatto di trovarsi dalla stessa parte della Chiesa nella resistenza all’utero in affitto”. Che “i figli non si pagano” non diventa meno vero, infatti, se lo dicono i cattolici. La produzione di bambini tramite forza lavoro femminile pagata per coprire il ruolo di “madre temporanea” tenuta a consegnare il figlio non è più una realtà edulcorabile. Nemmeno da parte di chi, per esempio la giurista israeliana Carmel Shalev, un tempo elogiava la “gestazione per altri” come mezzo di liberazione dalla “tirannia della procreazione”. Anche lei deve oggi “convenire sul fatto che la maternità per contratto ha dato luogo a un esteso mercato dei bambini in cui le donne non si liberano affatto e non sono altro che mezzi di produzione”. Alla base di tutto c’è, scrive Marina Terragni, “un grandioso piano patriarcale”, che rendendo merce tra le altre la gestazione e il parto, azzera la relazione tra madre e figlio, il “protagonista muto della vicenda”, le cui ragioni “andrebbero tenute per prime” e che invece diventa a sua volta merce. La cancellazione della madre è pianificata attraverso clausole contrattuali che negano al nato da utero in affitto quello che dovrebbe venir meno solo per motivi gravissimi, quando non tragici: malattia o morte della madre, gravidanza non desiderata. “La surrogazione è l’estremo acting out dell’invidia dell’utero. E’ il sogno maschile radicale – cancellare il fatto di essere nati da una donna – che prende corpo con l’ausilio della tecnoscienza e del bio-business”. Per questo, “oggi si riconosce che quello che molte donne stanno dicendo sull’utero in affitto lo stanno dicendo per il bene di tutti. Che quel tenere sempre al centro la relazione è per la felicità di tutti”.