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Cinque domande a Giuseppina Norcia

Giuseppina Norcia, autrice di Siracusa. Dizionario sentimentale di una città, risponde ad alcune domande della redazione di VandA.

Siracusa è la tua terra. C’è un luogo specifico della città che più di altri preferisci, o a cui sei legata da ricordi particolari?
Di Siracusa amo molto la luce, quella bellezza accecante in cui si incontrano i colori del cielo e la roccia bianca che è la parte corporea della città, dei suoi templi e dei palazzi antichi, delle cave di pietra e delle grotte marine che d’estate visito spesso, nuotando. Lì abitano ancora gli dèi…
Il posto che più di ogni altro sintetizza questa magia è il Teatro greco, il mio luogo dell’anima da sempre. È un luogo del pensiero e del sentimento, il posto del “primo appuntamento” con la persona che amo, la fonte d’ispirazione di tanti progetti.
Vorrei scrivere una storia ambientata proprio lì, è già nella mia testa.

La passione per il mondo classico e il teatro: da quando ti accompagna e come si è alimentata?
Credo che il primo incontro risalga ai racconti di mio padre, appassionato narratore dell’Odissea, la grande “storia seriale” della mia infanzia. Quando avevo dodici anni, poi, mia zia mi portò con sé a vedere una tragedia di Euripide al Teatro greco: ricordo Elena Zareschi, sublime, maestosa; la dignità e la potenza del gesto, della parola.
Fu una folgorazione. Non sapevo ancora che la drammaturgia antica sarebbe divenuta materia di studio e successivamente di lavoro come autrice e divulgatrice culturale, ma in realtà queste emozioni tracciavano in segreto la via che avrei percorso.
Quella per la cultura classica è una passione che cresce e si rinnova. La sfida sta nel coglierne la vitalità, la relazione con i luoghi e con il sentire dell’uomo di oggi.
Credo fermamente che il Mito sia “Arte contemporanea”, che possa svelarci la misteriosa trama della vita.

Hai una tragedia e/o un personaggio mitologico preferito?
Sono molti, a volte variano quasi rispondendo alle esigenze del momento o delle mie trasformazioni. Oggi tra gli dèi sceglierei Atena, per la profondità della sua intelligenza, la ricerca dell’equilibrio frammista al coraggio e alla potenza nel combattimento. È la dea di Atene, che “conquista” il cuore della sua gente con un dono speciale: l’albero dell’ulivo. Mi piace pensare che il grande albero del Mediterraneo provenga proprio dalle mani della dea!
Tra gli eroi scelgo Achille, personaggio a cui ho dedicato anni di studio e scrittura. Simone Weil, in un libro di rara intensità, definisce L’Iliade “il poema della forza”.
Percorrendo i passi di Achille, anche oltre l’Iliade, tuttavia vedo altro, la forza ma anche una fragilità quasi struggente, l’ambizione congiunta ad un incontenibile desiderio di amare. In lui si contendono il dominio l’ombra della morte e una straordinaria vitalità.
Come un acrobata Achille volteggia tra contraddizioni insolubili, e questo fa di lui un personaggio indimenticabile.

Il tuo libro I racconti del loto (VandA ePublishing, 2015) si ispira alle parabole della tradizione buddhista. Come nasce questo tuo legame con il buddhismo?
Pratico il buddhismo di Nichiren Daishonin da 17 anni. È una religione ed un insegnamento filosofico in cui mi sono subito sentita a casa, come fosse il ricordo di qualcosa che conoscevo già. In questa grande “palestra spirituale” ho imparato la dignità della vita, l’importanza del coraggio e dei tesori del cuore, l’immenso potenziale che abbiamo di trasformare le sofferenze e i limiti in esperienze di grande valore.
Questo senso di speranza, questa ricerca della felicità è la sorgente e l’anima de I Racconti del loto.
I personaggi di queste storie sono eroi che lottano con se stessi: devono vincere la paura e la sfiducia per scoprire che il seme della vittoria e della sconfitta risiede sempre nel nostro cuore. Uno di loro, il generale Li Kuang, riesce a trafiggere una roccia con una semplice freccia grazie al potere della determinazione e della fede. Quando dubita, però, le cose vanno diversamente, pur nelle stesse circostanze.
È ciò che accade costantemente nella nostra vita. Anche per questo, I Racconti del loto è un libro a cui tengo particolarmente, che mantiene lo stupore dei bambini ma parla a persone di ogni età.

Infine, tradizione buddhista e cultura classica hanno elementi in comune o sono mondi separati?
Aristotele diceva che lo scopo della vita, e dunque della filosofia, è la felicità. Il Sutra del Loto definisce la felicità “il desiderio che esiste da sempre in fondo al cuore”. Questa ricerca è forse l’elemento in comune più significativo, quello che tengo come punto saldo nella mia vita e nel mio lavoro. Di certo i conflitti e le sofferenze non sono sempre evitabili, ma nella visione buddhista sono “trasformabili” al punto da divenire rimedi e alleati, proprio come un antidoto contiene una piccola parte di veleno. Anche questo aspetto ci riporta al Mito: non a caso Pegaso, il cavallo alato cavalcato dagli eroi, nasce dal collo decapitato della Gorgone.
Il “mostro”, dunque, può generare un cavallo alato!
Il buddhismo, con la sua visione profonda della vita, mi ha dato una chiave in più per comprendere e trasmettere la cultura umanistica. “Conosci te stesso”, dice il celebre motto delfico che ispirò Socrate, in perfetta aderenza con la visione buddhista.
È proprio così. Tutto comincia dalla rivoluzione umana di un singolo individuo. Allora si può cambiare il mondo.

Giuseppina Norcia è nata a Siracusa nel 1973. Ama la musica, il mare, la buona cucina e i racconti intorno al fuoco. Da anni si occupa di divulgazione culturale, con particolare riferimento al teatro antico, alla cultura classica e alle sue “persistenze” nella contemporaneità. Ha realizzato progetti didattici con università italiane e straniere e ha lavorato per oltre dieci anni presso la Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Negli ultimi anni ha tenuto corsi di drammaturgia antica e coordinato laboratori per ragazzi sul teatro classico, la lingua italiana e la trasformazione creativa dei conflitti. È autrice di contributi, di taglio sia scientifico sia divulgativo, relativi alla storia di Siracusa e alla messinscena contemporanea della tragedia greca, pubblicati su riviste specializzate (tra cui Dioniso), e di articoli sulla filosofia e sulla religione buddhista. Con VandA ha pubblicato Siracusa. Dizionario sentimentale di una città (2014), tradotto anche in inglese e in francese, e I racconti del loto (2015).

 

 

 

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Cinque domande alle fondatrici di VandA

Giulia, Egle, Silvia e Silvia – il team di VandA – giovani donne che vorrebbero intraprende una carriera nel mondo dell’editoria, hanno rivolto alcune domande alle tre donne che nel 2013 hanno fondato la casa editrice: Silvia Brena, Angela Di Luciano, Vicki Satlow. Scopriamo insieme a loro cosa significa essere editore indipendente al giorno d’oggi.

L’editore indipendente: lo fareste di nuovo? Che cosa consigliate alle giovani donne che vorrebbero affrontare una simile impresa?

Silvia – L’avventura di VandA è ed è stata entusiasmante. Seguire la nascita di un libro dalla progettazione all’uscita è come vedere idee, storie e sogni prendere corpo. E poi VandA è una vera “impresa” al femminile: noi donne siamo organizzate e disorganizzate, perfezioniste ma estemporanee, disciplinate e indisciplinatissime. Un’avventura quotidiana!
Angela – Sì, lo farei ancora, le nevrosi sono difficili da guarire. Francamente, considerando le risorse con cui siamo partite, penso che abbiamo fatto il meglio e trovato un business model funzionante, quindi, stando così le cose, non cambierei niente. Ma potendo, cambierei il budget… Al cuor non si comanda!
Vicki – Ripeterei l’avventura di VandA mille volte, magari la prossima con un investitore… Un consiglio alle giovani donne: imbarcatevi in avventure di questo genere solo con cari amici, è un viaggio gratificante ma molto duro.

Tre parole per descrivere VandA ePublishing:

Silvia – Curiosa. Puntigliosa. Coraggiosa.
Angela – Tenace. Coraggiosa. Scanzonata, un’amazzone bambina.
Vicki – Anarchica. Creativa. Audace.

Si parla di un ritorno del femminismo con manifestazioni in tutto il mondo. Dando uno sguardo ai titoli in catalogo, sembrerebbe che VandA si sia caratterizzata nel tempo per un impegno programmatico di sensibilizzazione sulle tematiche del femminile e del materno. Era questo il vostro obiettivo?

Silvia – Il punto di vista delle donne in questi tempi difficili è fondamentale. Per esempio, il pensiero di Genevieve Vaughan sull’economia del dono, di cui VandA ha pubblicato gli scritti principali, rappresenta un’inedita e, secondo me, efficacissima sintesi per ripensare l’economia ai tempi in cui l’1% dei ricchi al mondo è più ricco del restante 99%. Quindi sì, credo che il pensiero delle donne abbia trovato forza e originalità.
Angela – Sì, anche se non dichiarato. Siamo tutte donne e più o meno femministe, e chiaramente è stato il nostro punto di vista fin dall’inizio. Il punto di vista delle donne è fondamentale come approccio politico, sociale, culturale e quindi editoriale. Questa è stata la sfida più importante di VandA e penso che siamo riuscite a dare un vero contributo in questo senso. Sul femminismo attuale nutro qualche perplessità: bene che Christian Dior produca magliette con la scritta “We should all be feminists”, sacrosanto. Ma se le rappresentanti di questo femminismo sono Beyoncé e Sheryl Sanderberg…
Vicki – Non coscientemente, come ogni attività VandA riflette il carattere e la passione di chi la dirige: tre donne con idee chiare, responsabilità civili e sociali. È evidente, io credo, che ogni attività debba essere svolta con passione: senza impegno non ci sono possibilità di riuscita.

A quattro anni di distanza come reputate il percorso di VandA, rispetto alle aspettative iniziali? Credete ancora nella formula dell’ebook? 

Silvia – Un cammino faticoso, ma ricco di spunti e soddisfazioni. E l’editoria digitale resta una delle grandi opportunità per gli autori e gli editori.
Angela – Non è stato un successo ma neppure un fallimento. Ritengo che VandA sia una realtà interessante nel panorama editoriale, non ancora incisiva, ma con un chiaro posizionamento e un lodevole lavoro di ricerca. Al di là di qualsiasi evidenza, ci credo ancora!
Vicki – Fare l’editore è più difficile e il mercato è più povero di quanto potessimo immaginarci quando abbiamo cominciato. Io credo nelle storie e nella lettura in tutte le sue forme.

Infine, qual è l’ultimo libro che avete amato e quale l’ultimo odiato?

Silvia – Oddio, come fa un editore a odiare un libro? Dico un libro che ho amato molto: L’uomo di fiducia, di Herman Melville. Ha qualche annetto, ma  – come sa fare la buona letteratura – è visionario, perché in pieno Ottocento ha saputo spiegare il carattere dell’americano medio bianco… Come dire: ecco perché si è arrivati a Trump!
Angela – Ultimo amato La scuola cattolica di Edoardo Abbinati. L’ultimo odiato? Sono tanti. Uno per tutti l’ultimo di Saviano.
Vicki – Non si può provare odio per un libro, può mancare la connessione, si può non essere d’accordo. L’odio è un concetto che va molto di moda, oggi, ma non ci si può riferire con odio a un’opera d’arte. L’ultimo libro che ho amato? Il Miracolo dell’Acqua, di Masaru Emoto.

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Sicilia, il triangolo bello


di Alessandro Cannavò, (Corriere della Sera, 10 marzo 2017)


– Eschilo, padre della tragedia greca, decise di finire i suoi giorni qui, sospeso tra la storia e il mito. Archeologia, barocco e natura: venite a scoprirle con il «Corriere».

 

Eschilo è qui. Te lo immagini passeggiare nell’isola di Ortigia, tra il tempio di Athena e quello di Apollo; oppure nel ruolo di regista al Teatro Greco. Sì, perchè il grande drammaturgo che combatté nella battaglia di ;aratona vinta dai Greci contro i Persiani, venne a Siracusa (poi finì i suoi giorni a Gela), dove realizzò due tragedie appositamente concepite per una delle platee archeologiche oggi meglio conservate. È da questa cavea che parte il nostro viaggio nella Sicilia Sud Orientale, il triangolo estremo dell’Europa. Nei giorni del tour proposto dal Corriere andrà in scena I sette contro Tebe al festival del dramma antico. Lo scontro etico, politico, familiare dei fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo, ci ribalta addosso, come accade sempre nella tragedia greca, dilemmi attualissimi.

Il mito come fuoco che alimenta da sempre le pietre, i colori, gli umori di questa città siciliana. Ce lo spiegherà la scrittrice e divulgatrice culturale Giuseppina Norcia che a Siracusa ha dedicato una «biografia» affascinante, giocata tutta sulla contrapposizione tra luce e buio. La luce abbagliante del sole e della pietra calcarea, il buio delle latomie (le cave di pietra) e delle catacombe, le più estese dopo quelle di Roma. L’ingresso nella cattedralecon la splendida facciata barocca che domina una singolare piazza a mezzzaluna, è da brivido. Le possenti colonne doriche del tempio di Athena sono la struttura portante dell’edificio cristiano. Dimentichiamo per un attimo guerre e distruzioni: l’arte e la fede di epoche diverse qui si abbracciano in una fusione miracolosa. E, giurano i siracusani, la patrona santa Lucia ( di cui in cattedrale non si conserva il corpo ma solo un prezioso simulacro) discende da Antigone.

Sono un siciliano etneo trapiantato al nord ma che ha scelto di farsi adottare (mi trovo in una sempre più nutrita compagnia) da questo lembo di terra. Provo la rabbia per un’isola vittima del suo malgoverno, delle tante cifre umilianti che la pongono spesso agli ultimi posti delle classifiche nazionali ed europee. ma proprio per questo cerco di impegnarmi nel far conoscere le persone di qualità, comunque numerose, che qui brillano più che altrove. Il viaggio si snoda, così lungo una serie di incontri. E sul filo della narrazione: da sempre il modo più congeniale per raccontarsi, dalla tragedia antica all’opera dei pupi.

È un affabulatore della natura il botanico Paolo Uccello che ci condurrà a Pantalica, nella più vasta necropoli rupestre d’Europa a picco sullo spettacolare canyon del fiume Anapo, e nella riserva costiera di Vendicari, dove la storia della vecchia tonnara si intreccia con lo spettacolo delle formazioni di volatili migratori. Uccello è un profondo conoscitore dell’uso delle piante nella medicina popolare e arricchisce le sue spiegazioni di proverbi e pregiere dialettali. Noto è a due passi e vedendola da lontano, come una stampa settecentesca, vengono in mente le parole di Vincenzo Consolo ne Le pietre di Pantalica in cui lo scrittore spiega la smania, a ogni suo ritorno in sicilia, di esplorare posti e incontrare persone come «un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca».

Nel «giardino di pietra» barocco (così la definì lo storico e critico d’arte Cesare Brandi) un artista della pasticceria, Corrado Assenza, titolare del caffè Sicilia, ci ricorderà i sapori della ricotta col miele della nonna e ci svelerà l’alchimia della maionese al pistacchio e l’arte della granita.

Nel campo dei sapori è illuminante la scelta di Simone Sabaini, emigrante al contrario: verenose che lavorava nella finanza e che in un’inversione di vita «a U» ha deciso di trasferirsi a Modica per fondare l’azienda di cioccolato Sabadì: tradizione antichissima locale unita a un’idea di commercio del cacao equo e solidale nella scenografica città che Gesualdo Bufalino definì in Argo il Cieco «un paese in figura di melagrana spaccata».

Ma siamo già nel Ragusano e dunque in odor di Camilleri e di Commissario Montalbano. Gli scenari sono quelli di Ragusa Ibla e di Scicli. Elio Vittorini ne La città nel mondo descrive ques’ultima «festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e di scampanii» e la paragona a Gerusalmme. Lo storico Gaetano Falla ci svelerà la vita delle grandi famiglie in uno degli edifici più noti, Palazzo Spadaro.

E la Sicilia interna dei muretti a secco che scandisce il tragitto verso Piazza Armerina per ammirare gli splendidi mosaici romani della Villa del Casale; e poi a Caltagirone, la capitale della ceramica, dove un artista di fama internazionale come Giacomo Alessi, ci mostrerà la sua ricerca verso nuove forme contemporanee. Il finale è al Monastero dei Benedettini a Catania, il più grande d’Europa, dove il barocco si confronta in un corpo a corpo con la lava e trova un arbitro impeccabile nell’intervento architettonico contemporaneo del progettista Giancarlo De Carlo. La visita al complesso è affidata a Officine Culturali, un caso di successo tra imprese giovanili. La cultura come fonte di sviluppo. Proprio quello di cui ha un bisogno urgente, vitale, la Sicilia.


 

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Marco Voleri, “Dobbiamo rallentare per poter vivere la nostra vita con pienezza”


(Libreriamo, 18 febbraio 2017)


– E se potessimo rivivere la nostra vita al contrario senza poter cambiare nulla di quello che abbiamo fatto? Di questo parla Marco Voleri…

E se potessimo rivivere la nostra vita al contrario, da oggi al giorno della nostra nascita, senza poter cambiare nulla di quello che abbiamo fatto? Cosa proveremmo? Scopriremmo qualcosa di nuovo? Quale valore assumerebbero gli eventi? Ci renderemmo forse conto di esserci persi qualcosa lungo il nostro percorso? Di questo parla “Senza di te il treno non parte” (VandA), il secondo libro di Marco Voleri, tenore professionista già autore dell’autobiografia “Sintomi di felicità“, nella quale ha raccontato la sua reazione alla sclerosi multipla che l’ha colpito. Abbiamo intervistato l’autore. Ecco cosa ci ha raccontato.

“Senza di te il treno non parte” è in qualche modo un elogio della lentezza. Perché dovremmo rallentare? Cosa ci guadagnamo?

Più che un elogio  alla lentezza trovo che il romanzo sia una riflessione sulla consapevolezza dei momenti di vita vissuti a pieno, a metà o semplicemente non vissuti, bypassati in una modalità frenetica di vivere, senza gustare di fatto tutto quello che la vita quotidianamente ci offre. Un po’ la differenza tra vivere e sopravvivere. Se per lentezza si intende la possibilità di vivere in pienezza la vita, scorgerne colori ed odori senza passarci in mezzo come fossimo, appunto, un treno… allora sì, il guadagno in questo caso risiede proprio nel rallentare, consapevolmente. Per dirla alla Mogol “rallentare per poi accelerare, con un ritmo fluente di vita nel cuore”.

Qual è la cosa più importante che Francesco scopre ripercorrendo a ritroso la sua vita?

Il valore di attimi di vita “sopravvissuti”. Il Francesco quarantenne impara spesso da quello che lo ha preceduto. Si trova frequentemente in mezzo a un ripasso dei sentimenti. Come dire: se prima non aveva minimamente dato peso a una parte della vita vissuta, adesso le priorità diventano proprio i gesti dimenticati, le frasi scritte su un biglietto di auguri, le parole non dette, sostituite spesso da un sorriso di circostanza. Il suo evidenziatore mentale ha sottolineato, nel viaggio fantastico che stava facendo, proprio quei paragrafi di vita che aveva attraversato distratto, con sufficienza. E tutto, come per magia, è più bello rispetto al viaggio d’andata.

Francesco, il protagonista, è come lei un musicista. Cos’ha di speciale il linguaggio della musica?

La musica, semplicemente, esiste per parlare di ciò di cui la parola non può parlare. Questo non lo dico io, ma lo scrittore e saggista francese Pascal Quignard. Concordo pienamente con questa prospettiva. Quante volte, in vita vostra, vi siete trovati ad ascoltare alla radio, durante un viaggio, un brano che vi ha immediatamente catapultato l’anima in un momento intenso vissuto? Una specialità del linguaggio della musica è certamente questa. Non è l’unica, sia chiaro. Francesco si separa raramente dal suo violoncello, che è di fatto un prolungamento fisico della sua anima.

Quali scenari apre la possibilità di rivivere il passato, diversamente a livello emotivo? Che poi è quello che racconta il romanzo…

Sicuramente lo scenario della nave rompighiaccio. Francesco, in un determinato momento del racconto, si trova a navigare “nel mare gelato di emozioni ibernate, volutamente non vissute, a volte neanche scorte. E adesso come per miracolo liberate, come una grande emorragia di sentimenti veri.” E’ di fatto costretto a fare i conti con emozioni passate e volutamente non vissute nel viaggio di andata. Era faticoso affrontarle, all’andata,  e comportava una grossa messa in discussione di se stesso. Ma qualcuno, di fatto, gli ci ha fatto sbattere il naso.

Il lettore arriva all’ultima pagina e chiude il libro. Cosa spera che gli sia rimasto dalla lettura?

La stesura di questo romanzo è nata osservando le persone. Per strada, al supermercato, in metro, ovunque. Mi sono chiesto, un bel giorno, quante emozioni non vissute ci potessero essere nella vita frenetica di tutti i giorni, e ho sognato ad occhi aperti quanto sarebbe fantastico poterle rivivere. Spero che al lettore possa rimanere l’avida voglia di vivere e non sopravvivere, nemmeno per un giorno, un’ora o un minuto della sua vita.


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Il rivoluzionario Tolstoj contro la pazzia moderna


di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 12 febbraio 2017)


– Fioccano in libreria rarità e inediti dell’ultima fase del grande scrittore russo o a lui dedicati. Tra i titoli più interessanti la lettura politica offerta da Lenin e la stroncatura di Shakespeare.

La situazione è grosso modo questa: Shakespeare non è abbastanza cristiano per Tolstoj e Tolstoj non è abbastanza rivoluzionario per Lenin. A dispetto delle apparenze, però, la simmetria è tutt’altro che perfetta. Lenin è disposto ad ammettere la grandezza artistica di Tolstoj, pur continuando a denunciarne la debolezza politica. Nell’interpretazione di Tolstoj, al contrario, di Shakespeare non si salva nulla, tanto meno la sbandierata reputazione poetica che – secondo l’autore di Risurrezione – sarebbe il risultato di un’allucinazione collettiva tanto imponente da sconfinare nel complotto.

Non c’è che dire, l’intreccio dei titoli che si rincorrono in questi giorni nelle librerie italiane è abbastanza vertiginoso, ma non per questo meno istruttivo riguardo alla singolarità di quello che, a oltre un secolo di distanza, viene ancora da definire “il caso Tolstoj”. Il romanziere prodigioso che rinnega la letteratura, salvo continuare a servirsene per una più alta finalità morale. Ma prima ancora il convertito che, nel suo desiderio di attingere alle ragioni del cristianesimo più autentico, finisce per fondare suo malgrado (“a sua insaputa”, si sarebbe tentati di dire, se l’espressione non suonasse irriverente) una religione a sé stante, il famoso e a tratti famigerato “tolstoismo”. Ce n’è di che ragionare e leggere, anche soltanto limitandosi alle uscite delle ultime settimane.

Che comprendono, oltre alla scelta di testi Sulla pazzia del nostro tempo e del mezzo per rinsavire di cui si occupa Giorgio Agnisola in questa pagina, le riproposte di uno scritto sotto ogni aspetto decisivo come Che fare, dunque? (traduzione di Flavia Sigona, Fazi, pagine 246, euro 20,00) e di un pamphlet finora abbastanza maltrattato dall’editoria italiana, ovvero Su Shakespeare e il dramma (a cura di Roberto Coaloa, Libreria Utopia, pagine 140, euro 17,00). Fin qui siamo sul versante della riscoperta delle opere di Tolstoj, un ambito al quale appartengono anche la ripresa del manifesto vegetariano Contro la caccia e il mangiar carne (a cura di Gloria Gazzeri, VandA, pagine 66, disponibile in ebook o nei negozi on line) e l’edizione commentata della tardiva e oggi attualissima novella Denaro falso (a cura di Dario Pontuale, con un saggio di Leone Ginzburg, Ianieri, pagine 208, euro 10,00).

Senza dimenticare che l’anno da poco concluso ci ha portato una nuova importante versione del capolavoro Anna Karenina, allestita da Claudia Zonghetti per Einaudi (pagine 962, euro 28,00). Bene, e Lenin? Composti tra il 1908 e il 1911 – a ridosso, cioè, della morte del conte Lev Nicolaevic, avvenuta nel 1910 all’età di 82 anni – gli Scritti su Tolstoj del leader bolscevico arrivano ora in Italia grazie alla mediazione di Roberto Peverelli, che ne introduce la raccolta per Medusa (traduzione di Luana Salvarani, pagine 80, euro 9,50). Piccolo libro, d’accordo, ma che aiuta a mettere ordine fra Tolstoj e il tolstoismo, avanzando una critica che, in modo tutt’altro che imprevedibile, trae spunto dalla stessa filosofia della Storia su cui si basa la visione espressa in Guerra e pace.

Così come non sono i condottieri a vincere le battaglie, ma gli anonimi soldati che compongono gli eserciti, per Lenin il merito principale di Tolstoj sta nell’essersi fatto portavoce delle istanze di rinnovamento susseguitesi in Russia tra l’abolizione della servitù della gleba nel 1861 e la fallita rivoluzione del 1905. Laddove si allinea alle necessità del popolo, Tolstoj rasenta la genialità. Fallisce miseramente, invece, quando pretende di ricondurre alla dimensione religiosa un sommovimento che, secondo Lenin, non può essere risolto se non attraverso il rigore del materialismo storico. Proprio su questo punto Tolstoj avrebbe avuto di che obiettare.

Il tumultuoso ragionamento di Che fare, dunque? (apparso nel 1886, il saggio mutua il titolo da un romanzo di Nikolaj Cernyševskij poi riecheggiato dallo stesso Lenin) non lascia spazio all’equivoco: o la trasformazione sarà spirituale, oppure non sarà. Prima ancora che dalla rilettura dei Vangeli, l’intuizione proviene dalle conversazioni con il contadino Sjutaev, la cui frequentazione fu determinante per le convinzioni dell’ultimo Tolstoj. Se la scena iniziale di Che fare, dunque? ci mostra lo scrittore turbato dalla scoperta della miseria urbana (ma su questo, forse, gli sarebbero potuti essere d’ammaestramento già i romanzi del rivale Dostoevskij), l’approdo finale consiste nella condivisione della fatica nei campi, in una prospettiva per cui l’ascesi personale si trasforma in riscatto collettivo. In più di un’occasione la polemica tolstojana contro la divisione del lavoro rimanda davvero alle osservazioni di Marx, ma non meno insistita è la rivendicazione del carattere radicalmente religioso dell’auspicata palingenesi. Per Tolstoj tutto dovrà tornare a risplendere alla luce di una fede autentica, capace di far nuovamente corrispondere, «come una chiave e la sua serratura», la rappresentazione artistica e la pietà popolare.

Al di là di ogni altra considerazione, infatti, il fastidio di cui sono testimonianza le pagine di Su Shakespeare e il dramma (pubblicato nel 1906, all’apice del tolstoismo) deriva dalla sostanziale empietà che Tolstoj si persuade di ravvisare nella produzione di quello che, per lui, è poco più di un abile capocomico elisabettiano. Giudizio straordinariamente ingiusto, che si spinge a negare qualsiasi intenzione etica al teatro di Shakespeare e a sminuirne in maniera programmatica i meriti artistici. Eppure ci sono casi – e questo è uno – in cui anche un partito preso può rivelarsi illuminante. Non per il partito, si capisce, ma per chi lo prende. In fondo Tolstoj, che fu lo Shakespeare del romanzo, con chi sarebbe mai dovuto entrare in conflitto, se non con Shakespeare in persona?


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«Senza di te il treno non parte», il nuovo romanzo a ritroso di Marco Voleri


di Ilaria Liberatore (La Stampa, 23 gennaio 2017)


– È uscito per VandA.ePublishing il nuovo libro del tenore livornese, che per la prima volta si dà alla fiction.

Francesco ha appena compiuto 40 anni e conduce una vita normale, come quella di tanti suoi coetanei, dividendosi tra il lavoro di violoncellista e le sbronze con gli amici di sempre. Una mattina, mentre si fa la barba, gli si presenta uno sconosciuto che gli dà un aut aut: morire il giorno dopo o ripercorrere la sua vita all’indietro, come uno spettatore, senza poter cambiare niente del passato. Non è uno scherzo architettato da amici «simpaticoni», e Francesco sceglie la seconda opzione. Sfortuna o opportunità? Sta al lettore scoprirlo, scorrendo le pagine di «Senza di te il treno non parte» (VandA.ePublishing), il nuovo romanzo di Marco Voleri, tenore livornese di fama internazionale (ha appena concluso la tournée lombarda della «Turandot» del M° Carlo Goldstein).

Ma chi ha già letto il suo primo libro, «Sintomi di felicità» (Sperling & Kupfer, 2013), sa già che lo aspetta un viaggio entusiasmante attraverso i piccoli e preziosi piaceri (e non solo) della vita, un percorso in cui, per dirla con Johnatan Safran Foer, «ogni cosa è illuminata».
Se l’autobiografico «Sintomi di felicità», «diario di bordo di un cantante lirico alle prese con la sclerosi multipla, una malattia imprevedibile e dannatamente seria», raccontava l’atteggiamento positivo e incoraggiante di Voleri verso la malattia (una forza nutrita anche e soprattutto dalla musica), in «Senza di te il treno non parte», si assiste a un’avventura unica: Francesco andrà al funerale del nonno per rivederlo il giorno successivo e vivere ogni attimo con lui con nuova intensità. Riscoprirà i primi baci, i dolori, l’intensità di amicizie poi perdute nel tempo, momenti che nemmeno ricordava e altri che non avrebbe voluto rivivere, fino a ritornare nel grembo materno.
«Sono due lavori completamente diversi – spiega a La Stampa Voleri -. «Sintomi di felicità» ha avuto il grande pregio di essere diretto, di riuscire a far ridere e piangere nello stesso momento. Questo è ciò che ho capito dalle recensioni e le tante persone che lo hanno letto. «Senza di te il treno non parte» è un romanzo che vuole far tuffare il lettore in una storia che potrebbe essere la sua in tutto e per tutto. Il treno giusto è lì che aspetta al binario, e non parte senza di te».
La sfida di raccontare una storia a ritroso è già stata colta in passato, da molti giganti della letteratura: pensiamo al Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald (reso celebre nel 2008 dal meraviglioso film di David Fincher), o a «Tradimenti», di Harold Pinter.
Ma il romanzo di Voleri, che sottolinea, «non ha nulla di autobiografico», non è ispirato a questi modelli: «L’idea è nata semplicemente osservando quante emozioni non vissute ci sono nella vita frenetica di tutti i giorni, e pensando a quanto sarebbe fantastico poterle rivivere, con maggiore consapevolezza, e succhiarne l’intero nettare».
E ammette: «Scrivendo, a volte, ho invidiato Francesco. In particolare mi piacerebbe rivivere la mia adolescenza, una stagione della vita in cui le emozioni si annusano avidamente e trasudano spesso in modo trasparente».

«Senza di te il treno non parte» è disponibile in versione sia ebook (9.90 euro) che cartacea (14 euro) su www.mondadoristore.it. I diritti dei libri di Marco Voleri contribuiscono a finanziare l’associazione di cui è presidente, Sintomi di Felicità, (www.sintomidifelicita.it), che dal 2013 promuove progetti di sensibilizzazione riguardo alla sclerosi multipla. L’associazione organizza, inoltre, il «Sintomi di Felicità tour», una serie di concerti in giro per l’Italia con musica e grandi artisti, che partirà da Roma il 9 aprile prossimo.


 

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«La pietra e la luce fanno Siracusa una città-scultura»


di Annalisa Stancanelli (La Sicilia, 28 dicembre 2016)


– Interrompiamo il lavoro di Giuseppina Norcia mentre è alle prese con la fase finale di un romanzo a cui ha lavorato intensamente negli ultimi 3 anni e che attinge a un “grande mito” ma di cui non vuole svelare nulla.

Interrompiamo il lavoro di Giuseppina Norcia mentre è alle prese con la fase finale di un romanzo a cui ha lavorato intensamente negli ultimi 3 anni e che attinge a un “grande mito” ma di cui non vuole svelare nulla.

Che senso ha la scrittura nella sua vita? Quale la molla che la spinge a narrare? «È una forza irresistibile, non governabile. Penso spesso al grande mito di Sherazade che ne Le mille e una notte narra storie per salvare la sua città, ma anche per curare il cuore malato del suo re. E così facendo salva se stessa. Credo che la letteratura abbia un grande potere salvifico, ma non può farlo se non in una dimensione di costruzione armonica e di piacere in cui alla fine di ogni storia desideriamo sentirne un’altra». 

Immaginava il successo del suo libro “Siracusa, dizionario sentimentale di una città”? «Era un mio desiderio, perché a quel libro ho dedicato ben 7 anni, densi di studio, emozioni, viaggi sentimentali tra i segreti di questa città, ma il successo che ha avuto ha superato ogni mia aspettativa. Il dono più grande è stato sentire quanto il dizionario abbia toccato il cuore delle persone; qualcuno lo ha definito un compagno di viaggio, o una cura per l’anima, dando un immenso significato agli sforzi che la scrittura ha richiesto».

Quale la soddisfazione più grande? «Non saprei ascriverla a un episodio in particolare. Posso dire che ogni volta che un conflitto “muta colore” trasformandosi in occasione di dialogo, che ritrovo lo stupore, che vedo cadere il muro di un pregiudizio, di uno stereotipo, provo una grande gioia. A ciò mi dedico tramite la mia vita personale ma anche con il mio lavoro, con i laboratori sulla tragedia e sulla trasformazione creativa dei conflitti che svolgo con i bambini e adolescenti, e tramite gli incontri con le persone, nelle scuole, a teatro, nelle piazze. Spesso è proprio da lì, dalle domande, dagli sguardi che si accendono durante un racconto che traggo l’ispirazione».

Cosa vuol dire narrare la storia di Siracusa? «Il rapporto con la storia di Siracusa segue proprio questo andamento creativo, piuttosto lineare. Di Siracusa amo la stratificazione, la luce la pietra così facile da scavare che la rende quasi una città-scultura, la sua vocazione a essere un immenso scrigno di storie».

I suoi percorsi di studio come hanno segnato la sua vita? «Non sono mai riuscita a scindere i percorsi di studio dalla vita stessa. È piuttosto l’intimo intreccio tra le 2 ad aver tracciato il percorso. Ad esempio, sulla letteratura ho imparato molto dai librai, figure preziose e irrinunciabili. Nessun supermercato del libro, per quanto ben fornito, potrà essere paragonato a un librario che ama i libri, che li consiglia, li presenta come amici cari o quasi li prescrive, come una terapia. Certo, poi ci sono le lezioni, o i docenti indimenticabili».

C’è una relazione tra cultura e felicità? «Assolutamente sì! Il Sutra del Loto – il meraviglioso insegnamento su cui si basa la pratica buddista che ho abbraccciato 17 anni fa – parla della felicità come “del desiderio che esiste da sempre in fondo al cuore”. Ogni istante di vita ha un potenziale infinito, sta a ognuno di noi riconoscerne l’immenso valore e realizzare la missione che lo rende unico».

Quali filosofi dovrebbero conoscere tutti e perché? «Personalmente amo molto Platone, i suoi dialoghi quasi teatrali, la sua capacità di creare i miti, l’immagine indimenticabile che ci trasmette del suo maestro Socrate. Credo che la relazione maestro-discepolo sia una delle più nobili, un tesoro inestimabile. Per questo dedico sempre le mie vittorie al mio maestro Daisaku Ikeda, filosofo, maestro buddista, costruttore di pace, che è per me costante fonte di ispirazione».

Qual è il mito che la emoziona di più? Oggi i miti hanno un senso? «Sono intensamente legata ad Antigone, un personaggio che torna ciclicamente nella mia vita, spesso in momenti importanti. Il mito attinge alla sorgenete della vita, quindi ha una forza inesauribile che lo rende insieme antico e contemporaneo. Il grande studioso Kàroly Kerényi lo definiva un tessuto senza orli, rendendo perfettamente la sua natura magica e labirintica. Il mito è sempre stato nella mia vita, da quando mio padre mi raccontava l’Odissea, come un cantastorie, spesso agganciando le storie a luoghi di grande fascino, come il nostro mare, o l’Etna. E a mia volta amo raccontarlo sia agli adulti sia ai ragazzi, tramite il raccontarlo sia agli adulti sia ai ragazzi, tramite il racconto orale o con la scrittura, come nel libro L’Isola dei miti. Anche il romanzo che ho appena finito attinge a un grande mito, per scavare nei grandi temi del destino, della vita e della morte, dell’eroismo. Delle ragioni, se ve ne siano, per cui può scoppiare un aguerra. Trovo che il racconto mitico sia uno specchio straordinario con cui narrare la contemporaneità. Tra le storie poco note mi appassiona moltissimo la vicenda di Achile a Sciro,tramandata, nei suoi particolari, dal poeta latino Stazio. Secondo questa versione dl mito, Teti avrebbe cercato di salvare suo figlio dalla guerra di Troia nascondendolo nell’isola di Sciro, travestito da donna per non farlo partire. Una versione completamente diversa dal grande guerriero omerico, ma altrettanto affascinante. Dopotutto Achille è un figlio del mare, proteiforme come sua madre…».

Il teatro classico: il suo ruolo oggi e che peso ha avuto nella sua vita? «Il teatro classcio è vita e passione. Ricordo ancora la prima volta che ho assistito a una rappresentazione classica al teatro greco di Siracusa: era il 1986 e mettevano in scena Le Supplici di Euripide, con il titolo Le Madri. Ricordo Elena Zareschi, quelle voci potenti di madri che piangono i figli morti in guerra, il silenzio religioso degli spettatori nella cavea, la presenza complice e affettuosa di mia zia Patrizia che mi aveva portata con sè a quel rito iniziatico. Fu una folgorazione. Per me il Dramma Antico è sempre la casa in cui tornare, una fonte di ispirazione, di studio e di passione. Credo che il suo ruolo oggi sia fondamentale, per la profondità di pensiero e la bellezza di cui è portatore, ma abbiamo la responsabilità di tutelarlo, non indulgendo a logiche di puro intrattenimento, nè al contrario chiudendolo di nuovo nella torre d’avorio in cui è stato segregato per secoli».

Quali opere non mancano nella sua biblioteca? «I tragici, l’epica, i lirici greci sono i miei preferiti. devo molto alla Yourcenar, a Gesualdo Bufalino, a Italo Calvino. Ho amato molto Ariosto, la sua ironia, non potrei rinunciare a Montale e a Ungaretti, o a quel sogno di Grecia che è Ritsos».

Quale il suo rapporto con la città e i siracusani? «È un rapporto dinamico, in costante evoluzione. Lo vivo con un’intensità quasi assoluta, come fossi cittadina di una polis antica, eppure ho trascorso, e potrei trascorrere, molti anni altrove. Molti capitoli del libro che ho dedicato a questa città sono stai scritti in anni difficili, in cui, pur vivendoci, mi sentivo quasi in esilio. È stat un’esperienza preziosa, perchè anzichè fuggire da Siracusa ho desiderato attingerealla sua luce, come chi cerchi l’acqua nel deserto. E alla fine l’ho trovata. A ogni passo sentivo che cambiavo qualcosa di me stessa e dunque della relazione con il luogo. il punto di svolta è stato riuscire asentirmi libera dai consensi, dall’opinione degli altri».

Com’è vista Siracusa dagli stranieri? «Qualche volta rimango a osservarli, ammiro lo sguardo sognante ed estatico dei viaggiatori, ma anche la libertà con cui vivono questo luogo molti stranieri, quando vi si trasferiscono. Ne amano la storia, la stratificazione, qualche volta vivono con una punta di esotismo le nostre tradizioni e proprio in virtù di ciò ci aiutano a non dimenticarle, a rivitalizzarle. Grazie a miei amici e studenti statunitensi ho imparato molto sul fascino che esercitano i luoghi del mito e sula possibilità di giocare, nel senso più alto, con la tradizione classica».

Quale musica la fa pensare a Teatro Greco? «Al trameno mi fa pensare a un adagio di Mozart, nei mezzogiorni assolati sento un suono di flauti e timpani, in certi giorni liquidi di primavera pensopiuttosto alle melodie di Satie o di Debussy».

Nel corso dei suoi incontri letterari quali storie hanno riscontrato più attenzione? «A suscitare attenzione non sono in genere le storie in sè ma il modo in cui le raccontiamo».

Giuseppina Norcia ha 43 anni, è sposata, ama la cucina, il mare e anche i racconti intorno al fuoco. Si definirebbe un’entusiasta della vita. Eclettica e dinamica è impegnata su diversi fronti, forse perchè ama il nomadismo culturale – ha detto – la possibilità di confrontarsi con persone ma anche ambienti diversi. Da qualche anno tiene corsi di drammaturgia antica nell’Accademia d’Arte del Dramma Antico: si tratta di un laboratorio basato sul dialogo, una fucina di idee in cui, con i suoi allievi-attori, esplora e “interroga” le opere dei grandi tragici. Da qualche giorno ha anche intrapreso un progetto di divulgazione e valorizazione del meraviglioso patrimonio culturale di Siracusa.


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15 Dicembre – Quando l’affido diventa una favola, il libro di Agnese Bizzarri


(L’eco di Parma) 13 dicembre 2016


– Favole scritte da Agnese Bizzarri e illustrate da Margherita Braga, che raccontano l’esperienza dell’affido ai più piccoli e toccano il cuore anche dei grandi.

L’affido può diventare una storia favolosa. Lo racconta il libro “12 case, tanti pianeti. L’affido familiare in giocose storie che sarà presentato giovedì 15 dicembre alle 19, al Circolo Famija Pramsana, in viale Vittoria 4, a Parma.

Favole scritte da Agnese Bizzarri e illustrate da Margherita Braga, che raccontano l’esperienza dell’affido ai più piccoli e toccano il cuore anche dei grandi. Parlano di accoglienza, solidarietà, benessere delle famiglie e della comunità, temi importanti e complessi che qui diventano immediati e alla portata di tutti. Sarà l’autrice a presentare il volume, insieme all’attrice Irene Valota che leggerà alcune favole.

La serata, rivolta a tutti e in particolare ai bambini e alle famiglie, sarà l’occasione per ascoltare le storie, condividere qualche pensiero sull’affido familiare e conoscere più approfonditamente i progetti e le iniziative presenti sul territorio provinciale, realizzate dalle Equipe Affido dei diversi Servizi, attualmente riunite nel Coordinamento provinciale affido e accoglienza.

Il libro nasce nell’ambito di “A braccia aperte”, la campagna di informazione e sensibilizzazione della Regione Emilia Romagna, in collaborazione con Forum Solidarietà Provincia di Parma.

Agnese Bizzarri, laureata in Filosofia, si occupa di progetti educativi e culturali. Per il sito Che Forte.it cura la rubrica “I miti spiegati ai bambini”. Per Fondazione Milano ha realizzato e gestito iniziative legate all’infanzia, in collaborazione con Fondazione Cariplo e Università degli Studi di Milano Bicocca. Nel 2013 ha scritto il libro Quante Storie… (Edizioni C’era una volta), ora ripubblicato da VandA.ePublishing con quattro storie inedite.


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Dinosauri e poltrone volanti per vincere la paura del dentista


di Enrico Gotti (Gazzetta di Parma, 28 novembre 2016)


– Nel libro della Bizzarri dieci favole a colori per fare superare ai bimbi le fobie.

Nascono in Oltretorrente, fra il Parco Ducale e il torrente Parma, storie fantastiche per far superare ai bambini fobie e paure, favole a colori per parlare di temi importanti.
Qui abita Agnese Bizzarri, autrice del libro «Dentisti, dinosauri e altre strane creature», edito da Vanda, che sarà presto distribuito gratuitamente in tutte le scuole materne e elementari di Parma, grazie al finanziamento di Fondazione Cariparma e al patrocinio del Comune.
Il piccolo volume è realizzato da Agnese insieme all’ortodontista parmigiana Sara Salvadori, che ha studiato alla New York University e vive e lavora a Parma, il professore Giampietro Farronato, dell’università di Milano, e l’artista parmigiana Margherita Braga, che ha curato le illustrazioni.
Si tratta di un progetto che non ha corrispettivi nel resto d’Italia, è la prima iniziativa scolastica ad hoc per far vincere la paura del dentista in modo originale, con denti parlanti e poltrone volanti, dinosauri e impronte preistoriche al posto dei calchi per l’apparecchio.
Il progetto vede la nostra città come pilota, ma l’obiettivo è di realizzarlo anche in altre regioni. Il libro è pensato per essere letto in classe, ed è formato da dieci favole, cinque contro la paura del dentista e altre cinque per la corretta alimentazione e la salute dei denti. Non è la prima volta che l’autrice utilizza creatività e fantasia per parlare di temi importanti ai bambini.

Laureata in filosofia all’università di Bologna, Agnese Bizzarri ha lavorato per anni con Fondazione Milano a progetti innovativi per l’infanzia, è stata coordinatrice del Ciofs (Centro italiano opere femminili salesiane) di Parma, nel 2013 ha scritto il libro «Quante storie» e nel 2015 l’e-book «C’era una volta… anzi no!», dove ci sono «giocose metafore» per dialogare con i figli in modo diverso, per parlare di temi difficili, con il linguaggio, la leggerezza e la fantasia dei bambini.
«Mi piace mettermi in contatto con il loro mondo immaginario. La scrittura e la lettura ricreano un rito antico per il bambino – spiega l’autrice -. Conrad diceva: “Si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra si deve occupare il lettore”. I bambini ci mettono sempre con la loro fantasia oltre la metà dello scritto!».
«Parlare di temi complessi è importante perché i bambini sono già piccoli filosofi. La domanda del filosofo è sempre infantile, chi interroga è bambino» dice Agnese, citando Paul Valery.


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«Utero in affitto? Doppio sopruso»


di Anna Maria Ferrari, (Gazzetta di Parma, 27 settembre 2016)


– Marina Terragni: «Si sfrutta una donna bisognosa e si sottopone il bambino a un’esperienza molto dura: essere separato dal corpo della madre. Il mercato irrompe in una relazione che è fondamento di umanità».

Capovolge il mondo, subito. E’ lo sguardo sottosopra, la foto alla rovescia. «Non ne usciamo da questa violenza sulle donne. Continuiamo ad esercitare psicologismi sugli uomini, invece è arrivato il momento di appoggiare lo sguardo dentro noi stesse. Di connetterci fortemente alla nostra differenza per trovare un linguaggio, un simbolico adeguato. Il modo in cui ne stiamo parlando non funziona. Per esempio: guardiamo sempre la violenza che subisce l’altra. Non partiamo mai da quella che viviamo noi: la svalutazione subdola, i gesti misogini. Ci è richiesto di essere ammortizzatori della rabbia maschile. Tutte sappiamo di che cosa sto parlando. Ma su questo tacciamo. E invece si dovrebbe partire di qui».

Testa pensante del nuovo femminismo, legata a quel laboratorio che è la libreria delle donne di via Dogana, a Milano, una delle prime blogger italiane: Marina Terragni, una donna fuori dal coro. Ha cominciato giovanissima a Radio popolare, poi il Corriere della sera, L’Europeo, Linus, Il Foglio, e anche un po’ di tv. Scrittrice: l’ultima fatica è il pamphlet «Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli» (Vanda edizioni, eBook o ordinabile in cartaceo). 100 pagine di coraggio e idee da leggere tutte d’un fiato sulla maternità surrogata, che ci porta dritto a «una nuova forma di patriarcato» e nasce dall’antichissima «invidia dell’utero».

Un atto di accusa senza ideologismi che non è piaciuto a parte del mondo Lgbt, il movimento omosessuale e transessuale. Di sé dice: «Sono milanese: nata qui ma anche un po’ calabrese, americana, tedesca. Meticcia». Casa morbida, accogliente: libri, ricordi, foto, divani. Sguardo assertivo: si ferma, pensa, torna sempre al punto. E’ una pioniera della differenza sessuale: «Non c’è quasi più nessuna donna che voglia prendersi la briga di essere donna. La questione è la libertà di stare al mondo da donne, come soggetti che, per dirla in modo un po’ più complicato, non sono costrette a tagliare con se stesse e a mettersi a guerreggiare con gli uomini. Il rischio? Perdere se stesse».

Una donna amica delle donne, le parli e senti lo stesso modo di guardare il mondo. Si prende cura: «Sei venuta fino a Milano per intervistarmi? Beh, dopo vai a farti un giro, ti faccio vedere dov’è Lenno, lago di Como. Noi siano qui, Lenno è là, secondo me è molto bello, a Ossuccio c’è uno stupendo campanile romanico». Il lavoro e la vita: non solo autorità e controllo, ma ascolto, energia che corre, passione. Occhi di donna. Cerca le immagini sull’iPad, ti accudisce, mentre mostra il balcone di casa.

Violenza alle donne: un caso al giorno. A Parma Elisa Pavarani, 39 anni, è stata accoltellata dall’ex fidanzato: voleva lasciarlo.

«Anche solo il fatto che una donna voglia separarsi, può scatenare violenza. L’addio è diventato rischioso. Lasci il compagno e non sai come andrà a finire. E’ necessario proteggersi. Gli uomini dipendono da noi ma vivono un delirio di onnipotenza: l’indipendenza per noi è una disposizione naturale, ma per loro può essere devastante. Il delitto è l’estremo, ma tutte sperimentiamo la violenza e il dominio ogni giorno nei rapporti con l’altro sesso. Sappiamo di essere il terreno su cui si esercitano il disagio e la fragilità maschile. Il gesto incivile, lo sfogo rabbioso, la volontà di dominio. Eroghiamo lavoro di welfare anche su questo, contenendo la rabbia degli uomini. Parlarne a partire da noi, da quello che sperimentiamo, e non sempre dall’altra, aiuta a trovare un linguaggio, un simbolico efficace. La strada della consapevolezza passa di qui».

Abbiamo delle leggi che ci tutelano, eppure quelle che non denunciano la violenza sono più del 90 per cento. Perché?

«Le leggi servono ma non bastano: spesso sono inapplicabili. A Milano, per esempio, la quasi totalità delle denunce viene archiviata senza alcun atto di indagine. Anche nella lotta alla violenza abbiamo assunto un linguaggio maschile: la denuncia, il codice rosa. Non funziona così. Quello che la stragrande maggioranza delle donne fa – o non fa, non denunciando – va ascoltato. Alla loro scelta va data dignità. Questa ambiguità femminile non è semplicemente debolezza, ma tentativo di resistere, tenace ricerca di mediazioni. Quello che stanno cercando di fare è non essere del tutto vittime, conservare la competenza su ciò che hanno vissuto. Ina Praetorius parla di competenza dell’esserci».

Nel silenzio e nella solitudine non si va da nessuna parte, anzi si può morire.

«Bisogna trovare le parole, un simbolico che ci consenta di uscire di parlare di violenza come di una questione politica, e non più come di una sventura privata. Il contratto sessuale si è rotto, il patriarcato sta finendo: questo è il fatto politico. Noi continuiamo a consolare l’altra, e non diamo a questo fatto la dignità di un enorme fatto politico. Il grande seminario di Diotima quest’anno è dedicato al tema della violenza, ne parleranno le filosofe e sono molto contenta: si proverà a volare alto. La differenza sessuale va rimessa al centro. La crisi è pesata soprattutto sulle donne. Non solo e non tanto in termini di posti di lavoro, ma soprattutto come crisi di ritorno: tagli ai servizi, figli senza lavoro, mariti esodati con il loro disagio e la loro rabbia».

Abbiamo fatti enormi passi avanti. Anche nelle istituzioni, nei lavori che erano degli uomini, nella polis, là dove c’è il potere degli uomini.

«Siamo nello spazio pubblico. La vittoria di Hillary sarebbe un grande passo. Però penso che non basti. Dobbiamo trovare portare nella polis il nostro sguardo. Un esempio: sono stata per un anno e mezzo nella direzione nazionale Pd, ero convinta di trovare le altre, per me è naturale e indispensabile fare riferimento alle donne. Non le ho trovate, non ha funzionato».

Qual è allora il modo femminile di stare nel mondo?

«Adottare nello spazio pubblico i criteri che abbiamo da sempre usato nel cosiddetto privato. Portare i nostri modi, le nostre agende, le nostre priorità: l’attenzione all’altro, centralità della relazione. E farlo stando in dialogo con le altre. Ci vuole almeno un’altra donna con te, se vuoi combinare qualcosa. Un’altra che ti riporti costantemente alla genealogia materna. Diversamente non ce la fai».

Cosa pensa della polemica sul burkini? Giusto vietarlo?

«Credo che sia sbagliato pensare di vietare il burkini per legge. Il desiderio di liberarsene deve essere della donna che lo indossa: se glielo strappi non cambi nulla. Non puoi costringere una donna a essere libera e a esserlo secondo i tuoi criteri di libertà. Ovviamente quando si parla di infibulazione, di tutela dei corpi, di salute, leggi impositive sono necessarie. Ma la libertà obbligatoria non porta da nessuna parte: io posso solo esserci, lì accanto a lei, offrire i miei modelli, autorizzarla e accompagnarla nel suo percorso di liberazione. Il punto è sempre quello: ritrovare la differenza e giocarla nel mondo. Dentro le case, la nostra differenza era usata come una catena. Fuori dalle case, ci è stato chiesto di essere come gli uomini, rinunciando alla differenza sessuale».

Maschilismo. Nel saggio “Un gioco da ragazze” ha scritto che “una volta un uomo intelligente mi ha detto che l’essenza della virilità nell’esercizio del controllo sul caos minaccioso: ma quello che la cultura maschile legge come un disordine da controllare è semplicemente un altro ordine”.

«Il dominio dell’altro sesso sul sesso femminile è un artificio, quindi è continuamente minacciato. E’ un’impalcatura che rischia sempre di crollare e va costantemente riaffermata. Il fatto che qualcuna abbia cominciato a dire no ha incrinato la monumentale costruzione del patriarcato. Dalle crepe si è cominciata a vedere la finzione, il rovesciamento. L’invidia verso la potenza materna. Si sta smontando un sistema millenario con tutti i paradigmi che ne sono derivati: l’idea corrente di economia, i dispositivi politici, i modelli di convivenza. Tutto sta andando in pezzi. E noi, con i nostri gesti di libertà, siamo una minaccia evidente. La violenza contro le donne si radica qui».

Amore, maternità. Cosa hanno voluto dire nella sua vita?

Ho un figlio di 27 anni, vive solo qui a Milano. Nel rapporto con la maternità la mia generazione si è giocata molto. Sono rimasta incinta a 31 anni. All’inizio è stato conflittuale, ero una di quelle donne che rifiutavano la maternità come destino. Ero un ometto, pensavo di cavarmela negando il mio essere donna. L’esperienza della gravidanza e della maternità mi ha molto cambiato, come capita quasi a tutte. Non sei più il centro del mondo. Anche i padri spesso sperimentano questa secondarietà rispetto ai figli, ma per le donne è qualcos’altro: è lo spostamento del baricentro fuori di noi. La rottura dei limiti fittizi dell’individuo. Capisci che l’unità di misura è il due, non l’uno: cioè la relazione».

Cosa direbbe alle ragazze di oggi, che vivono la parità come un risultato acquisito?

«Non mi sembrano del tutto consapevoli. D’accordo, le “vecchie” lo hanno sempre detto delle “giovani”. Ma loro sono veramente convinte che tutto andrà liscio: con gli uomini, sul lavoro. Quand’è che vanno a sbattere? Quando vanno a convivere, e i loro compagni propongono modelli di relazione d’antan. Soprattutto con la maternità. Quando vedono i colleghi che fanno carriera, mentre loro, a parità di competenze, si sentono dire: “Mica vorrai fare figli!”. I costi della maternità incidono in modo irrisorio sui bilanci aziendali, questione di zero virgola. La questione è un’altra: non puoi volere sommare il potere maschile alla potenza materna? Ancora una questione di simbolico. Le ragazze pensano che la vita scorra via senza inciampi e quando c’è lo sgambetto, non hanno gli strumenti per capire. Noi li abbiamo costruiti».

L’ultimo libro, «Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli», ha suscitato infinite polemiche. Soprattutto da parte della sinistra e del mondo omosessuale.

«Gli insulti, pesantissimi, sono via via diminuiti, il processo di normalizzazione della Gpa sembra in stand by: solo pochi mesi fa, mentre scrivevo, la Gpa si presentava come un modo “normale” di avere figli. Era dato come un diritto acquisito e intoccabile. Adesso si è capito che c’è un problema. Sono soddisfatta di questo».

Uno degli argomenti di chi sostiene l’utero in affitto è quello del dono: si dice, la donna compie un gesto generoso verso chi non riesce o non può avere un figlio.

«Dove non ci sono soldi non c’è dono: ormai non provano nemmeno più a raccontarla, questa balla colossale. Insopportabile poi l’idea misogina della donna generosa fino all’abnegazione. Passa molto dolore in tutto questo, si fa mercato di una relazione intima come quella tra madre e figlio. Le gestanti non sono contenitori, sono le madri, quelle che i bambini riconoscono come madri. Spesso il loro terribile destino è imposto dalla violenza del marito, del padre, del fratello. Ma in primo piano va tenuta la creatura. Se neghi i superiori diritti del minore è la fine del mondo».

Ha scritto che il senso del limite lo mettiamo volentieri in funzione quando si tratta di sfruttamento delle risorse. Ma nel caso di fecondazione assistita e Gpa l’idea di darsi un limite è intesa come conservatorismo ottuso e omofobico.

«Il libro è stato sontuosamente recensito, ma quasi nulla sui media di sinistra. Anche se moltissimi a sinistra sono contrari alla Gpa. Ma c’è paura di uscire allo scoperto, si teme di essere giudicati antimoderni e contro i “diritti”. Mi aspetto che si parli sempre secondo coscienza, si discuta con verità, oltre le appartenenze. Non si tratta solo di sfruttamento del corpo delle donne, e del fatto che il bambino viene sottoposto per contratto a un’esperienza molto dura, la separazione dal corpo della madre: improvvisamente tutte le consapevolezze sulla psicologia infantile, sul rapporto madre-figlio, sembrano svanite. Il punto vero è che facciamo irrompere il mercato in una relazione, quella tra madre e figlio, che è fondamento di civiltà e di umanità. Lo facciamo burocraticamente, con un contratto, trasformando la riproduzione in produzione. E’ lo scippo della relazione madre-figlio, il sogno maschile originario: appropriarsi della potenza materna».

Gli uomini li amiamo. Come si fa?

«Ho fiducia nel fatto che se gli uomini troveranno il modo di essere uomini fuori dalla logica del dominio e dalle certezze dell’ordine patriarcale, se riusciranno a non mettersi più al centro e a riconoscere la loro differenza, la nostra civiltà avrà davvero svoltato. Saremo nel terzo tempo, il tempo del due. Noi donne cosa dobbiamo fare per dare loro una mano? Semplicemente essere donne».

Temporary mother

di Marina Terragni

Vanda, pag. 100, euro 10,00.


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“Non possiamo assolutamente vendere i bambini che mettiamo al mondo”


di Luca Manes (La presenza di Maria, settembre 2016)


– Marina Terragni, giornalista e scrittrice, una delle voci più autorevoli e originali del pensiero femminile, ha scritto un libro per denunciare i pericoli della mentalità dell’utero in affitto. Un cammino, il suo, che nasce “per passione civile”. Come ci ha spiegato in questa conversazione. “Basta guardare l’immagine di Maria, per capire che andare a strappare il bambino dalle Sue braccia è una delle operazioni più violente che si possa concepire”.

Ogni anno migliaia di bambini nascono grazie alla pratica della maternità surrogata: più di duemila solo negli Stati Uniti, con un incremento annuo del duecento per cento. Un vero e proprio mercato in espansione a livello globale, nel quale le donne divengono oggetto di sfruttamento e il frutto del loro corpo, il figlio, oggetto in vendita. Diventa così possibile comprare quei figli che non ci è consentito avere. Basta pagare. È giusto? Perché una donna dovrebbe concedersi a una simile pratica?

Si può fare del proprio corpo quello che si vuole? Cosa significa essere una madre “surrogata”? Abbiamo affrontato la questione con Marina Terragni, milanese, opinionista e conduttrice radio e tv. Tra le prime blogger italiane, ha scritto per molte testate, fra cui “Io Donna”, “Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Panorama Mese”. È autrice di Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (VandA ePublishing), un pamphlet che analizza a trecentosessanta gradi l’argomento della surrogazione di maternità.

Come è nata in lei l’idea di scrivere un libro sul tema dell’utero in affitto? Un po’ per questioni biogra­fiche intime, un po’ perché sono stata testimone di almeno un paio di esperienze di surrogati. Mi sono sempre interessata a tutte queste tecniche di fecondazione assistita e negli ultimi anni ho messo gli occhi su questa faccenda, che è l’ultima evoluzione della tecnoscienza. Dopodiché la cosa è esplosa all’attenzione generale e allora ho messo insieme quelle riflessioni che avevo fatto in questi anni, continuando a pensarci. Il libro nasce per passione civile. Credo che quando si vanno a toccare i con­fini tra la nascita, la vita e la morte, ogni leggerezza e ogni ideologia vadano bandite. Tocchiamo i fondamentali della civiltà umana.

Quali sono gli elementi per cui lei critica questa pratica? Il fatto che sull’abbraccio tra la madre e il ­figlio si fonda la nostra civiltà. Anche quella precristiana nasce dalla presa d’atto di questo legame sacro e inviolabile in cui l’amore raggiunge la sua forma più alta, la sua perfezione. Poi basta guardare l’immagine di Maria, ricordarsi di che cosa signi­fica quell’e gie, per capire che andare a strappare il bambino dalle Sue braccia è una delle operazioni più violente che si possa concepire.

Secondo lei è possibile per la donatrice di utero sottrarsi alla relazione con la creatura che mette al mondo? È possibile, nel senso che alcune persone lo fanno. È un’azione che si può realizzare praticamente. Ma che fare questo porti alla nostra specie un sovrappiù di felicità, questa è una cosa da discutere. Evidentemente alcune persone ritengono di poterlo fare. Bisognerebbe svolgere un’indagine attenta su queste madri surrogate, interrogarle a fondo. Naturalmente non sto parlando di quelle povere donne del mondo che vengono messe sul mercato dai loro parenti, mariti, fratelli e padri. Diciamo che, se parliamo di una donna occidentale, con una situazione economica non disastrosa, c’è questa apparenza di libertà dentro la quale bisognerebbe andare a guardare attentamente. È comunque un gesto auto-violento. La gravidanza è un processo impegnativo per il corpo di una donna, rischioso. Quindi mi sembra davvero strano che oggi una donna in piena libertà non consideri almeno questi aspetti della questione. Ci devono essere sicuramente delle forti motivazioni per farlo e queste sono praticamente sempre di carattere economico, anche per quelle donne che non sono indotte dalla fame, dalle necessità materiali. Solo per casi rarissimi, si possono contare sulle dita di una mano, si può parlare di gravidanze solidali.

Si è generato un vero e proprio mercato attorno al fenomeno delle madri surrogate? Sì, certo. In una situazione ideale in cui non ci fosse questa preponderanza del mercato in ogni fatto umano, forse questa sarebbe una pratica concepibile. Il problema è che su centocinquanta mila euro che possono andare in California a una surrogata, in tasca a lei ne andranno venticinque. Tutto il resto è sfruttamento.

Perché non si può fare del proprio corpo quello che si vuole? Intanto ci sono delle leggi italiane ed europee che parlano d’indisponibilità del proprio corpo. È ammesso un suo uso solidale, cioè posso donare un rene anche a uno sconosciuto, posso donare il sangue, ma non posso fare mercato dei miei organi. Ma la cosa più importante è che in questo caso, a differenza della donazione di organi, c’è un terzo che andrebbe tenuto per primo, ed è la creatura che nasce. Posso anche pensare di fare di me quello che mi pare, ma il frutto del mio corpo, ovvero il bambino, non è mio. Nessuno di noi può fare commercio dei propri figli e quindi non si vede perché in questa situazione bisognerebbe ammettere un’eccezione. Non possiamo assolutamente vendere i bambini che mettiamo al mondo.

Come si è arrivati a questa cultura del possesso, per cui la donna è una cosa che può essere sfruttata e comprata? La cultura del possesso del corpo femminile è antica e millenaria. I corpi femminili facevano parte delle risorse materiali di un mondo governato dagli uomini, un atteggiamento tipico di una società di tipo patriarcale. Nel corso della storia, però, c’è stato un moto di liberazione da parte delle donne, che hanno ritenuto di poter decidere che cosa fare di se stesse e del proprio corpo, del proprio io. Questa di oggi mi sembra che sia una brutale fuga all’indietro, un ritorno al pensiero delle donne da considerarsi come risorsa materiale. Del resto abbiamo molti esempi oggi di ritorno all’indietro.

È un momento difficile per la libertà femminile. Da dove si riparte? Dal non aver paura di dire la verità. Sono convinta che la stragrande maggioranza dei cittadini europei sia contraria alla surrogazione. Tuttavia è solo una minoranza che parla contro la surrogazione. Ci sono persone che non si pronunciano perché non vogliono rogne, non è moderno esprimersi su un tema del genere, si teme di offendere i diritti delle coppie gay… Ma occorre attivare la propria coscienza davanti a ogni prova della vita, dalle più piccole alle più grandi, e ri­fiutare le formule preconfezionate di qualunque pensiero unico. C’è da fare una grande lotta contro il conformismo.


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Femministe contrarie all’utero in affitto. Ma non si deve dire


di Claudio Risè, (Il Giornale, 22 agosto 2016)


– La sinistra nasconde i dubbi sulla maternità surrogata. In due libri le ragioni del “no”.

Nello stanco scenario della tarda modernità c’è un solo mercato in continuo sviluppo, che garantisca da subito utili a doppia e tripla cifra, anche con investimenti relativamente bassi. Per avviare l’attività basta infatti un sito internet per raccogliere gli ordini e un bi/trilocale dove consegnare la «merce».

Si tratta del tile della maternità surrogata o sotto quello, più tecnico e misterioso, della gestazione per altri, GPA.
Per spianare la strada al mercato (un giro d’affari globale di 10 miliardi di dollari, in fortissima espansione) si è cercato di presentarlo come una conquista delle donne, appoggiata dal mondo femminista. Ma non è così. Si era già visto in Francia, dove la campagna contro l’utero in affitto è stata guidata con grande forza argomentativa dal Sylviane Agacinski, femminista e filosofa (anche moglie dell’ex primo ministro socialista Lionel Jospin), che ripete da anni: «La madre surrogata è la nuova schiava. Ma la sua schiavitù è mascherata dal progresso tecnologico». Donne (anche gruppi omosessuali) erano inoltre gran parte dei partecipanti (e leader) delle enormi Manif pour tous contro la legge della ministra Taubira, che legalizzava i matrimoni omosessuali e le nascite all’estero attraverso GPA.
L’avversione femminile all’utero in affitto, che potrebbe rendere più difficile la legalizzazione in Europa di questo nuovo e fiorente mercato, viene però nascosta nella politica e nei media (soprattutto a sinistra) dalla frettolosa promozione della maternità surrogata, lanciata con le parole chiave: progresso, realizzazione dei desideri, benessere delle donne.
Balle colossali, dicono ora anche in Italia due libri molto documentati sull’argomento. Quello, emozionato e assai caldo, della giornalista femminista Marina Terragni (Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli, Vanda epublishing) e quello più pacato della filosofa e esponente femminista Luisa Muraro (L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, Editrice La Scuola), che ha bruciato la prima edizione in poche settimane.
A indignare Terragni è, come lei dice con chiarezza, che nella GPA «si fa scomparire la madre per contratto in cambio di soldi, precostituendo quello che la creatura vivrà come un abbandono». A sparire sono poi addirittura entrambe le madri, quando gli ovuli impiantati nell’utero affittato vengono anch’essi comprati, da una donna diversa o da un maschio.
Cosa vuol dire poi «maternità surrogata», si chiedono sia Terragni che Muraro, e non per oziosa curiosità filologica. «Surrogato», risponde Terragni, vuole dire «al posto di». Si intende che «la gestante è solo una temporary mother in sostituzione della vera madre, che è la madre genetica (che ha fornito l’ovulo fecondato) o anche solo la madre intenzionale». L’eufemismo della maternità surrogata è dunque solo l’impossibile tentativo (puramente lessicale) di presentare «un ordine simbolico là dove si è creato un formidabile disordine». Muraro poi incalza: «Voi siete i surrogati»! Surrogati sono «quelli che sostituiscono la donna, madre della creatura». Quelli che «realizzano il loro desiderio, facendolo passare per esigenze che hanno creato loro stessi, separando la creatura da sua madre».
Nella realtà, sotto i diversi eufemismi, il grande rischio di questa separazione è di liquidare la maternità, sostituita dal mercato e dalle varie tecnologie riproduttive. E qui le femministe che sostengono il significato della differenza tra femminile e maschile, come appunto Terragni e Muraro, e le altre della Libreria delle donne di Milano e del gruppo Diotima di Verona (e altri) non ci stanno. Terragni protesta, da donna e femminista, contro l’attuale «sinistra trattativista e iperrealista, disponibile a sacrificare buona parte dei valori fondamentali» (e cita il rispetto della dignità umana, il rifiuto dello sfruttamento, l’opposizione alla deriva neoliberistica), «in cambio di sempre nuovi diritti». Le pagine sul dirittismo e le sue follie sono tra le più sferzanti e (pur nell’aspetto horror del quadro complessivo) anche divertenti, come quando cita il parere di una bioeticista, la quale sostiene un «diritto alla nascita» di un bambino neppure concepito, ma tuttavia programmabile con contratto di utero in affitto. Con vistosa contraddizione tra i diritti da riconoscere al bambino che non c’è, ma intanto negati all’embrione che già esiste.
È proprio quando, nota Terragni, il diritto si sostituisce alla relazione umana su temi come l’inizio della vita o la sua fine che «deflagra, e genera mostri», come appunto dove «stabilisce per legge che separare madre e figlio è ammissibile, e accettabile tutto ciò che è consentito dalle tecnologie riproduttive». Oggi, e non solo nelle questioni riproduttive, si è sviluppata, col supporto della retorica dei diritti umani, una potente alleanza fra tecnologia e mercato, che sta uccidendo la potenza generativa delle relazioni affettive, a partire dalla prima e più importante: quella madre-figlio. Ma «se salta la relazione materna», dice Lia Cigarini, fondatrice della Libreria delle donne di Milano, «la neutralizzazione della differenza sessuale è già avvenuta». E, completa Terragni, «se lasciamo slegare al mercato anche il legame tra madre e figlio, il mondo muore».
Una morte dovuta anche alla rimozione da parte di tutti (compresa buona parte delle istituzioni psicologiche) delle scoperte di psicoanalisi e psichiatria novecentesca, confermate poi dall’Infant Observation ed altre pratiche cliniche, su come nella relazione madre figlio «già durante la gestazione avvengono scambi decisivi che continuano dopo la nascita e fanno di quel bambino quello che sarà. È la relazione più intensa che sia dato sperimentare». Distruggerla è devastante.
La pericolosità dell’entrare nel campo riproduttivo con la logica della soddisfazione dei desideri attraverso la tecnologia è già dimostrata dalle ricerche (qui ricordate) di cui ha di recente riferito il British Medical Journal, che dimostrano come i bambini concepiti con la «fecondazione assistita» hanno più probabilità rispetto ai bambini concepiti naturalmente di soffrire di pressione alta, obesità, livelli di glucosio anormali e disfunzioni vascolari. La maternità surrogata poi, naturalmente, è attività ad altissimo rischio di gravi patologie psichiatriche sia per la madre che per il bambino, come avverte il qui citato psicoanalista Luciano Casolari nel suo blog sul Fatto quotidiano.
La logica dell’utero in affitto, però, è lontana dalla realtà dei fatti. Perché è quella dell’onnipotenza, del delirante «mito dell’autodeterminazione». I suoi principi sono altri. Riferisco, da Terragni: Scassare relazioni, per comprare relazioni. I figli che non possiamo avere possiamo comprarli, anzi, se li compriamo è meglio. Puoi comprare, ma anche venderti; il corpo è tuo, l’utero è tuo, c’è un – modesto – guadagno anche per te.
Una malpensante, un po’ anarchica, insomma, Marina Terragni. Chissà perché questo libro mi fa venire in mente un vecchio proverbio milanese: «A pensà màl sa fa pecat, ma se induina semper».


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Chiedereste a queste ragazze di affittarvi l’utero per 5mila euro?


di Marina Terragni (F, 27 luglio 2016)


– È la cifra che arriva alle ragazzine dei Paesi poveri (sempre che non finisca nelle mani di padri o mariti), mentre le organizzazioni che gestiscono il business si arricchiscono. Una giornalista ci spiega come funziona questa forma di schiavitù che qualcuno chiama gesto d’amore. E che trasforma la relazione tra una madre e il bambino che cresce nella sua pancia in un losco affare.

Il catalogo (online) è questo: povere ragazze cambogiane nel loro vestito della festa, abitini fiorati e tutine fluo, timidamente in posa su un fondale bianco. Un osceno mercato di piccole donne pronte a “surrogare” una maternità, più frequentemente costrette a farlo da mariti o fratelli papponi. E a prezzi stra-competitivi: solo 30mila dollari (contro una media di 150mila nelle supercliniche californiane), dei quali si calcola che a loro ne arrivino non più di 5mila. Sempre che non finiscano nelle mani dei familiari sfruttatori. Il plus offerto dall’agenzia Surrogacy Cambodia, tra gli ultimi arrivi nel colossale business dell’utero in affitto (un affare globale da almeno 3 miliardi di dollari con un enorme potenziale di crescita), è la possibilità di scegliere il sesso del nascituro: se vuoi un maschio, gli embrioni femmina si buttano via.

Figli come prodotti di lusso

Nei Paesi poveri l’unica ricchezza di cui disponi è il corpo. La vendita di un rene frutta fino a 250mila dollari: 5-10 mila al povero corpo mutilato, tutto il resto alla filiera criminale, la mafia della carne umana, i chirurghi compiacenti. Ma anche l’affitto di utero può fruttare un gruzzoletto analogo. E in apparenza senza danni permanenti, sempre che la gravidanza vada bene: solo un’insanabile ferita nell’anima di quella madre che non è una madre (e allora che cos’è?) e di quel figlio che non è un figlio, ma solo un prodotto di lusso. Se il traffico d’organi, almeno per ora, continua a suscitare scandalo e riprovazione, di fronte all’utero in affitto e al mercato dei figli le reazioni sono flebili. Il mainstream è possibilista.

La condanna del Parlamento Europeo

Che orrore, certo, gli abusi, le cliniche prigione con le gestanti detenute per nove mesi, le baby farm in Nigeria piene di ragazzine incinte che dopo il parto spariscono con le loro creature e non si sa che !ne fanno. Ma l’uso, invece, regolato da un contratto a cui la donna aderisce liberamente e con tutte quante le garanzie igienico-sanitarie, ebbene, perché no? Se in Paesi “civili” come la California e il Canada si può, perché non si dovrebbe poter fare anche da noi? È civile anche la Svezia, e lì il divieto è assoluto. Sono civili la Norvegia, la Danimarca, la Germania, la Spagna e la Francia: come da noi, l’utero in affitto non è ammesso. Al momento l’Europa tiene duro: il Parlamento Europeo condanna la pratica della surrogazione e la considera una questione “urgente” di diritti umani.

Un mercato potenziale sconfinato

Ma gli assalti della bio-lobby sono metodici e continuativi. Le agenzie di surrogacy organizzano i loro tour pubblicitari nel Vecchio Continente. Il mercato europeo è una sconfinata prateria, l’infertilità è in vertiginoso aumento e poi ci sono le coppie gay, naturalmente sterili. I soldi in ballo sono troppi. E se una donna decide in piena libertà di usare il proprio corpo come le pare, prestandosi per una gestazione conto terzi, perché mai uno Stato “etico” dovrebbe impedirglielo? «Il corpo è mio»: non era questo lo slogan principe del femminismo?

Nessuna lo fa gratis

La legge italiana ed europea parla di indisponibilità del corpo se non per un uso solidale e “samaritano”. Posso donare il sangue o un rene, ma non posso venderli. Posso anche condurre una gravidanza per altri (in alcuni casi i tribunali italiani l’hanno concesso) a patto che non vi sia passaggio di denaro. Il corpo è tuo, l’utero è tuo, ma il bambino che dai alla luce non è tuo. Non è un oggetto di tua proprietà e non puoi venderlo. Gli esseri umani non si vendono e non si comprano. «I !gli non si pagano», diceva Filumena Marturano. «Non si tratta di vendita, ma di un dono», è la risposta standard. Nessuna lo fa gratis, ma la strategia di marketing delle agenzie di surrogacy punta sulla retorica ipocrita delle “sante donatrici”. «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividono lo stesso obiettivo: donare la vita» (Artparenting, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri !gli il più puro atto di gentilezza» (Extraordinary Conceptions, California).

Dopo il parto il legame non si interrompe

Anche i committenti (coppie eterosessuali in otto casi su 10, per il resto coppie gay e maschi single) magnificano l’ “incantesimo d’amore”: così lo ha definito Nichi Vendola, padre da qualche mese via surrogazione. Una donna che offre i propri ovociti, un’altra disponibile alla gestazione per conto di perfetti sconosciuti che quasi sempre vivono dall’altra parte del pianeta. Ma i soldi sono il meno, giusto un “rimborso”. Ciò che conta è la gioia di aiutare gli altri. Straordinaria empatia che però, come da contratto, non deve assolutamente scattare nei confronti della creatura da cui ci si separerà subito dopo il parto. Per evitare il rischio che la gestante si attacchi al bambino, alcuni contratti prescrivono di non accarezzarsi il pancione. Ma, carezze e non carezze, per il piccolo che nasce quella è sua madre. La riconosce dalla voce, dall’odore, dal ritmo del cuore, dalla temperatura corporea. I legami epigenetici che si instaurano in quei nove mesi non si interrompono al momento del parto. La neonatologia insegna che la gravidanza prosegue fuori dal corpo per altri 2-3 anni, il tempo che serve al bambino per separarsi dalla madre. Ricordarlo, oggi, equivale a negare un diritto dato per acquisito. L’immagine di una donna che allatta è diventata istigazione all’omofobia.

Non facciamo del corpo una merce

Le femministe di tutto il mondo – le francesi di CoRP, le svedesi di Kajsa Ekis Ekman, le spagnole di No Somos Vasijas, le italiane di Se Non Ora Quando? e tutte le altre – non prendono di mira l’omogenitorialità e chiedono infatti che l’adozione venga aperta anche ai single e alle coppie di fatto. Il punto è un altro, ed è un punto decisivo per la civiltà umana: che del corpo-anima non si faccia merce, che l’invasività del mercato si fermi sulla soglia della relazione più intima che ci sia dato sperimentare, quella del figlio con la madre e della madre con il figlio. Una lotta che le donne stanno conducendo per il bene di tutte e tutti.

Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli, di Marina Terragni (VandA Epublishing. 5,99 euro), [è] un’inchiesta su un business planetario in espansione costante (attualmente negli Stati Uniti nascono più di duemila bimbi da uteri in affitto) nel quale le donne diventano mezzi di produzione e i bimbi merce in vendita.


 

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Ma utero in affitto non vuol dire libertà


di Paola Tavella (IoDonna, 23 luglio 2016)


– L’industria della surrogacy fattura tre miliardi e cresce del 200 per cento l’anno. Progresso? No, solo una nuova forma di sfruttamento. Marina Terragni lo denuncia in un libro di successo. Che fa discutere.

È significativo, secondo me, che la schiacciante maggioranza di giornaliste, studiose, attivisti dei diritti umani, femministe e lesbiche che si occupano da più di vent’anni anni di biopolitica e nuovi modi di nascere avversi lo sfruttamento commerciale della gravidanza e della produzione industriale di neonati destinati a coppie eterosessuali o omosessuali e maschi singoli di ogni orientamento (fenomeno in crescita). Uso le espressioni “sfruttamento” e “vendita” perché ritengo che espressioni neutre, edulcorate o “politicamente corrette” siano solo un astuto strumento del marketing dell’industria della surrogacy, che fattura ormai 3 miliardi e ha un tasso di crescita del 200 per cento l’anno.

Per orientarsi su questo difficilissimo tema va colmato innanzitutto un deficit di informazione, come ha fatto Marina Terragni mandando in libreria per Vanda Publishing un breve, fulminante testo, Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (si trova anche in ebook), di cui molti e molte – fra le altre Susanna Tamaro sul Corriere – hanno discusso in questo ultimo mese. Sull’utero in affitto, ha scritto per esempio la psicoanalista junghiana Costanza Jesurum, ognuna/o tende a reagire non in base alla brutale realtà ma al proprio vissuto nei confronti della propria madre o della propria maternità, perché l’argomento ha immensi contenuti archetipici, emotivi, simbolici. Il successo del libro di Marina Terragni è dovuto alla capacità dimettere ordine proprio in questo magma, intanto liberandosi dall’accusa che avversare la trasformazione delle donne in mezzi di produzione e dei figli in merce significhi schierarsi contro l’omogenitorialità maschile o il desiderio delle coppie sterili. Terragni è invece favorevolissima alla genitorialità gay ma difende un’ovvietà: il neonato non può fare ameno del corpo di sua madre, della sua origine, della sua storia umana. quando questo avviene per disgrazia cerchiamo di trovare rimedio, ma nella surrogacy il danno viene organizzato.

Così Terragni giudica un equivoco qualificare quella pro-surrogacy come una opinione di libertà, e quindi progressista.

La libertà, scrive, non va scambiata con una sorta di “dirittisimo”, come se desiderare un figlio equivalesse al diritto di comprarlo e scavalcare a suon di dollari i veri diritti, quelli scritti nella Dichiarazione dei Diritti Umani e dei fanciulli. Terragni racconta le condizioni atroci in cui le fabbriche di bambini costringono le fattrici in Nigeria, in India, in Nepal, in Ecuador, dove l’80 per cento di quelle che si prestano sono analfabete e non leggono il contratto. Ricchi occidentali pagano per trasferire in una donna di colore l’ovulo fecondato comprato da una donna dell’Est Europa o da una brillante studentessa americana che non riesce altrimenti a pagarsi gli studi, in modo che il figlio nasca bianco. anche in California o in Ucraina i contratti sono scritti per garantire i clienti, non certo la “lavoratrice” che accetta ogni sorta di prescrizione e restrizione, che può essere costretta a abortire, partorisce davanti ai clienti e non può toccare la figlia o il figlio, tanto che dopo la nascita molte vengono sedate di routine, per evitare incidenti. Alcune di queste donne dichiarano di volere aiutare le coppie sterili, oppure si sentono investite da una missione umanitaria – come se il denaro non c’entrasse. Così la mistica della maternità, l’oblatività, il sacrificio femminile vengono rimasticati e riproposti come strumento di propaganda per fare un sacco di soldi, e solo una minima parte va alle fattrici, il resto tocca a mediatori, agenzie, avvocati, medici. Allora, dice Terragni, chiedere l’abolizione universale dell’utero in affitto “non significa soltanto contrastare il nuovo feroce volto del patriarcato e il mercato che divora tutto, ma difendere un punto irrinunciabile di civiltà che ruota intorno al riconoscere e rispettare la differenza sessuale, il cuore della natura umana. Cancellare la maternità e la relazione fra madri e figli significa mettere indubbio tutta la nostra civiltà”.


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Io, figlia di madre difficile non vorrei essere nata dalla gestazione per altri


di Susanna Tamaro (Corriere della Sera, 5 luglio 2016)


– Il fondamento della vita è la genealogia. La storia di chi ci precede fa di noi persone. L’intervento di Susanna Tamaro.

Appena ho terminato la lettura del coraggioso e attualissimo pamphlet di Marina Terragni, Temporary mother (VandA ePublishing), mi è sorta spontanea una riflessione: come mai è stato accolto da un siderale silenzio? E subito è seguita una domanda: quanti sono i fondamentalismi del nostro tempo? Ce ne è uno macroscopico — quello religioso — che per le sue tragiche conseguenze è purtroppo noto a tutti. Ma non se ne annidano forse altri intorno a noi, più miti, più benefici, apparentemente più innocui? In fondo la scomparsa delle ideologie del ‘900 e l’innegabile eclissi del cristianesimo hanno lasciato un grande vuoto di etica e di orizzonti, e il vuoto non è facile da reggere. O si accetta di attraversarlo — consapevoli che l’incertezza fa parte del destino dell’uomo — oppure ci si attacca a qualcosa, a un particolare, e si trasforma quel particolare nel metro della totalità; da quel momento in poi, tutto quello che non si conforma alla totalità che ci rappresenta va combattuto. E in che modo? Con l’invettiva, la ridicolizzazione, la derisione: tutte armi che il mondo della rete offre con democratica generosità. Per linciare una persona basta un click, in meno di un secondo si guadagna la certezza di essere dalla parte giusta del mondo, senza mai essere sfiorati dal dubbio che la parte in cui ci riconosciamo sia soltanto un microscopico spicchio della realtà totale. Questi fondamentalismi domestici — che potremmo chiamare identitari, perché ci si identifica completamente con un’identità parziale — sono particolarmente vivi e attivi nel campo della bioetica, campo a cui la Gpa appartiene di diritto.

Gpa, gestazione per altri. Non occorre essere dei filosofi del linguaggio per capire che la prima e più grande manipolazione del pensiero avviene attraverso le parole. Parlare di «pulizia etnica», ad esempio, è molto diverso che dire «sterminio di massa» perché se c’è del pulito, il nostro inconscio automaticamente pensa che qualcosa in fondo di buono c’è. E così dire «gestazione per altri» e tutt’altra cosa che dire «utero in affitto». Il concetto di affitto porta con sé l’idea, infatti, dell’oggetto e del commercio — grazie al denaro, posso affittare una macchina, un appartamento — mentre la definizione «per altri» ci indirizza verso una positività buonista che rende questa condizione, non solo accettabile, ma anche desiderabile. Ne consegue che tutti coloro che si oppongono a questo progetto sono persone retrive, egoiste, prigioniere di un oscurantismo che non ha più senso di esistere, e — soprattutto — nemiche della Felicità e dell’Amore, i due grandi Totem all’ombra dei quali vive prostrato il nostro tempo. Come puoi pensare, infatti, di negare a qualcuno il diritto di essere felice, il diritto di amare?
Non è forse con la stessa suadente strategia che i predatori di ovuli — quest’abominevole categoria di «benefattori» — si aggira tra le giovani ragazze? «Non vuoi rendere felice una coppia a cui il destino ha negato questo diritto? C’è gente che dona un rene e tu sei così egoista da non voler donare un misero ovetto? Ci guadagni anche due soldini di rimborso, che fanno sempre comodo…». Per delle bambine cresciute con gli ovetti Kinder, questo discorso sembra innocuo, convincente. In fondo che c’è di male? Tranne poi dire, come ho letto in un’intervista fatta a una ragazza donatrice: «Oddio, non è che poi da qualche parte ci saranno dei bambini che mi assomigliano?».
Sempre per l’esercizio di chiamare le cose con il loro nome, gli ovetti — diciamolo allora, per chi zoppica in biologia — sono i nostri figli. Figli che prima iberniamo e poi lanciamo nel mondo come fossimo piante che si affidano alla fecondazione anemofila. Spargiamo semi senza sapere dove andranno a finire. Noi, le madri, non verremo mai a conoscere il loro destino. Può esistere qualcosa di più atroce di questo? La maternità — la condizione fondante del vivente — ridotta a livello delle piante, senza identità individuale. La genealogia ridotta a quella uniformante della specie.
Ma forse è proprio qui, contemplando il punto più basso dell’abisso, che il bio business getta la maschera e fa vedere il suo vero volto, che non è quello di un salvatore bensì quello di un famelico generatore del nulla. Attaccare la maternità, distruggere le sue viscere misericordiose vuol dire attaccare e distruggere i fondamenti del mondo. Per capire questo non occorre essersi rimpinzati di opuscoli Pro Life, basta aver visto almeno una volta una gatta a cui siano stati sottratti i gattini, la trepida cova di una rondine, le povere donne che scendono dai barconi stringendo al petto i loro figli sopravvissuti all’orrore. Basta ricordare l’ultima telefonata di quel povero ragazzo morto nella strage di Orlando: «Mamma, sto per morire, ti voglio bene». O basta anche, semplicemente, ricordare la morte della propria madre. Con la Gpa tutto questo non potrà avvenire, perché la super donna, super generosa — la complementare della donatrice — la donna che tutte noi dovremmo ammirare, cede immediatamente ad altri il frutto del suo ventre.

La verità scientifica — elevata nel nostro tempo a unica verità — a questo punto diventa afasica, muta, inessenziale. Tutti i meravigliosi e straordinari studi sugli intensissimi rapporti che intercorrono in quei nove mesi tra la madre e il suo bambino diventano carta straccia. Nel tempo della fattibilità, il piccolo è ridotto a cosa, viene assemblato in un luogo indifferente ma il suo esistere ridiviene reale soltanto nel momento in cui viene onorato il contratto e consegnato nelle mani dei felicissimi committenti. D’altronde, come dar loro torto? Ogni bambino è un miracolo davanti a cui rimaniamo tutti a bocca aperta! Però, questo miracolo ha un piccolo difetto. È un essere umano e, in quanto tale, probabilmente prima o poi comincerà a farsi domande.

Già perché, assieme agli studi scientifici, sono finiti nel cassonetto decine di capolavori della letteratura con protagonisti giovani orfani o figli illegittimi alla ricerca perenne del volto della madre, un paio di secoli di studi psicologici, l’intera psicanalisi. Il bambino Gpa è un bambino tabula rasa, nasce senza alcun passato e vive — e sappiamo già che sarà felice perché è stato desideratissimo — in un mondo che gli promette un amore incondizionato. Ma quando, un giorno, si guarderà allo specchio e capirà che non potrà mai risalire all’origine di una parte del suo volto, l’amore basterà? E basterà quando si renderà conto che sua madre, per un compenso, ha venduto l’ovulo che l’ha generato, cioè la sua vita?
Se penso alla mia famiglia, la parola «amore» è forse la trentesima che mi viene in mente e la maggior parte delle parole che la precedono non hanno certo una connotazione di positività, eppure io sono quella che sono perché ho avuto quei genitori. Genitori a loro volta generati da altri genitori. Il fondamento della vita umana dunque è la genealogia, non l’amore. Si può nascere anche da uno stupro, si può crescere in un lager. Ciò che fa di un essere umano una persona è prima di ogni altra cosa la storia di chi ci ha preceduto. In nome di che cosa mi chiedo allora, una persona, per esercitare il suo diritto alla felicità, può coscientemente privare un altro essere della sua genealogia? In nome dell’amore? Ma un amore che priva programmaticamente, per principio, qualcun altro di un ben più fondante diritto, che amore è?

E qui va smascherato il secondo passo del bio business. Dato che non esiste la maternità, non esiste neppure il destino. Nessuna unicità appartiene all’uomo. Non è importante sognare, pensare, combattere, danzare. Il corpo a corpo karmico non ci riguarda più. L’esteso campo del mistero — quel campo che ci rende davvero umani — è stato conquistato dalla tecnica ed è lei a preparare per noi delle vite indolori, immerse dall’inizio alla fine nella rilassata piacevolezza del suo Amore.
Le energie messe in moto per propagandare questa nuova visione dell’umano sono potenti, sempre pronte a esaltare con tutti i mezzi un singolo caso, capace di mettere in ombra, con la sua forza emotiva, i principi etici che da migliaia di anni governano la vita degli uomini. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso è il cardine principale su cui si fonda ogni civiltà degna di questo nome. Faccio outing: non vorrei mai essere nata da una Gpa. Nonostante mia madre non sia stata un esempio di amore materno, dalla sua morte in poi c’è un grande vuoto nella mia vita.
Per difendersi da questa aberrante visione del mondo, si dovrebbe prima di tutto cominciare a smantellare il grande ombrello dell’Amore Incondizionato, riportando questo importantissimo sentimento a due categorie fondamentali — l’amore generativo e l’amore oblativo — per ricordarsi che non poter generare non vuol dire non potere amare, anzi l’amore oblativo è spesso più grande e più libero di quello generativo.

E allora perché non lavorare strenuamente nel campo degli affidi e delle adozioni? I tre, quattro anni abituali di attesa, ad esempio, ridotti a nove mesi, il tempo di una gravidanza? Perché non pensare a Incentivi economici, apertura ai single e alle coppie omosessuali quando sia manifesta una stabilità affettiva? Togliere la maggior parte dei bambini dalle situazioni di anaffettività dell’abbandono dovrebbe essere il primo pensiero di una società umanamente degna. Perché, come dice il Talmud, «chi salva una vita salva il mondo intero», e questa salvezza — che nasce dall’amore oblativo — è l’unico vero e umile antidoto che possiamo opporre alla Gpa e allo strapotere del bio business sulla vita.


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Però sbugiardiamo la retorica del dono nell’utero in affitto


di Marina Terragni (Panorama, 29 giugno 2016)


– Anche Nichi Vendola celebra il mito della donna che «regala la maternità surrogata» alla coppia gay. Ma è solo ipocrisia. Perché in realtà i soldi girano. 

Non basta l’accusa di omofobia contro chi si oppone all’utero in affitto, accusa che non risparmia nemmeno le oltre lesbiche resistenti. A ostacolare il confronto tra pro e contro è anche l’insopportabile retorica del «dono», supportata da studi come quello del Center for family research dell’Università di Cambridge, per il quale (altro che soldi!) le «madri surrogate» si offrono soprattutto per la gioia di aiutare gli altri. Una colossale «vocazione al dono» femminile viene celebrata anche da Nichi Vendola, neo-padre via surrogacy intervistato da Francesco Merlo sulla Repubblica, che dalle tariffe sposta l’attenzione sulla generosità della Donatrice (maiuscolo), detta anche «zia… una bella ragazza di 26 anni». E della «Portatrice con il bel faccione allegro… la nostra Grande Madre».

Sul quanto si sorvola. Ma in California, «all inclusive», si spendono in media 130-150 mila dollari: se poi scegli una «mère porteuse premium», ovvio, ti costa di più. Il Talento femminile per il dono è un classico del marketing delle agenzie di surrogacy: «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividono lo stesso obiettivo: donare la vita» (agenzia Artparenting, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri figli il puro atto di gentilezza» (agenzia Extraordinary conceptions, California).

È una distrazione di massa dallo scambio figlio-denaro. Denaro che in ogni caso va immediatamente «ripulito», spostando l’attenzione sulla nobiltà dei fini. Perché è scontato che quei soldi guadagnati per il servizio riproduttivo, in forma di rimborso o di tariffa commerciale, le temporary mother li investiranno «per aiutare i figli a pagarsi gli studi» (Umberto Veronesi) o per aggiustare il tetto di casa. Salvo eccezioni pressoché inesistenti (un atto d’amore tra madre e figlia, tra sorelle tra amiche: è capitato anche in Italia, su autorizzazione dei tribunali) una « surrogacy» non è mai gratis, ma è assolutamente necessario che lo sembri. Come se si volesse eliminare il fantasma produttivo, altrimenti si rovinerebbe il prodotto.

Il compito affidato alla madre portatrice è quindi duplice: non solo la fatica della gestazione, ma anche l’impegno a testimoniare un mondo migliore, in cui la solidarietà umana può spingersi a livelli inimmaginabili. «Un incantesimo d’amore» lo chiama Nichi. Ebbene, questa infinita oblatività delle donne non una novità: il patriarcato ci ha sempre fatto un gran conto. Lo dice anche la fmminista americana Janice G. Richmond: «Nella tradizione patriarcale le donne non sono solo donatrici, ma dono esse stesse». Chi insiste sul «dono» si allinea a pieno titolo a questa tradizione. E allora verrebbe voglia di dire a queste donne: amiche, se proprio dovete, fatevi pagare molto di più. Qualche milione di dollari. E quei soldi spendeteli per voi.

Marina Terragni è giornalista e blogger femminista, autrice di Temporary Mother (Vanda publishing, 100 pagine, 10 euro, in ebook 5,99 euro).


 

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Marina Terragni. Temporary Mother


(Il Foglio, 29 giugno 2016)


– Sul valore sociale della maternità c’è ancora da discutere. Sul suo valore economico non ci sono più dubbi: dai 120-150 mila dollari all inclusive della California – la gestante premium costa un po’ di più – ai 20-30 mila per una docile surrogata indiana.

Esordisce così il pamphlet che la giornalista e blogger Marina Terragni dedica al tema “utero in affitto e mercato dei figli” (anche ebook a 5,90 euro), e che smaschera, spesso ridicolizzandola, la neo-lingua orwelliana con la quale per “altruismo” e “dono solidale” si intende il loro esatto contrario. Era difficile condensare in cento pagine una mole tanto notevole di informazioni e di considerazioni, ma l’autrice è un’osservatrice attenta del fenomeno della tecnoscienza applicata alla generazione umana almeno dalla metà degli anni Ottanta. Ad assisterla c’è anche uno sguardo sulle cose abbastanza libero da non trovare imbarazzante, per una femminista come lei, “il fatto di trovarsi dalla stessa parte della Chiesa nella resistenza all’utero in affitto”. Che “i figli non si pagano” non diventa meno vero, infatti, se lo dicono i cattolici. La produzione di bambini tramite forza lavoro femminile pagata per coprire il ruolo di “madre temporanea” tenuta a consegnare il figlio non è più una realtà edulcorabile. Nemmeno da parte di chi, per esempio la giurista israeliana Carmel Shalev, un tempo elogiava la “gestazione per altri” come mezzo di liberazione dalla “tirannia della procreazione”. Anche lei deve oggi “convenire sul fatto che la maternità per contratto ha dato luogo a un esteso mercato dei bambini in cui le donne non si liberano affatto e non sono altro che mezzi di produzione”. Alla base di tutto c’è, scrive Marina Terragni, “un grandioso piano patriarcale”, che rendendo merce tra le altre la gestazione e il parto, azzera la relazione tra madre e figlio, il “protagonista muto della vicenda”, le cui ragioni “andrebbero tenute per prime” e che invece diventa a sua volta merce. La cancellazione della madre è pianificata attraverso clausole contrattuali che negano al nato da utero in affitto quello che dovrebbe venir meno solo per motivi gravissimi, quando non tragici: malattia o morte della madre, gravidanza non desiderata. “La surrogazione è l’estremo acting out dell’invidia dell’utero. E’ il sogno maschile radicale – cancellare il fatto di essere nati da una donna – che prende corpo con l’ausilio della tecnoscienza e del bio-business”. Per questo, “oggi si riconosce che quello che molte donne stanno dicendo sull’utero in affitto lo stanno dicendo per il bene di tutti. Che quel tenere sempre al centro la relazione è per la felicità di tutti”.


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Madri in affitto: un libro e una polemica


di Maurizio Tortorella, (Panorama, 9 giugno 2016)


– Temporary mother: il saggio di Marina Terragni, giornalista e femminista, contraria al mercato dell’utero.

L’American society for reproductive medicine stima che ogni anno, attraverso la pratica di un utero in affitto, nel mondo nascano molte migliaia di bambini: almeno 2 mila soltanto negli Stati Uniti, con un tasso d’incremento capace di triplicare ogni anno.

A livello globale, invece, per l’ovvia reticenza degli operatori del settore mancano numeri attendibili. Si sa, però, che in India sono attive almeno 3 mila cliniche in grado di produrre 1.500 maternità surrogate l’anno. E in Ucraina, nel 2011, sarebbero state portate a termine 120 gravidanze a pagamento, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto.

Quanto all’Italia, s’ipotizza che almeno 100 bambini nascano ogni anno grazie a un utero in affitto: ovviamente all’estero e clandestinamente visto che da noi la pratica è proibita.

Quel che è certo è che si tratta di un giro d’affari colossale (le stime vanno da 3 a 10 miliardi di dollari, se si considera il business della fecondazione assistita nel suo complesso). È certo anche che il mercato sia molto… “promettente”: tant’è vero che la prossima sponda è l’Africa, sicuramente un paradiso low-cost per le tecnologie riproduttive.

Di e su tutto questo, con piglio estremamente critico, scrive Marina Terragni in Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli, un saggio in libreria da giovedì 16 giugno (Vanda publishing, 100 pagine, 10 euro: l’e-book è già disponibile a 5,99 euro su Amazon).

Scrive Terragni: “Quello che ti viene tolto, la libertà di fare i figli quando c’è il desiderio e il corpo è naturalmente fecondo, ti viene riproposto confezionato in forma di neodesideri e neo-diritti: diritto a un bambino anche quando non arriva, diritto alla “genitorialità”, diritto a riprodursi senza contatti con l’altro sesso. Basta che paghi“.

A parte qualche eccesso ideologico e qualche critica di troppo alle libertà economiche (non tutto il mercato è sfruttamento), la tesi di Terragni è pienamente condivisibile. Soprattutto là dove critica l’ipocrisia di certa sinistra: “Le battaglie antiliberiste e per un consumo critico” scrive Terragni “si fermano imbarazzate sulla soglia dell’utero in affitto e della fecondazione medicalmente assistita: se sei contro gli Ogm stai lottando per l’ambiente e la biodiversità, per salvaguardare la sopravvivenza delle specie e dell’intero ecosistema dall’onnivoracità del profitto e dei desideri indotti nei singoli. Ma se chiedi uno stop alla Gpa, la Gestazione per altri, sei un conservatore, preferibilmente omofobico“.

In realtà, non bisogna affatto essere omofobi per nutrire qualche seria perplessità nei confronti dell’utero in affitto (così come, peraltro, non occorre affatto essere ultraliberisti per essere a favore). È del tutto evidente che la commercializzazione di una gravidanza espone la donna alla possibilità di uno sfruttamento. Anche quando la Gpa, la Gestazione per altri viene compiuta a titolo gratuito.

Correttamente, infatti, Terragni ricorda che in Canada la legge riconosce alle gestanti per altri un’indennità comprensiva del rimborso delle spese mediche, che in realtà è un compenso a
tutti gli effetti: “E in Canada le donne” scrive l’autrice “si offrono per avere quei soldi”.

Ed è vero che in Italia una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana”, cioè la possibilità di donare un rene a una persona sconosciuta. Quella legge in realtà è stata applicata molto raramente, in genere ricorrendo a donatori molto particolari: per esempio persone detenute, “il cui gesto” scrive Terragni “va letto in una chiave di riscatto morale e di risignificazione della propria esistenza”.

Ma anche qui l’autrice ha ragioni da vendere: l’analogia tra dono d’organo e utero in affitto si ferma qui. “Perché se la donazione d’organo è un fatto tra due, il donatore e il ricevente, nel caso dell’utero c’è un terzo, il nascituro, le cui ragioni andrebbero tenute per prime“.

Insomma, un libro interessante e informato, provocatorio e ben scritto.

Giornalista, milanesissima, Terragni ha scritto fino allo scorso febbraio per il periodico Io Donna. Ora fa la blogger, ovviamente impegnata a sinistra. Ai primi di giugno il suo profilo Facebook è stato bloccato perché qualcuno aveva segnalato come “omofoba” questa sua frase: “Se una donna è una “cosa” che si può affittare, tutta o in tranci, la si può anche bruciare, vetriolare, uccidere”.

La frase, è evidente, giocava sul paradosso, ma era logicamente ineccepibile: se s’impone la cultura del possesso, e un essere umano può trasformarsi in oggetto da vendere e comprare, le conseguenze estreme possono coerentemente arrivare agli estremi criminali della cronaca nera.

Purtroppo è bastato gridare all’omofobia perché cadesse la mannaia della censura. E non è afftto un bel segno.


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«Soldi e tecnica per cancellare la madre»


di Umberto Folena (Avvenire, 9 giugno 2016)


– La denuncia al femminile nel libro di Marina Terragni: la maternità surrogata conduce a una «nuova forma di patriarcato» e nasce dall’«invidia dell’utero».

La maternità surrogata altro non è che il più recente colpo grosso del neoliberismo. Ma soprattutto è una nuova forma di patriarcato, l’ultima offensiva contro la donna e il suo corpo, diretta a ciò che rende unica la donna: la maternità e la relazione con il figlio. A sostenerlo è una firma illustre del giornalismo e del femminismo, Marina Terragni, nel suo ebook Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (Vanda epublishing, pagine 99, euro 5,99), un brillante pamphlet che non risparmia colpi nemmeno all’universo Lgbt e non nasconde la frattura in corso tra Arcilesbica, (quasi) compatta contro il mercato degli uteri, e le donne Arcobaleno, in larga parte schierate con gli uomini e il loro “diritto” al figlio. Nessun concetto davvero nuovo per chi in tanti anni ha seguito Avvenire. Ma interessante è la prospettiva decisamente non cattolica che, pur muovendo da altre premesse, finisce per convergere su tantissimi punti proprio con i cattolici. La critica all’onnipresenza e onnipotenza del mercato, ad esempio, ricorda analoghi affondo della Dottrina sociale, con le parole scomode (chi denuncia limiti e errori del capitalismo sfrenato, o del liberal-liberismo per dirla con Zamagni, da alcuni viene immediatamente sospettato di “comunismo”, sic) in particolare di Giovanni Paolo II e Francesco. Ricorda anche un altro autore non cattolico ma molto letto, ascoltato e stimato da numerosi cattolici come Zygmunt Bauman. «Il mercato neoliberista – scrive Terragni – si prende le sementi e ce le rivende, si prende l’acqua e ce la rivende, si prende anche i nostri corpi e ce li rivende, trasformandoci in consumatori di noi stessi» (qui l’eco della consumerist society baumaniana, contrapposta alla società di produttori, è palese). Nel pamphlet di Marina Terragni le parole chiave sono due: relazioni e patriarcato, ossia ciò che nella Gpa – la gestazione per altri, sigla con cui da qui in poi ci riferiremo alla maternità surrogata – viene negato e chi cerca di trarne profitto. Le relazioni sono «il vero nemico del comunismo e del mercato». Bauman parlerebbe di legami, quelli che il mercato ha la necessità di rendere friabili. L’essere umano è tale perché in relazione; e senza relazioni è sempre meno umano. Così – qui a parlare è la voce giustamente orgogliosa di una femminista – «oggi si riconosce che quello che molte donne stanno dicendo sull’utero in affitto lo stanno dicendo per il bene di tutti. Che quel tenere sempre al centro la relazione è per la felicità di tutti». Invece, pagando una donna affinché diventi madre di un bambino che non dovrà mai neppure vedere, «si compra il diritto di rompere la relazione». Il denaro surroga quella relazione, e la misura della relazione viene sostituita con quella del denaro. Terragni cita la femminista svedese Kajsa Ekis Ekman: «La maternità surrogata è un fenomeno capitalistico che aliena l’essere umano dalla sua stessa progenie». Il cuore femminista palpita. Maschi e femmine non sono uguali, ma disuguali. Le donne possono mettere al mondo, gli uomini no. Di qui «l’invidia dell’utero»: «Gli uomini hanno compreso di non essere pari alle donne quanto a potenza creativa, e contro quella disparità e quella potenza hanno escogitato il dispositivo del potere. Si son presi i corpi delle donne, hanno dato vita al grandioso piano patriarcale». Come scrive l’eco-teologa femminista Mary Daly: «Quei figli (della Gpa, ndr) sono figli dei maschi, dei loro laboratori, del loro ordine simbolico».

È la posizione di una femminista, per questo invisa a ex compagne e soprattutto compagni di lotta, così come oggi il confronto tra Arcilesbica e Famiglie Arcobaleno è perfino aspro. I toni di Marina Terragni sono senza mezze misure: il piano che si nasconde dietro la Gpa, voluta e organizzata soprattuttto da maschi, è «far sparire la madre» per «una nuova forma, moderna, di patriarcato». La surrogazione è l’estremo acting out dell’invidia dell’utero. È il sogno maschile radicale – cancellare il fatto di essere nati da una donna – che prende corpo con l’ausilio della tecnoscienza e del bio-business». Sì, la Gpa è faccenda da neo-patriarchi. Che alla madre surrogata chiedono l’impossibile: sottrarsi alla relazione con il bambino, «la relazione più intensa che ci sia dato sperimentare». È la scomparsa della madre per contratto con il nascituro, «protagonista muto della vicenda», il tutto nel nome «dell’individualismo proprietario». La celebre frase, anzi il claimfemminista «il corpo è mio», viene manipolato e ridotto al «mio» di una proprietà privata di cui si può e si deve fare commercio: «Il corpo è del mercato». La conclusione ha toni drammatici, perfino apocalittici: «Se lasciamo entrare il mercato nella relazione tra madre e figlio, se gli lasciamo slegare anche questo legame, il mondo muore».

A questo punto entra in gioco Antigone. A lei, e alla sua resistenza al re di Tebe, Creonte, si appella Marina Terragni. L’eroina di Sofocle, decisa a contravvenire alla legge e a seppellire comunque il fratello, dichiara: «Non temo di mostrare alla città questo mio atto di anarchia». Non è l’anarchia come possiamo pensarla oggi d’acchito. È an-arché, “senza principio”, ossia da sempre. Antigone alla legge storica del re di Tebe, e alle odierne leggi del mercato, oppone le leggi cosmologiche innate, che esistono da sempre, a cominciare dalla pietas nel caso di Antigone, fino al «primato della relazione vivente, custodito dal madre-figlio/a, e di quelle leggi che esistono da sempre, a cui anche gli dei devono obbedire».

Che in questa “battaglia” tante femministe si trovino schierate con la Chiesa può essere imbarazzante? Terragni taglia corto e ricorda come «tante volte la Chiesa è stata ed è ancora oggi dalla parte delle donne, più di quanto il laicismo diffuso (dico laicismo, non laicità) consenta di riconoscere». È la Chiesa, oggi, «l’unico argine contro l’onnipotenza del neoliberismo». E tanto basti.

Analisi brillante, resistenza combattuta dalla trincea del femminismo meno ideologizzato, posizione chiara. Ma come può agire, nel concreto, questa «anarché femminile che vuole sottrarsi all’onnipotenza delle leggi di mercato e alla fretta del profitto»? Può e deve «agire sul limite», un limite interiore. Poiché scienza e tecnologia sono difficilmente contenibili, occorre agire sulle coscienza: parola che Marina Terragni non usa, ma di cui si sente distintamente il profumo.


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Utero in affitto, guerra tra gay e donne, lesbiche e non. Terragni «omofoba»: e Facebook la oscura


di Umberto Folena, (Avvenire, 3 giugno 2016)


– ​Le donne, anche lesbiche, non possono pronunciarsi contro l’utero in affitto senza subire attacchi, anche pesanti, degli omosessuali maschi. Una guerra sotto lo stesso tetto Lgbt.

«Se una donna è una “cosa” che si può affittare, tutta o in tranci, la si può anche bruciare, vetriolare, uccidere». Una frase forte dai toni paradossali, ma dalla logica ineccepibile: se si impone la cultura del possesso, e un essere umano è un oggetto da vendere e comprare, possedere e gettare, le conseguenze estreme possono essere anche certi agghiaccianti fatti di cronaca. Ebbene, per questa frase pubblicata sulla sua bacheca, Marina Terragni, giornalista e scrittrice, a lungo nota firma di «Io donna» e del «Corriere della sera», dopo una sequela di insulti, è stata segnalata come “omofoba” e si è vista cancellare il post da Facebook e bloccare per 24 ore il profilo. Marina Terragni non esclude che si tratti di una forma di ritorsione per il suo ultimo libro, «Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli» (VandA epubblishing), che denuncia come le donne diventino mezzi di produzione e le creature umane oggetti in vendita: «Se perdiamo il nostro statuto di esseri umani – spiega – può essere meno drammatico dar fuoco a una donna o somministrarle acido muriatico». «Violenza maschile», conclude Marina Terragni. E ricorda il caso recentissimo della sociologa milanese Daniela Danna, dichiaratamente lesbica. Sabato scorso doveva parlare a Udine del suo libro «Contract Children: questioning surrogacy» («Bambini su commissione: domande sulla maternità surrogata»), ma Arcilesbica, che organizzava l’evento, ha disdetto all’ultimo minuto su pressione, pare, di altre componenti del movimento Lgbt. Gran parte delle lesbiche sono infatti contrarie alla Gpa (Gestazione per altri), i gay invece sono a favore; e per qualcuno è guerra: «Sarebbe orribile se ci scannassimo tra donne sulle pretese maschili», è l’amaro commento di Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica Milano. Intanto l’appuntamento di Udine è rinviato a data da destinarsi.