Pubblicato il

Fumo, bevi e mangio molta carne di P. Dacrema


di Valeria Merlini (Panorama, 10 maggio 2016)


– Per mezzo  di argomentazioni approfondite e convincenti, Pierangelo Dacrema mette sul banco degli imputati talebani della salute, ciarlatani dell’ambientalismo e animalisti demagoghi e, nel contempo, offre nuovi spunti di riflessione sul tema del vizio.

Per mezzo di argomentazioni approfondite e convincenti, Pierangelo Dacrema mette sul banco degli imputati talebani della salute, ciarlatani dell’ambientalismo e animalisti demagoghi e, nel contempo, offre nuovi spunti di riflessione sul tema del vizio.

Il suo è un libro provocatorio, dall’aspetto deliberatamente controcorrente, in cui vuole affermare con certezza che certi piaceri corrispondono a un’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. In un mondo che continua a ripeterci la necessità di vivere sano, l’autore lancia un grido di protesta a nome di chi desidera mangiare, bere e fumare quando gli pare, rimettendo in gioco il concetto di etica tanto quanto quello di tolleranza: “Il problema è che fumo e bevo, di brutto, e offro spesso uno spettacolo indecente di me stesso. Per di più mangio altri animali, e dimostro con questo la mia natura di uomo prepotente, arrogante, forse anche poco intelligente. Mi sembra che esistano gli estremi per trattare la questione come un problema etico. Una volta affrontato il quale avrò qualche elemento in più per capire se devo considerarmi un individuo immarale o più o meno normale”.

Fumo, bevo e mangio molta carne

di Pierangelio Dacrema

VandA.ePublishing, 2016


 

Pubblicato il

Carnivori vs vegani, due titoli sul tema


di Micol Borzatta (Liberi di scrivere, 19 aprile 2016)


Mangiare o non mangiare carne è un tema molto attuale, e soprattutto molto dibattuto. I motivi per una scelta o per l’altra sono vari e spesso non troppo consapevoli. Per alcuni è solo una moda, magari passeggiera, un modo per essere in, per altri è una scelta di vita con implicazioni morali e etiche, o per motivi di salute. Nei mesi scorsi si è parlato del fatto che la carne rossa possa essere cancerogena, tra ammissioni e ritrattazioni. La confusione è tanta insomma. A fare chiarezza ci prova un’ iniziativa di VandA ePublishing, la pubblicazione di due libri che partono da presupposti opposti. A metterli a confronto ci penserà la nostra Micol Borzatta. Buona lettura.

Contro la caccia e il mangiar carneLev Tolstoj

Partendo dai tempi della lotta tra paganesimo e cristianesimo, passando per i pitagorici, gli agnostici, i cristiani, i bramini, i buddisti, i filosofi greci, Lev Tolstoj spiega come dovrebbe essere il percorso che l’uomo dovrebbe affrontare se vuole veramente condurre una vita morale.
Come in tutte le cose, anche per condurre una vita morale bisogna rispettare un preciso ordine nell’acquisizione delle virtù necessarie. Per procedere correttamente bisogna iniziare dal primo gradino e salire, gradino dopo gradino, passo dopo passo.
Il primo gradino è l’astinenza. Astinenza vista nel senso più materiale e carnale del termine. Come per lo spirito è l’astinenza al piacere, all’istinto carnale e animale, per il fisico e la salute è l’astinenza dal mangiare carne.
Il digiuno viene infatti visto come un processo di purificazione. Un essere umano che mangia carne sarà per sempre debole, debolezza che lo porterà a ricaderci ancora e a non avere le forze necessarie per usare la forza di volontà e resistere a queste tentazioni, non per niente, secondo Tolstoj, la storia dimostra ampiamente che la maggior parte degli uomini forti, snelli, in salute e attivi si nutra esclusivamente di pane nero, riso e cereali.
Un saggio molto forte che anticipa di parecchio la moda odierna al vegetarianesimo e al veganesimo.
Tolstoj perora la sua causa di ex cacciatore convertito portando esempi di smembramento di capi di bestiame da parte dei macellai, a battute di caccia e alla preparazione del pollame. Tutte descrizioni forti, raccontate nei minimi particolari, senza mezze parole, con scene che possono anche turbare quei lettori un po’ deboli di stomaco, ma necessari, sempre secondo Tolstoj, per far capire ai carnivori la realtà dei fatti.
Un saggio che invece di essere solo un’esposizione del proprio pensiero, sembra più un discorso politico, un trattato per convincere chi non lo è ad abbracciare lo stile di vita vegetariano, o meglio ancora vegano.
Un saggio che si legge velocemente vista la sua brevità, ma che fa riflettere, sia allora come oggi, su quello che potrebbe veramente essere necessario per la nostra salute e quello che non lo è.

Lev Nikolaeviv Tolstoj nasce nel 1828 a Jàsnaja Poljana e morto nel 1910 a Astàpovo. Scrittore, filosofo, educatore, attivista sociale russo, pedagogo e studiosi di testi sacri occidentali e orientali, agli inizi degli anni ottanta si converte, sviluppa un’etica basata sul principio della non-violenza, adotta uno stile di vita ispirato al Vangelo e diventa vegetariano.

Fumo, bevo e mangio molta carne! di Pierangelo Dacrema

Chi non è più tra i giovanissimi si ricorda i vecchi tempi in cui si poteva fumare nei locali, al cinema, in classe senza nessun problema. Tempi che per chi è ancora un fumatore rimpiange, mentre per i non fumatori è una vittoria. Finalmente i demoni sono stati esorcizzati, i fumatori sono stati esiliati fuori.
Siamo arrivati in un’epoca dove solo i salutisti hanno voce in capitolo, dove se non sei vegano, se non rispetti l’ambiente, se non usi i pannolini del tipo giusto per ogni bambino gli rovini la vita, ma nessuno si ricorda, salutisti in primis, che fino a oggi siamo cresciuti tutti con genitori che fumavano in casa, con il fumo passivo nei locali, con un solo tipo di pannolino o di omogeneizzato e nessuno è morto, anzi siamo cresciuti bene e ci siamo fatti gli anticorpi.
Questo romanzo è un po’ un romanzo propaganda, anche se con toni molto leggeri e ironici. Dacrema vuole far capire come gli eccessi sono sempre negativi, sia quelli troppo liberali che quelli troppo restrittivi, e lo fa con questo libro, raccontando il passato e la vita di chi fuma, di chi beve e di chi mangia troppo, spesso ingigantendo le cose di proposito, ma solo per far vedere come sono ridicole tutti gli eccessi.
Un romanzo che si legge volentieri e che in molte pagine fa anche ridere, romanzo in cui spesso ci si rivede se facenti parte di fumatori o ex fumatori. Un romanzo che fa davvero pensare senza, per una volta, voler far cambiare la vita al lettore.

Pierangelo Dacrema è docente ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Ha insegnato all’Università di Bergamo, di Siena, alla Cattolica, alla Bocconi e alla Nuova Accademia delle Belle Arti di Milano. Ha già pubblicato La crisi della fiducia. Le colpe del rating nel crollo della finanza globale nel 2008, Il miracolo dei soldi. Come nascono, dove vanno, come si moltiplicano nel 2010, La dittatura del PIL nel 2013, Lettera aperta a uno studente universitario nel 2013, Marx & Keynes: un romanzo economico nel 2014, La morte del denaro nel 2014, Trattato di economia in breve nel 2015.

Source: ebook inviati dall’editore, ringraziamo Fabia dell’Ufficio Stampa VandA ePublishing.


Pubblicato il

L’agnello a Pasqua? Tolstoj non lo avrebbe mai mangiato


di C. S. (Mentelocale, 24 marzo 2016)


– Un dibattito sempre più attuale è quello che mette a confronto vegani e carnivori. Modelli esistenziali differenti, da un lato tra chi sostiene uno stile di vita sostenibile, salutistico e che rispetti gli animali, dall’altro tra chi preferisce cedere ai piaceri della tavola e godersi senza pensare un hamburger e una bistecca.

 

Un dibattito sempre più attuale è quello che mette a confronto vegani e carnivori. Modelli esistenziali differenti, da un lato tra chi sostiene uno stile di vita sostenibile, salutistico e che rispetti gli animali, dall’altro tra chi preferisce cedere ai piaceri della tavola e godersi senza pensare un hamburger e una bistecca.

L’eterna diatriba che si scatena sempre più non solo a parole, ma anche a colpi di post e tweet sui social network, si accende maggiormente nei periodi delle festività, per esempio in tempo di Pasqua, quando la tradizione vuole che sulle tavole si trovi l’agnello.

Proprio in occasione di Pasqua Vanda e-publishing ha deciso di pubblicare due volumi di segno opporto: da un lato proponendo un celebre testo inedito di Tolsoj, Contro la caccia e il mangiar carne, dall’altro il libro di Pierangelo Dacrema, Fumo, bevo e mangio molta carne.

Il celebre scrittore e filosofo russo fu uno dei primi a trattare l’argomento, esponendo nel volume idee contenenti già, in nuce, gran parte degli argomenti portati avanti da vegetariani e vegani un secolo più tardi. Ripercorrendo un filo millenario, che va dai pitagorici agli agnostici, dalle basi del cristianesimo a quelle del protestantesimo, Tolstoj dimostra la necessità, per l’uomo che vuole perseguire una vita davvero morale, della riscoperta di quel senso di pietà che, per natura, gli appartiene. In questo intenso e letterario pamphlet, di forte precocità rispetto alla sua epoca, lo scrittore intende dimostrare come l’astensione dal mangiare carne sia primo il gradino da cui iniziare questo cammino, alla volta di una vita più giusta con se stessi e con gli altri.

Di tutto altro avviso è Pierangelo Dacrema, professore di economia e grande sostenitore di piaceri della vita, nel suo Fumo, bevo e mangio molta carne. In questo volume, dal titolo provocatorio e dall’aspetto deliberatamente controcorrente, Dacrema vuole affermare con certezza, e come primo dato imprescindibile, che certi piaceri corrispondono a un’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. In un mondo che continua a ripeterci la necessità di vivere sano, l’autore lancia un grido di protesta a nome di chi desidera mangiare, bere e fumare quando gli pare, rimettendo in gioco il concetto di etica tanto quanto quello di tolleranza.


Pubblicato il

L’agnello a Pasqua? Tolstoj non lo avrebbe mai mangiato


(Mentelocale, 24 marzo 2016)


Un dibattito sempre più attuale è quello che mette a confronto vegani e carnivori. Modelli esistenziali differenti, da un lato tra chi sostiene uno stile di vita sostenibile, salutistico e che rispetti gli animali, dall’altro tra chi preferisce cedere ai piaceri della tavola e godersi senza pensare un hamburger e una bistecca.

L’eterna diatriba che si scatena sempre più non solo a parole, ma anche a colpi di post e tweet sui social network, si accende maggiormente nei periodi delle festività, per esempio in tempo di Pasqua, quando la tradizione vuole che sulle tavole si trovi l’agnello.

Proprio in occasione di Pasqua Vanda e-publishing ha deciso di pubblicare due volumi di segno opporto: da un lato proponendo un celebre testo inedito di Tolsoj, Contro la caccia e il mangiar carne, dall’altro il libro di Pierangelo Dacrema, Fumo, bevo e mangio molta carne.

Il celebre scrittore e filosofo russo fu uno dei primi a trattare l’argomento, esponendo nel volume idee contenenti già, in nuce, gran parte degli argomenti portati avanti da vegetariani e vegani un secolo più tardi. Ripercorrendo un filo millenario, che va dai pitagorici agli agnostici, dalle basi del cristianesimo a quelle del protestantesimo, Tolstoj dimostra la necessità, per l’uomo che vuole perseguire una vita davvero morale, della riscoperta di quel senso di pietà che, per natura, gli appartiene. In questo intenso e letterario pamphlet, di forte precocità rispetto alla sua epoca, lo scrittore intende dimostrare come l’astensione dal mangiare carne sia primo il gradino da cui iniziare questo cammino, alla volta di una vita più giusta con se stessi e con gli altri.

Di tutto altro avviso è Pierangelo Dacrema, professore di economia e grande sostenitore di piaceri della vita, nel suo Fumo, bevo e mangio molta carne. In questo volume, dal titolo provocatorio e dall’aspetto deliberatamente controcorrente, Dacrema vuole affermare con certezza, e come primo dato imprescindibile, che certi piaceri corrispondono a un’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. In un mondo che continua a ripeterci la necessità di vivere sano, l’autore lancia un grido di protesta a nome di chi desidera mangiare, bere e fumare quando gli pare, rimettendo in gioco il concetto di etica tanto quanto quello di tolleranza.


Pubblicato il

Nonostante il velo


di Gabriella Grasso (Q Code Magazine, 2 marzo 2016)


– Intervista alla scrittrice Michela Fontana su Arabia Saudita e donne.

Di come vivono le donne in Arabia Saudita qualcosa si sa, ma poco. Sappiamo, per esempio, che non hanno il diritto di guidare e che negli ultimi 25 anni piccole rappresentanze femminili hanno fatto qualche tentativo (il primo nel 1990, l’ultimo nel 2014) per superare un divieto che, pur non essendo scritto, viene considerato assoluto. Quando la giornalista Michela Fontana si è trasferita nel Paese a seguito del marito diplomatico, ha quindi pensato che si trattasse di un’occasione unica per indagare l’universo femminile saudita. Durante due anni e mezzo (dal luglio 2010 al dicembre 2012) la giornalista ha incontrato, intervistato, ascoltato molte saudite, alcune delle quali sono diventate sue amiche. Ne è venuto fuori il libro Nonostante il velo (Vanda Publishing, euro 15) che è un documento prezioso anche per il tono con cui è scritto, che non quello dell’occidentale che giudica o compatisce o disprezza chi vive in maniera diversa. Ma quello di una giornalista – e donna – che ascolta, cerca di comprendere e dà voce.

Innanzitutto, com’è stata per te questa esperienza dal punto di vista umano? Sei ancora in contatto con le donne che hai conosciuto?
«È stata un’esperienza che mi ha arricchito molto: con quasi tutte le donne che ho incontrato si è creato un bel rapporto umano e con qualcuna siamo diventate amiche. Ma a riprova della chiusura del Paese, da quando sono tornata in Italia ogni tentativo di mantenere i rapporti via mail è stato frustrato dal silenzio. Mi hanno risposto in poche e, chi lo ha fatto, ha adottato toni formali, per paura».

Tra gli incontri di cui racconti mi ha colpito quello con Zinah, una donna con il viso gonfiato dal botulino che ti accoglie nel suo sontuoso giardino barcollando su scarpe con la suola rossa e i tacchi altissimi e che poi, durante il vostro colloquio, stigmatizza la libertà delle occidentali e difende il modo di vivere delle saudite.
«Zinah, che però ho incontrato solo una volta, esprime le contraddizioni del Paese: nonostante sia ricca e abbia mandato i figli a studiare all’estero, parlando con me si è subito messa in una posizione di difesa della sua cultura e di attacco alla nostra. Sono molte le donne che, pur viaggiando e godendo delle libertà dell’Occidente, giudicano negativamente i nostri costumi e difendono aspetti della loro cultura che per noi sono inconcepibili».

Come la poligamia. Tu dici che, davanti all’argomento, lo sguardo di ogni donna si riempie di sgomento…
«Sì, tutte quelle che ho intervistato a lungo, con cui ho instaurato un rapporto di fiducia, persino le più religiose, davanti alla parola poligamia hanno mostrato paura e gelosia nei confronti delle altre mogli. A riprova del fatto che i sentimenti delle donne sono identici in tutto il mondo. Ricordo che una di loro, che poi è diventata un’amica, quando abbiamo iniziato a parlare mi ha subito detto, con sofferenza: “Sono la seconda moglie. Non perché lui è divorziato, sono proprio la numero due”. Tutte, alla domanda: “Cosa faresti se tuo marito prendesse un’altra moglie” hanno tradito panico. Una mi ha risposto, mesta: “Mi domanderei dove ho sbagliato”. Certo, ho anche incontrato una professoressa di studi coranici che, insieme a due sue allieve, ha difeso l’istituto della poligamia e del guardiano (in Arabia Saudita le donne hanno bisogno dell’autorizzazione di un wali, un guardiano di sesso maschile, per qualunque decisione legalmente rilevante, per iscriversi a scuola, lavorare, uscire dal Paese, ndr): ma si capiva che recitava a memoria una lezione. Era propaganda. D’altra parte, le saudite sono sottoposte a un lavaggio del cervello sin da bambine».

E per fartelo capire Afifah ti mostra i testi scolastici della figlia e ne traduce per te alcuni passaggi: le donne sono paragonate a gioielli, torte o pistacchi, che devono essere tenuti nascosti per non “ingolosire” i maschi che altrimenti potrebbero volerli “leccare”. Oppure sono descritte come agnelli indifesi e gli uomini come “lupi pronti a divorarle”. Per paragonare la condizione femminile in Occidente e in Arabia Saudita vengono usati due disegni: nel primo c’è una caramella scartata e coperta di mosche e, sullo sfondo, una ragazza in jeans; nell’altra una caramella intatta, avvolta in una bella carta stagnola e, sullo sfondo, una donna velata con il capo chinato…
«Gli argomenti religiosi sono oggetto di studio per cinque ore al giorno fino all’università. La religione viene affrontata in tutti gli aspetti: il Corano, gli Hadith del Profeta, la legislazione, la moralità. In libreria ho trovato un volume dal titolo Fatwas che riguardano le donne che mi ha sconvolto: vi era elencato nei dettagli tutto ciò che si può e non si può fare durante il ciclo mestruale (non si può toccare il Corano, per esempio, ma si può recitarlo) e c’era un capitolo intero intitolato: “Regole riguardo alle secrezioni”. Insomma: esistono norme per tutto, per ogni gesto da compiere e in ogni momento del mese. Sin da bambine le saudite vivono in un mondo di divieti e prescrizioni religiose che non possono trasgredire. La blogger EMAN che è una giovane molto sveglia e brava che ha vissuto in Gran Bretagna mi ha detto chiaramente: “Voi occidentali non lo capite, ma noi veniamo educate così, non possiamo cambiare la nostra mentalità facilmente”. Imparano che l’uomo è predatore e che l’unico modo per difendersi è coprirsi. E in effetti nel Paese quando gli uomini si trovano nei pressi di una donna sembrano davvero dei lupi affamati: ma è la conseguenza della separazione dei sessi. I giovani sauditi sono disposti a fare delle gimcane pazzesche con l’auto pur di intravedere di sfuggita una donna. C’è un’enfatizzazione degli aspetti sessuali che da noi non esiste perché siamo abituati alla mescolanza dei sessi sin da bambini».

Mi ha stupito che anche molte delle giovanissime che hai incontrato – quelle della “generazione Twitter” – difendano certi aspetti della loro cultura come l’istituto del guardiano.
«È vero, parecchie sono convinte che il guardiano sia una protezione. Per certi versi è vero, ma occorre essere molto fortunate. Se hai un padre illuminato che ti concede di studiare e di viaggiare (in compagnia di tua madre) e poi trovi un marito altrettanto aperto che ti consente di lavorare (nel caso tu trovi un impiego, cosa non facile) o di prendere il tè con le amiche, la sensazione di protezione è reale, perché secondo le regole vigenti nel Paese l’uomo deve provvedere alla donna in tutto, lei non deve occuparsi di nulla. Ma il confine è sottile e basta che il guardiano cambi idea o prenda un’altra moglie, perché ogni libertà svanisca. Le donne in Arabia Saudita sono delle eterne adolescenti, non persone con gli stessi diritti civili di un uomo. Ma ora internet sta mostrando ai giovani un modo diverso di vivere: in rete maschi e femmine si parlano e questa è già una vera rivoluzione. Certo, non basta per modificare un’intera società, e internet non è sempre un luogo sicuro, perché si può essere messi in prigione per un Tweet. Però il cambiamento è in atto. Ho conosciuto una giovane che, quando si è tolta il velo, ha scoperto capelli cortissimi e decine di orecchini, oltre a essere essere piena di entusiasmo e idee. Sapendo che non è mai uscita dal Paese e appartiene a una famiglia conservatrice le ho chiesto da dove venissero le sue idee: dal web, mi ha risposto».

Leggendo il tuo libro sembra di capire che molte donne saudite siano convinte che le occidentali vivano nel pericolo.

«Una frase che mi sono sentita ripetere molto spesso – anche da chi ha viaggiato – è questa: “Da voi le donne vengono violentate per strada”. La propaganda antioccidentale è forte: nelle moschee si parla dell’Occidente come luogo di ogni peccato, dove le donne sono tutte prostitute. Ma non è solo questo. Un uomo, parlando con mio marito della possibilità di trasferirsi all’estero con la moglie per un periodo lungo, gli ha detto: “Se sarà costretta a togliere il velo, per lei sarà traumatizzante: ne sarà terrorizzata”. È normale che sia così: se sei abituata a vivere velata, senza velo ti senti nuda. Inoltre, se io in Italia vedo per strada una giovane con una minigonna inguinale, può anche darmi fastidio, ma sono in grado di contestualizzare. Una saudita no, e sarà quindi portata a pensare che da noi non esistano regole morali. Non voglio giustificare i loro pregiudizi, che sono pesanti, ma comprenderli. Per gli uomini sauditi, anche quelli abituati ad andare all’estero, le occidentali sono facili: nel libro racconto di una diplomatica alla quale un tizio, in aereo, si è sentito autorizzato a mostrare delle immagini porno, perché lei viaggiava sola».

Come ti spieghi il massiccio ricorso alla chirurgia estetica da parte delle saudite?
«Ammetto di non aver affrontato con loro l’argomento, che comunque riguarda solo le classi medio-alte, ma ho rilevato che le donne sono interessate a tutti gli interventi estetici che si possono realizzare sotto il velo: non a caso sono le maggiori consumatrici di make-up del mondo arabo e, quando possono, si vestono in maniera estremamente sexy. Sotto l’abaya (un leggero soprabito nero che copre il corpo fino ai piedi, ndr) c’è molto sesso, o meglio molta rappresentazione del sesso. Le donne hanno un rapporto poco sereno, esasperato con la femminilità, perché per loro è tutto: essere donna vuol dire riuscire ad attrarre un uomo, sposarlo, tenerselo. Per molte l’essenza della vita è quella: sposarsi e avere dei figli, specialmente un maschio. Questi sono valori ancora fortissimi».

Qamar era una vera amica, per te. Ma i vostri rapporti si sono incrinati quando ti ha raccontato di aver esultato durante l’attacco alle Torri Gemelle…
«Qamar è la donna più occidentalizzata che abbia conosciuto lì: diventare amiche è stato facile perché avevamo codici comuni, molti argomenti di cui parlare. Lei è l’unica che mi abbia confessato di essere atea (in Arabia Saudita l’apostasia è un reato, ndr). Sono rimasta molto male quando mi ha rivelato la sua gioia in occasione dell’11 settembre: ma dopo ho capito che, probabilmente, nel suo rapporto con me aveva sempre mantenuto un’ambiguità di fondo. Una donna mi ha spiegato che per i sauditi l’ambivalenza nei confronti degli occidentali è normale: mentire agli infedeli non è considerato un peccato, anzi. La parola che è stata impiegata per spiegarmi questo fenomeno è: dissimulazione. Mi ha colpito perché ricordo che era la stessa che avevo incontrato studiando il periodo dell’Inquisizione, quando se avevi idee diverse da quelle della Chiesa dovevi dissimulare per sopravvivere. Evidentemente pure Qamar nel rapportarsi con me ha dissimulato tenendo nascosta da qualche parte, dentro di sé, l’idea che gli occidentali sono nemici. E, in quanto nemici, si può gioire se vengono sterminati in un attacco aereo».

In un capitolo affronti il caso delle donne maggiormente in difficoltà: quelle più povere.
«Sono venuta a contatto con una realtà terrificante e, purtroppo, ho compreso che si tratta solo della punta dell’iceberg. Le donne che vengono arrestate dai mutaween (i membri della polizia religiosa) perché hanno fatto anche un minimo gesto contro la morale – come rivolgere la parola a un uomo – sono considerate disonorate e spesso vengono rinnegate dalla famiglia. Finiscono quindi in centri di accoglienza gestiti da attiviste o da società di carità della Casa Reale. Lì ricevono aiuto, ma essendo senza onore, senza famiglia e senza guardiano, la loro vita è praticamente finita. Sono abbandonate, in povertà, non escono nemmeno più dagli istituti. In generale le donne povere sono nelle situazioni più critiche perché sono anche le più conservatrici: non hanno strumenti per aprire la mente, non hanno studiato, non hanno il computer e  spesso nemmeno la televisione. Rispetto a loro, Wadha, la ragazza di cui racconto nell’ultimo capitolo, che vive una situazione pesantissima di abusi familiari, è comunque una privilegiata, perché parla inglese, ha studiato, lavora…».

Ecco, parliamo di lei. La contraddizione maggiore in quella storia è che il padre, che la picchia e la tiene reclusa in casa per mesi, vuole però che lei studi, perché senza cultura non troverà marito…
«Più in un Paese ci sono limiti –  imposti dalla religione e da regole tribali – più le contraddizioni emergono numerose. Il padre di Wadha, che pure è un violento, all’inizio quando portava le figlie all’estero non le costringeva a velarsi: finché qualche parente non le ha viste e lo ha giudicato male. Il controllo sociale è serrante e provoca grandi angosce. E più il rigore è estremo, più le contraddizioni scappano fuori, è impossibile che sia altrimenti».

Nel libro riporti questa frase del poeta e attivista Hamza Kashgari: «Nessuna donna saudita finirà all’inferno, perché non si può essere condannate all’inferno due volte». Ecco: io, nonostante abbia molto apprezzato il distacco con cui tu racconti ciò che hai visto e sentito, ho pensato che avesse ragione.
«Mentre vivi lì ti abitui a tutto: a infilarti l’abaya con gesti rapidi prima di uscire in strada, a entrare solo nei posti riservati alle donne altrimenti vieni cacciata… Poi prendi un aereo e quando, atterrata da un’altra parte, vedi donne e uomini che interagiscono tranquillamente, ti stropicci gli occhi e ci metti un attimo a ricordare: ah, è vero, questo è il mondo normale. Non dimentichiamo però che l’Arabia Saudita è un Paese importante nello scenario internazionale, che riesce a conciliare principi rigidi – che poi sono gli stessi di Daesh – con il fatto, per esempio, che ci siano donne che vanno a laurearsi all’estero e poi tornano per mettersi sotto la tutela di un guardiano. Insomma, è troppo facile dire: è l’inferno. Se fosse così, sapremmo che prima o poi è destinato a finire. Invece quello che voglio far capire con questo libro è che ci sono inferni che possono stare in piedi a lungo. Inferni che, in qualche modo, funzionano. Però occorre dire che il cambiamento sta avvenendo. Per i nostri ritmi è lentissimo, ma è indubbio. Molte saudite ottimiste mi hanno detto: “Tu non hai idea dei passi avanti che sono stati fatti rispetto a qualche anno fa; ora ci sono argomenti di cui si inizia a parlare”. Anche il fatto di concedere il voto alle donne e di inserire membri femminili negli Shura Council, seppure siano atti più che altro simbolici, sono comunque significativi in un Paese così chiuso e refrattario ai mutamenti. C’è ovviamente da augurarsi che il progresso continui, perché con quello che sta avvenendo in Medio Oriente, si potrebbe anche tornare indietro».


 

Pubblicato il

#ioquestamelasposo: il libro di Agata Baronello


Alessandro Rizzo (Pianeta gay)


– #ioquestamelasposo, vanda epublishing edizioni, è un libro scritto da un’autrice che si presenta ai lettori con il none en plume di Agata Baronello: storia vera, reale, autobiografica di una single che cerca per due anni in chat la compagna, aprendo inattesi scenari e intrecci fatti di eros, passioni, “incontri voluti, cercati, sperati”.

#ioquestamelasposo, vanda epublishing edizioni, è un libro scritto da un’autrice che si presenta ai lettori con il none en plume di Agata Baronello: storia vera, reale, autobiografica di una single che cerca per due anni in chat la compagna, aprendo inattesi scenari e intrecci fatti di eros, passioni, “incontri voluti, cercati, sperati”.

L’universo femminile si esplica e propone un’idea diversa dagli stereotipi preesistenti e discriminanti: il piacere e la sua ricerca sono i motori letterari di una narrazione viva e diretta, la storia di una vita, “la mia storia, i miei amori”, assicura l’autrice e conferma che tutto sia successo a lei.

Abbiamo intervistato Agata che ci anticipa che non avesse mai pensato di scrivere un libro e di pubblicarlo, ma è stato naturale rendere la sua storia, “una girandola di umanità coloratissima e saporitissima”, iniziata con la fine e l’elaborazione di un dolore dovuto al termine di una relazione affettiva, il soggetto del libro.

Da dove nasce l’idea del libro?

Non pensavo di scrivere un libro e neanche di pubblicarlo. Sono stata mollata da una donna che ho amato tantissimo. Ci abbiamo provato per due volte a stare insieme, dopo 10 anni dalla prima edizione ci siamo reincontrate. Sembrava un miracolo, ma si è trasformato in un incubo. Dopo aver torturato gli amici, la mia strizza, e tutti i conoscenti con il mio dolore ho cominciato a chattare su una chat di incontri lesbici. Tanti incontri, tante donne, tante storie! Una girandola di umanità coloratissima e saporitissima! Che non poteva restare nascosta tra le lenzuola!

Come è avvenuta la fase di scrittura?

Da queste storie improbabili, strampalate e dolcissime ne è nato un blog, che ha avuto un grande successo!
A quel punto è arrivata la casa editrice VandA epublishing. Ed ecco #ioquestamelasposo! Un ebook da leggere ridendo, sorridendo, e se vuoi anche pensando!

Parliamo della storia della protagonista: come si è instaurato il rapporto umano e di narrazione tra chi ha scritto il libro e la stessa donna?

Agata e Anne Marie sono super amiche! Si piacciono! Ma non si fidanzano! Meglio essere amiche! Almeno non ti perdi di vista!

Possiamo parlare di documentario o a quale genere ascrivere l’opera?

Non è un documentario! E io non sono un entomologo, non ho fatto studi di laboratorio! Io ci sono in prima persona. E’ la mia vita! Sono Io! Mi piace la definizione di Massimo Scotti un autore di VanDA, sostiene che ci sia un nuovo genere letterario il WEBNOVEL o CHATROMANCE. Un romanzo d’amore nato dai Social!

Il libro cosa vuole dimostrare?

Non voglio dimostrare nulla. E’ un pezzo della mia vita! E’ la ricerca di amore! Di compagnia! E forse, anche di senso! E’ un libro ironico, molto! Non ho tesi, c’è solo da leggere, sotto l’ombrellone, magari!

A chi si riferisce il libro come target?

Sono lesbica. E gli incontri sono tra donne! Ma è un libro che non ha genere, liquido nella sua ossessione e nella sua verità! E’ un libro per tutti e per tutte, per chi ha, a prescindere dal genere, la curiosità di intraprendere un viaggio che racconta un modo contemporaneo di cercarsi!

I vari amori e le affettività omosessuali: cosa si evince dalla storia?

Che ognuno di noi cerca qualcuno/qualcuna e che ci si trova con difficoltà! Che è difficile piacersi, parlarsi, amarsi!
Ma che non è impossibile! Il libro riserva sorprese! L’amore c’è! e non si vede, e non si sente! Arriva non cercato! Libero! Come è giusto che sia.

Letteratura e temi lgbt: quanto ancora può fare questa arte per abbattere pregiudizi e per un cambiamento culturale?

Non mi fare parlare serio! La letteratura è una cosa importante! Il mio libro racconta un mondo, forse non troppo conosciuto! Il mondo delle chat! Dell’amore e del sesso che si fa oltre i sentimenti, delle vite che si incrociano perchè per icona hai lady oscar! Ma il pane è politica come si diceva negli anni 70. E questo libro racconta senza veli, e senza filosofie le lesbiche, i loro desideri, i loro corpi, il loro sesso! Aiuta la causa? Spero proprio di si.


 

Pubblicato il

Scopri l’autrice: Anna Momigliano

Anna Momigliano è giornalista e scrittrice. Laureata in antropologia, è caporedattrice di Rivista Studio e collabora, tra gli altri, con La Lettura del Corriere della Sera e con il Washington Post. Tra i suoi titolidi maggior successo c’è Karma Kosher. I giovani israeliani tra guerra pace, politica e rock’n roll, edito da Marsilio (2009). Con VandA ePublishing ha pubblicato nel 2013 Il macellaio di Damasco, prima biografia di Bashar al-Assad in italiano, che indaga a fondo nella storia personale del presidente siriano, nel clan Assad e nei complessi meccanismi di potere che governano la Siria. 

Ecco come la nostra Autrice ha riposto al celebre questionario di Proust, qui riadattato per VandA.

Il tratto principale del tuo carattere?
Uno spiccato senso di giustizia.

La qualità che preferisci in un uomo?
La lealtà.

E in una donna?
Il coraggio.

Il tuo migliore amico è…
È un’amica, fa la segretaria; tiene molto a far sapere che ha gli occhiali da segretaria.

La tua occupazione preferita?
Scrivere.

Il tuo sogno di felicità?
Un buon libro e il tempo per leggerlo.

“Vorrei essere…”
Un mensch. Espressione yiddish che sta più o meno per “persona integra”.

Il Paese in cui vorresti vivere?
Libano.

Cosa detesti più di tutto?
Chi cambia idea troppo facilmente; chi non cambia idea affatto.

Il primo libro che hai letto?
Storie della storia del mondo di Laura Orvieto.

Il libro che vorresti vedere pubblicato?
La corrispondenza tra Stefan Zweig e Sigmund Freud.

Il libro che ha cambiato la tua vita?
L’isola di Arturo di Elsa Morante.

Cartaceo o digitale?
Digitale.

Il tuo motto?
«L’animo umano è immenso, io lo rimpicciolirei» (F. Dostoevskij).

Pubblicato il

Le ragazze di Riad, presentazione a Milano il 25 ottobre


(GiuliaGiornaliste – Globalist, 17 ottobre 2015)


– A BookCity Milano la presentazione del reportage “Nonostante il velo” di Michela Fontana.

Domenica 25 ottobre, alle ore 13, BookCity Milano (Mudec – via Tortona, 56) ospita La condizione femminile in Arabia Saudita, dalle “Ragazze di Riad” all’attivismo 2.0 con Marina Calloni, Michela Fontana, Sumaya Abdel Qader, Viviana Mazza. Modera Marta Boneschi.

L’ipotesi (ormai abbandonata) della possibile partecipazione dell’Arabia Saudita – dove la produzione letteraria consiste per lo più in testi religiosi, mentre la maggior parte dei romanzi viene messa all’indice – alla prossima edizione del Salone del Libro di Torino ha sollevato un gran polverone. Ma se è vero che la condizione femminile è il metro che consente di capire quale sia il livello di evoluzione delle società, nel paese dove vige la più rigida segregazione sessuale al mondo, sono proprio le donne ad esprimere le più forti istanze di rinnovamento.

La giornalista e saggista Michela Fontana, autrice del volume Nonostante il velo (VandA ePublishing, 2015), vivendo e lavorando per due anni e mezzo a Riad, è riuscita a penetrare la cortina di ferro e avere accesso a un mondo femminile del tutto precluso a molte occidentali di passaggio e a qualsiasi uomo, esplorando la società saudita dall’interno e raccontandola per la prima volta attraverso gli occhi delle donne che ne fanno parte. Il risultato è una straordinaria polifonia di voci che mostra paradossi e ambiguità, fornendo nel contempo una chiave di lettura per interpretare un mondo che fatichiamo a comprendere, semplicemente perché non lo conosciamo.


 

Pubblicato il

Vanda editrice trasforma l’ebook in carta con l’Espresso Book Machine


di Lorenzo Andolfatto (Finzioni Magazine, 24 settembre 2015)


– Dal primo ottobre infatti chi avrà l’occasione per passare da uno dei circa 600 megastore della Mondadori potrà cogliere l’occasione per stamparsi in proprio il libro Il macellaio di Damasco, volume interessante che tratta della vita scellerata di Bashar Al-Assad, il presidente baffuto dal penchant dittatoriale da cui la Siria purtroppo dipende.

A me questa cosa dell’Espresso Book Machine sa tanto di quelle invenzioni alla Archimede Pitagorico, tipo l’albero autorastrellante, per dire. Il punto è che quest’affare esiste davvero, e permette di fare una cosa molto bella, ovvero permette al lettore di stamparsi libri personalizzati e a poco prezzo nei posti più impensati, come dal barbiere e dal pizzicagnolo, oppure (un po’ a malincuore) nei Mondadori Megastore.

Tutto questo per dire che io — da lettore all’antica — nemmeno sapevo dell’esistenza di questi macchinari, e la notizia della loro esistenza mi giunge nuova e (soprattutto) benvenuta grazie alla buona gente di Vanda Epublishing. Dal primo ottobre infatti chi avrà l’occasione per passare da uno dei circa 600 megastore della Mondadori potrà cogliere l’occasione per stamparsi in proprio il libro Il macellaio di Damasco, volume interessante che tratta della vita scellerata di Bashar Al-Assad, il presidente baffuto dal penchant dittatoriale da cui la Siria purtroppo dipende.

Il libro, firmato da Anna Momigliano (antropologa e caporedattrice della rivista Studio), era stato pubblicato in formato ebook appunto da Vanda Epublishing, ad integrare un già vivace catalogo che spazia dalle graphic novel al romanzo erotico. E certamente, visto il recente parlare di Siria delle ultime settimane, la pubblicazione “do it yourself” del saggio di Anna Momigliano rappresenta certamente una lodevole iniziativa, nonché un interessante approccio alla questione carta vs. ebook, che puntualmente ritorna a far discutere lettori ed editori. Senza nulla togliere alla comodità dell’ebook, e vero che questo manca di una certa tangibilità che forse, a qualche livello della mente, può contribuire all’esperienza della lettura, all’assorbimento dell’inchiostro dalla carta ai neuroni (cosa da non trascurare soprattutto per quanto riguarda un libro come Il macellaio di Damasco).

Se prima la mancanza dell’edizione cartacea vi tratteneva dal mettere le mani sui libri di Vanda Epublishing, adesso non ci sono più scuse! Buona lettura…


Pubblicato il

Michela Fontana. Non è un paese per donne


di Ornella Ferrarini (Gioia, 17 settembre 2015)


– Dopo due anni in Arabia Saudita, l’autrice ha scritto un reportage sul paese, molto condizionato dalla legge religiosa. Che penalizza soprattutto la popolazione femminile.

Michela Fontana ha vissuto due anni a Riad con il marito, diplomatico italiano. Ha intervistato oltre cinquanta donne, di ogni estrazione sociale e di ogni parte del paese. Ha scritto un ritratto composito di una nazione all’apparenza internazionale, ma profondamente condizionata dagli insegnamenti della Sharia, la legge religiosa.

I sauditi che vivono all’estero sono più liberi ed emancipati? Sia uomini che donne approfittano della libertà, ma restano legati alla loro cultura e molto critici verso la vita occidentale. E si controllano tra loro. Gli uomini sembrano più liberali, non lo diventano.

Anche le attiviste non si oppongono alla dipendenza dal maschio. La tradizione tribale e la religione hanno un peso enorme. Per il Corano la donna è moglie e madre. È l’uomo che deve provvedere ai bisogni materiali della donna, che rimane un’eterna minorenne. In fondo era così anche nelle nostre società, quando la religione aveva il suo peso.

Cosa significa essere “libera” per una donna saudita? Nessuna saudita mi ha detto che vorrebbe essere più “libera”, caso mai più autonoma: poter viaggiare, guidare l’automobile e scegliere studio e lavoro, senza il consenso del guardino (il maschio di famiglia). La parola libertà, in senso occidentale, è sinonimo di mancanza di morale e principi.

Esiste una via saudita al progresso femminile? Per le saudite studiare all’estero e nelle università femminili del pese è un progresso. Poter lavorare, avere uno stipendio, sposarsi più tardi. Nei Paesi arabi si è diffuso fra le intellettuali il cosiddetto “femminismo islamico”, una rilettura del Corano più favorevole alla donna.

Ma le donne hanno voglia di cambiare? La maggioranza delle saudite ha paura del cambiamento, preferisce non guidare, si sente protetta dal guardiano, anche se le giovani che usano Internet e Twitter sono sempre più curiose. Salvo poche eccezioni comunque le donne non sono ancora pronte a mettersi in gioco e rischiare. I cambiamenti sono così lenti da sembrare impercettibili. E tutto potrebbe regredire all’improvviso se ci dovessero essere sconvolgimenti politici.


 

Pubblicato il

#VivaSheherazade – L’Arabia Saudita, il paese delle eterne minorenni. L’intervista a Michela Fontana


di Martina Pagano (CriticaLetteraria, 6 settembre 2015)


 – Ad Aisha non piace il nero. Gira senza il velo, ma tiene l’abaya sul sedile dell’auto nel caso dovesse affrettarsi a indossarla.

Ad Aisha non piace il nero. Gira senza il velo, ma tiene l’abaya sul sedile dell’auto nel caso dovesse affrettarsi a indossarla. Vive a Dammam perché è stata allontanata dalla capitale, Riad.
Siamo in Arabia Saudita, il paese dei paradossi in cui lusso e ricchezza fanno da contrasto a norme religiose severissime che riguardano in particolar modo le donne. Le donne non possono guidare, non possono andare in bici, sono separate dagli uomini nei luoghi pubblici, ogni decisione dipende da un guardiano che sindaca sulle loro vite.
Ed è un paese di paradossi perché la sovrapposizione tra Stato e religione è pressoché totale e capire quali siano i confini tra le due istituzioni appare molto difficile. L’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo in cui a ogni donna, anche straniera, è proibito utilizzare l’auto, un divieto non di certo indicato nel Corano.
Si tratta di una delle tante norme non scritte che, tuttavia, viene fatta applicare con estremo rigore da parte dei religiosi. Su questo e altre restrizioni vigila una polizia, anch’essa religiosa, che rimanda ogni infrazione ai giudici il cui compito è far rispettare la legge islamica, la Sharia, letteralmente ‘strada battuta’. Niente di più chiaro.

Michela Fontana, saggista e giornalista, conosce bene l’Arabia Saudita. Ha vissuto a Riad insieme al marito dal luglio 2010 al dicembre 2012 per ragioni lavorative. Durante il suo soggiorno, non solo ha sperimentato che cosa significhi essere una straniera nel paese più intransigente tra quelli islamici, ha voluto conoscere coloro che ogni giorno, per una questione di genere, si imbattono in obblighi e limitazioni,. Le donne.
Il suo libro Nonostante il velo, pubblicato quest’anno da VandA.epublishing, è una galleria di ritratti tutta al femminile attraverso cui capire che cosa voglia dire nascere donne in Arabia Saudita.
Al telefono Michela mi ha raccontato la sua esperienza, gli incontri, le impressioni e quello che vivere a Riad le ha lasciato.

Hai avuto subito l’idea di raccogliere le testimonianze delle donne saudite di Nonostante il velo?
Mi era stato detto che la condizione femminile in Arabia Saudita fosse varia e interessante. Ho voluto approfondire. Non è stato semplice mettere insieme le storie, soprattutto perché dovevo capire se le protagoniste fossero disponibili a raccontarsi. Si trattava di trovare il ‘tono giusto’ con cui avvicinarle e conoscerle.

Come sei riuscita a raccogliere le storie del libro?
Era stato uno scrittore inglese a parlarmi della celebre manifestazione per il diritto alla guida del 6 novembre 1990, quando a Riad una cinquantina di donne si misero al volante per protestare contro il divieto a usare l’automobile. Essendo uomo, per lui non era stato possibile intervistare quelle donne coraggiose che avevano compiuto un gesto così provocatorio e destinato a essere ricordato.
Sono partita conoscendo le donne più aperte, quelle di ceto elevato, che avevano studiato all’estero, molto spesso attiviste impegnate per i diritti delle altre saudite. Ma ho voluto incontrare anche le donne comuni, quelle che conducevano una vita ordinaria e senza privilegi.
Tuttavia, per nessuna è stato semplice: riuscire a entrare in contatto con le donne saudite richiede molto impegno.

Molte delle donne che hai incontrato sono emancipate, istruite, si ribellano contro l’establishment del loro paese, viaggiano e ricoprono ruoli professionali importanti. Possono permettersi di fare tutto questo a che prezzo?
In Arabia Saudita la famiglia di appartenenza rappresenta un privilegio. Avere le spalle coperte da un parentado facoltoso consente di esporsi. Certamente queste donne sono malviste dal governo e dai religiosi. Le attiviste esistono, ma non devono superare la linea rossa se vogliono continuare a vivere in Arabia Saudita e non essere perseguitate o addirittura minacciate di morte. L’alternativa è il carcere o iniziare una nuova vita altrove.
Aisha, la fautrice della manifestazione del 1990, proviene da una famiglia benestante, ma dopo quell’episodio fu interrogata e costretta a lasciare Riad per sempre. Le persecuzioni nei suoi confronti continuarono obbligandola a trasferirsi all’estero per un periodo.
Nel 2011 la lotta per il diritto alla guida venne ripresa da una nuova generazione di attiviste, in particolare dalla combattiva Manal al-Sharif, dipendente della Saudi Aramco (ndr la più grande azienda petrolifera mondiale con sede a Dhahran nella Provincia Orientale del paese) che diffuse in rete un video che la ritraeva alla guida.
Non è difficile immaginare come andarono le cose: Manal venne stata arrestata e costretta a scusarsi. Non finì qui perché, quando l’anno successivo la sua notorietà la portò a Oslo a ricevere un premio per l’impegno civile, i sauditi la minacciarono di morte facendole perdere il posto di lavoro all’Aramco. Oggi vive fuori dal paese.

Come vive, invece, una donna comune in Arabia Saudita?
Ogni donna, a prescindere dalla discendenza, ha un guardiano (wali amr) che, a seconda dei casi, può essere il padre, il marito o il maggiore dei figli maschi.
Ancora una volta le tradizioni contano molto. In base alle consuetudini familiari le donne devono indossare un’abaya più o meno lunga (il tradizionale soprabito nero fino ai piedi), coprirsi il volto con il niqab (una mascherina che lascia scoperti solo gli occhi) o anche le mani con guanti neri. Le abitudini possono variare, ma le donne in Arabia Saudita hanno l’obbligo di velare sempre il capo con l’hijab.
La segregazione di genere è particolarmente rigida: la maggior parte dei luoghi pubblici ha entrate separate per uomini e donne e nei ristoranti le donne possono sedersi con il marito o un parente stretto oppure con le amiche in un’area dedicata.
E poi c’è la questione della guida. L’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo in cui le donne non possono guidare, nemmeno le straniere. Questo costituisce un problema non da poco perché si ritrovano nella necessità di dover essere accompagnate ovunque. È possibile ricorrere a un autista tramite le agenzie addette, ma molte non possono permetterselo. Una ragazza mi raccontava che nessun parente fosse in grado di darle un passaggio al lavoro, l’unico uomo era il nonno novantenne. Dovette rinunciare all’incarico.
Il punto è che non esistono nemmeno i mezzi pubblici. Niente autobus, niente tram perché i passeggeri maschi e femmine sarebbero costretti a mescolarsi. Di recente a Riad hanno iniziato i lavori di costruzione della metropolitana che, naturalmente, avrà ingressi separati.
A tutti i divieti e imposizioni si aggiunge il controllo severissimo della polizia religiosa, i mutaween.
Non è un caso se secondo un detto ‘in Arabia Saudita è tutto proibito tranne quello che è permesso’. Facendo due conti, praticamente niente.

Ci sono donne che, però, vivono bene le loro tradizioni…
In Arabia Saudita il culto ufficiale è il wahhabismo, un’interpretazione dell’Islam molto rigorosa. Il ruolo della religione è pervasivo, nelle scuole ci si dedica allo studio del Corano per cinque ore al giorno.
Cinque sono anche le volte in cui i musulmani pregano quotidianamente, ma in Arabia Saudita durante i momenti della preghiera (salat) tutto si ferma: per circa venti o trenta minuti si smette di lavorare, si interrompe qualsiasi attività. È la normalità.
E anche per le donne è così. Non provano fastidio a indossare il velo, non si meravigliano della segregazione sessuale e accettano la poligamia. C’è una sorta di naturale rassegnazione. Direi che le donne saudite amano il quieto vivere.

Potresti spiegarmi la differenza tra l’applicazione del Corano e dei principi della Sharia, la legge islamica?
L’Arabia Saudita è forse l’unico paese al mondo in cui la legge del posto corrisponde alla Sharia che si basa sul Corano e sugli hadith, cioè gli atti e i detti del profeta Maometto.
Nonostante il governo abbia emanato delle leggi su materie specifiche, la Sharia regola moltissimi aspetti della società, in particolar modo in merito al diritto di famiglia. Un esempio è, come si diceva, la poligamia.
La Sharia è presente in tutti i paesi di religione islamica, tuttavia la sua interpretazione può variare da un’applicazione più rigida a una più soft. È certo che la poca tolleranza possa essere molto rischiosa e un fenomeno come l’Isis ne è la prova.

In Nonostante il velo racconti di molte donne scrittrici. Quanto conta per le saudite la letteratura?
Oggi per le donne il romanzo è un potente mezzo di espressione. Naturalmente, a causa della censura, pubblicano le loro opere fuori dal paese, ma il governo e i religiosi trovano il modo per leggerle.
Scrivere non permette solo di denunciare la condizione femminile del paese, è anche uno strumento attraverso il quale mostrare la propria personalità non potendolo fare nella vita quotidiana.
L’esempio più interessante è stato Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea. Pubblicato in Libano nel 2005, è il romanzo di un’allora ventitreenne sulla vita delle coetanee in Arabia Saudita, un messaggio per raccontare, da un lato, la normalità delle aspettative delle ragazze saudite, ma dall’altro, per far luce sui limiti a cui esse sono costrette dalla società.
In generale, sono molte le intellettuali che si servono della scrittura per poter modificare certi aspetti del loro paese, sono donne che hanno scelto di vivere in Arabia Saudita o in nazioni islamiche perché, malgrado tutto, hanno a cuore le proprie radici.

Durante la tua permanenza in Arabia Saudita hai conosciuto le storie di tante donne diverse tra loro, ma hai anche visto con i tuoi occhi una società opposta alla nostra. Che cosa ti sei limitata a osservare e cosa, invece, ti sei sentita di giudicare?
Nonostante il velo non è nato per dare giudizi perché quello che interessava a me era capire. Malgrado ciò, è doveroso avere una propria opinione. Un’abaya non è un metro di valutazione, ma un credo per cui le donne rimangono delle ‘eterne minorenni’, quello sì che va giudicato. Perché una donna saudita non può guidare? Perché rischia il carcere se pretende dei diritti?
Se facciamo un paragone con l’Occidente, allora perché una donna saudita in Europa può vestirsi come desidera (anche se quasi tutte portano almeno il velo per non far parlare di sé una volta rientrate a casa), mentre una straniera nel loro paese deve indossare l’abaya? Perché una donna saudita all’estero può prendere la patente e guidare, ma in patria l’auto è negata anche alle straniere? Perché noi offriamo libertà di culto e per i sauditi esiste solo l’Islam?
È giusto andare nel profondo di faccende come queste però dichiaro con fermezza che le culture si debbano rispettare reciprocamente. Nel mio paese esiste la libertà di espressione ed esiste la sacrosanta separazione tra stato e religione. Tutto questo va difeso agli occhi altrui.
Luoghi come l’Arabia Saudita devono necessariamente arrivare a un’apertura maggiore.

Cosa ti sentiresti di consigliare a una donna che dovesse trovarsi a vivere in Arabia Saudita?
Le direi di non avere pregiudizi e di non pensare subito sia un paese oppressivo. Le suggerirei di cercare il contatto con le altre donne perché sono incontri che l’arricchiranno, come è stato per me.
Ho vissuto in tante parti del mondo e ho imparato quanto si possa apprendere da una cultura diversa senza giudicare. Bisogna saper coglier il bello persino in un paese complesso come quello di cui racconto nel libro, con paesaggi meravigliosi e persone che sanno essere anche molto ospitali.
Per me è stata un’esperienza unica. Sono ritornata dopo circa un anno grazie alla conoscenza con una coppia di amici stranieri, ma si è trattata di un’occasione difficilmente ripetibile perché il turismo in Arabia Saudita, come molto altro, non è concesso.

L’autrice
Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese e in inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

La casa editrice
VandA.epublishing è una casa editrice digitale e indipendente fondata a Milano nel 2013 da Vicki Satlow, Angela Di Luciano e Silvia Brena, professioniste del settore editoriale.
Oltre a pubblicare una grande varietà di proposte letterarie, l’interesse di VandA è, sin dall’inizio, quello di dare spazio ad autori emergenti o del passato puntando su approfondimento e originalità. Inoltre, grazie alla sostenibilità del formato digitale dà la possibilità di rimettere in circolazione libri altrimenti tagliati fuori dal mercato.


Pubblicato il

Nonostante il velo, il réportage di Michela Fontana sulle donne dell’Arabia Saudita


(GiuliaGiornaliste – Globalist, 15 agosto 2015)


– L’autrice ha vissuto due anni e mezzo a Riad, durante i quali ha esplorato dall’interno la società saudita e le sue donne.

Evvai!! L’immagine è sgranata, ma trasmette tutta la gioia che viene a questa donna dal gesto liberatorio con cui si disfa del nero sudario. Liberatorio del corpo, e dell”anima. Una gioia non soltanto personale, ma civile cioè collettiva, che coinvolge la famiglia della giovane siriana in fuga ed il futuro in cui abiterà il loro bambino. Quest’immagine è tecnicamente figlia del nostro tempo, scattata al volo, sovraesposta, ma con la stessa forza epocale del “repubblicano che cade” di Robert Capa.
Per capire come ci si attrezza a vivere dentro un carcere senza sbarre, fatto di tela ma anche di divieti e guardiani, e quali contraddizioni agitino le stesse “prigioniere”, ma anche quali connivenze ahinoi, conviene leggere il bel réportage sulle donne dell’Arabia Saudita di Michela Fontana Nonostante il velo.
Michela, giornalista, storica, matematica: tre vite in una (e siamo ancora a metà del suo viaggio esistenziale…), già autrice del tradottissimo saggio Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming è amica di Giulia e Giulia le sta dando una mano per promuoverlo contro le resistenze, passive per lo più ma anche attive, di chi non vorrebbe disturbare una nazione che molti euro sta investendo in questo Paese…
Il libro è già in vendita e verrà presentato ufficialmente entro Book City, ad ottobre a Milano. Ma noi ne parleremo prima. Ne sarebbe felice anche la giovane donna siriana delle immagini qui sopra.


 

Pubblicato il

Erotismo al femminile: le italiane sanno fare anche da sole


di Francesca Amè (Io donna, 31 luglio 2015)


– Oggi 31 luglio è la giornata internazionale dell’orgasmo. E, dati alla mano, le donne italiane si stanno dimostrando sempre più emancipate nel campo dell’eros e capaci di ricercare da sole il piacere. Anche con sex toys e pornografia al femminile.

L’erotismo? Sostantivo femminile plurale. Declinato come le donne di oggi: mature, indipendenti, libere. C’è una nuova rinascita del piacere, tra le italiane – qualcuna parla addirittura di ‘rivincita’, dopo anni di sottomissione – e per ogni Anastasia Steel di carta, c’è una donna in carne e ossa che si mette davanti al computer per comprare accessori, gustarsi film o leggersi libri ad alto tasso erotico. Il tasso giusto però, ovvero un cocktail ben dosato di sesso, seduzione, intelligenza, realismo.

Il nuovo erotismo delle donne italiane è fatto di una ricerca del piacere che rifugge modelli stereotipati e maschili, che accarezza narrazioni complesse e pretende verità nella rappresentazione delle storie e dei corpi. In questa bollente estate 2015, le donne italiane hanno imparato a cercare da sole gli spazi appaganti per il proprio eros. Lo dimostrano anche i dati che Sexalia.it fornisce a iodonna.it in anteprima. La piattaforma italiana di e-commerce specializzata nella vendita di sex toys, lingerie e accessori erotici e gestita da Alessandro Fabiani, il ceo, che è laureato in fisica, con DarIo Ferretti e Maurizio Ruffo, e che si è data come obiettivo quello di sdrammatizzare il settore, ha appena lanciato un sondaggio tra i suoi utenti sui prodotti più appetibili.

I sex toys più venduti in rete sono quelli per il piacere femminile: vibratori e dildo, preferibilmente realistici. Diciamolo subito: non è roba da ragazzine. La fascia di età delle clienti è compresa tra i 35 e i 50 anni: sono donne disposte a spendere in media 51 euro a testa per soddisfare i propri desideri e pronte ad acquistare accessori e toys anche su canali di larga fruizione, ad esempio con campagne su gruppi di acquisto on line. Segno evidente – questo – che la soglia del pudore femminile in Italia si è abbassata, specie nelle grandi città (Roma, Milano, Torino, Brescia sono i centri di maggiore acquisto nel settore).

Si sono alzate invece le esigenze delle donne, eccome. In questa nostra inchiesta sul piacere femminile, ci siamo fatte guidare da Erika Lust, pluripremiata regista e scrittrice svedese, classe ’77, natali a Stoccolma e ora di casa a Barcellona dove da una decina d’anni realizza con successo film “erotici e femministi” (parole sue). Noi diamo i dati: la sua casa di produzione, che vive di autofinanziamento ed opera al di fuori delle logiche delle major del settore, ha un team quasi esclusivamente femminile e un pubblico fedele che ha permesso a Erika Lust di accreditarsi anche tra i critici come autrice intelligente ed innovativa del genere erotico.

«L’erotismo ha sofferto molto negli ultimi anni. Tutta colpa del porno mainstream che ha confuso le persone, trasformando l’eros in qualcosa di volgare, facile ed economico. Per fare film erotici servono invece immaginazione, capacità seduttiva, stimolazione sessuale», racconta Erika. L’occasione è la presentazione, in anteprima per iodonna.it, del suo nuovo progetto cinematografico. Si chiama «Xconfessions» ed è una serie di cortometraggi erotici dall’animo social. L’idea è semplice: perché non sfruttare i reali desideri del pubblico per costruire sceneggiature realistiche? Ogni mese gli utenti del sito xconfessions.com inviano in forma anonima le loro fantasie sessuali e la regista svedese sceglie le due storie più stuzzicanti e le trasforma in cortometraggi che poi riversa on line.

È la prima volta che il settore dell’intrattenimento per adulti si apre ai social in questo modo: un altro segno, l’ennesimo, che l’erotismo sta maturando. Che gli utenti cercano una partecipazione attiva, non una fruizione veloce e banale dei prodotti. Cercano un’esperienza del piacere. Per Erika Lust si tratta in fondo di un ritorno al porno d’autore: «Pensiamo ai registi degli Anni 70, persone come Bob Chinn e Bud Townsend, che giravano pellicole in cui l’eros era il simbolo e l’affermazione del potere delle donne: il porno mainstream ha trasformato tutto questo in un erotismo triviale, teso a degradare le donne e i loro corpi.

Un danno enorme, specie per le giovani generazioni che non conoscono le vecchie produzioni e on line cercano solo gratificazione immediata: vogliono un piacere veloce, gesti rapidi, senza prendersi il tempo giusto per indagare a fondo i loro desideri. Ma ora la sensualità si sta prendendo la rivincita: le donne vogliono mostrare a tutti che non sono strumenti nelle mani del piacere maschile ma persone seduttive e desiderose, a loro volta, di essere sedotte». Secondo la regista svedese, si può parlare di un nuovo femminismo nel settore.

«Registe come Jennifer Lyon Bell, Tristan Taormino, Ovidie, Vex Ashley, solo per citarne alcune che stanno rivoluzionando e ridefinendo il genere, non mostrano più donne in attesa di cavalieri pronti a iniziarle ai piaceri del sesso – spiega -. Tutte noi cerchiamo donne sicure di sé, femminili, piene di curiosità senza essere volgari: questo nuovo modo di pensare all’erotismo femminile nasce dal desiderio di mettere sullo schermo la parità tra i sessi, anche sotto le lenzuola, e si batte per una valida rappresentazione delle donne, dei loro desideri e dei loro corpi».

Ma che cosa cercano le donne nel porno d’autore? «Un sesso veramentale piacevole. Cercano storie con una buona sceneggiatura e narrazione, una scrittura e un’interpretzione capace di accendere la loro immaginazione e i loro sensi. Cercano vere donne e veri uomini che si danno piacere, amano che si indugi su dettagli quali l’espressione facciale. Le donne apprezzano una buona regia, la scelta delle location, dialoghi non approssimativi. Attenzione: non sto dicendo che le donne vogliono un porno ‘epurato’, fatto di petali di rosa e lenzuola di seta. Vogliono un sesso “sporco” come spesso piace anche agli uomini ma girato meglio, in modo più convincente e – diciamolo – senza che il membro maschile sia il solo oggetto di attenzione. Vogliono il corpo degli uomini si mostri in tutta la sua bellezza e complessità: il volto, le mani, il busto, così come accade per quello delle donne».

Una declinazione particolare dell’erotismo al femminile sta venendo timidamente allo scoperto anche nelle librerie italiane. Parliamo del mondo lesbo. Lo dimostra l’ebook, disponibile da questi giorni per vanda.epublishing (al costo di 5,99 euro), #ioquestamelasposo, inedito, divertente ma non poco sofferto viaggio nel piacere declinato tutto al femminile. A guidare le lettrici è Agata Baronello, nom de plume dell’autrice, professionista single, che ha vissuto sulla sua pelle «la fine di un amore, il dolore, l’elaborazione del dolore, l’iscrizione ad un’app di incontri lesbici, gli incontri voluti, cercati, sperati». Si tratta del racconto, quasi il report, di due anni di chat suddivisi in dieci incontri che si aprono su un universo femminile a tratti inaspettato: dietro il nick, ci sono donne sposate e infelici, donne spavalde, donne che cercano attraverso il sesso un ruolo che non hanno, donne buone e donne truci, donne fedele e donne fedifraghe.


 

Pubblicato il

Donne con il velo a #CasaCorriere


di Ida Bozzi (ViviMilano, 22 luglio 2015)


 Cosa si nasconde dietro al velo di una donna saudita? Sottomissione, religione, volontà di libertà?

Cosa si nasconde dietro al velo di una donna saudita? Sottomissione, religione, volontà di libertà? La milanese Michela Fontana ha vissuto due anni in Arabia Saudita per cercare di capirlo e di entrare in contatto con una cultura per molti versi distantissima dalla nostra. Racconta la sua esperienza venerdì 24 luglio a #CasaCorriere nell’incontro “Una matematica milanese in Arabia Saudita” (ore 18.30). Partendo dal suo libro “Nonostante il velo”, intervistata da Viviana Mazza, propone uno sguardo femminile e occidentale sulle donne con il velo.


 

Pubblicato il

Nonostante il velo, l’Arabia Saudita delle donne


di Marta Traverso (Mentelocale, 18 luglio 2015)


– Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente?

Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente? Tento un’ipotesi: petrolio, Islam, La Mecca, re, Osama Bin Laden, Raif Badawi. Se dico Arabia Saudita dopo aver letto Nonostante il velo e parlato con l’autrice Michela Fontana, queste le prime parole che vengono in mente a me: abayahijabniqabhalalharamShuramahrammutaween. Immersa nella melodia dei termini più pronunciati tra le donne in quel Paese, scopro ancora una volta che ogni luogo e ogni comunità di questa terra non è un unicum – sebbene spesso lo percepiamo come tale – ma una complessa varietà di sfaccettature e sfumature.

Nonostante il velo racconta storie di saudite dirigenti d’azienda, avvocate, ingegnere, dottoresse, persino una viceministra. Saudite che si truccano e ricorrono alla chirurgia estetica, pur coprendosi il viso con il niqab ove sono tenute a farlo. Saudite che hanno studiato in Egitto, Europa e Stati Uniti, e hanno poi fatto ritorno a casa, perché è la loro casa, appunto. Saudite che scaricano film da Internet, leggono clandestinamente i romanzi haram (proibiti), cercano l’amore nelle chat e si informano su Twitter. Saudite che piangono la morte di Osama Bin Laden e si scandalizzano all’idea che una recente legge consenta loro di lavorare come commesse nei negozi di abbigliamento e biancheria intima femminile.

Scelgo di parlare con Michela perché queste storie, le loro sfaccettature e sfumature, meritano rispetto. Il rispetto che lei per prima, mi spiega, ha accordato loro durante la sua permanenza: «Devo premettere che quanto descrivo è solo uno spicchio della società saudita: le donne che hanno accettato di parlare con me, perché non tutte sono disposte o interessate a conoscere un’occidentale, e che hanno avuto il permesso dai rispettivi guardianiConfesso di aver avuto difficoltà, all’inizio, nel trovare il tono più giusto per parlare, porre domande, creare un legame di reciproca fiducia. L’altra persona lo sente, quando ti rivolgi a lei con pregiudizio: solo sgombrando del tutto la mente mi sono potuta avvicinare a persone con una cultura così lontana dalla mia».

Le saudite non possono fare nulla senza l’approvazione del guardiano (mahram), il parente maschio più prossimo: né lasciare il Paese, né prelevare dal bancomat, né iscriversi all’Università o cercare un lavoro. La condizione femminile ha conosciuto una recente evoluzione quando il re Abdullah, deceduto da pochi mesi, ha accordato loro il diritto di voto e la possibilità di candidarsi ai consigli municipali e di entrare nella Shura, l’organo consultivo della monarchia. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto, se non per mano di un uomo. «La rivendicazione dei diritti delle saudite si può definire femminismo di Stato, precisa Michela. ­Donne che ottengono privilegi grazie a famiglie benestanti e di aperte vedute, che consentono loro di studiare all’estero e trovare poi lavoro in una delle grandi aziende saudite, talvolta quella di famiglia. Donne che vengono poi esibite, a cui è consentito incontrare persone straniere e andare all’estero, a rappresentare e raccontare il proprio Paese. Un ulteriore privilegio che si ottiene per concessione del re, Padre gentile e illuminato, e non un diritto che spetta loro tout court».

Una cosa alle saudite non è ancora permessa: guidare. Chi deve spostarsi per necessità quotidiane, per andare all’Università oppure al lavoro, deve essere accompagnata ogni giorno da un parente maschio o da un autista. Il diritto alla guida, che nel Paese con una segregazione sessuale tra le più rigide al mondo non è certo una priorità, ha acquisito nel tempo un forte valore simbolico. Michela ha incontrato alcune donne che nel 1990 hanno partecipato alla prima manifestazione della storia saudita, guidando nel centro della capitale Riad. «La guida è emblematica nel dare l’idea di quante limitazioni vivano le saudite, prosegue Michela. Una rivendicazione simbolica ma efficace, tanto che le ultime due donne che hanno guidato in pubblico, verso la fine del 2014, sono state arrestate con l’accusa di terrorismo. Molte di loro mi hanno confidato che guidare non è poi così importante, sia tra chi sostiene è così comodo avere l’autista, ma anche tra chi l’autista non può permetterselo. Il vero obiettivo, più difficile da affrontare apertamente, punta dritto al cuore della segregazione: non vogliamo più essere solo donne, ma esseri umani, mi hanno detto. La figura del guardiano ricorda – se mi si concede il paragone – quella dei/delle minorenni occidentali, che hanno bisogno dell’autorizzazione dei genitori quasi per ogni cosa che fanno: la condizione delle saudite è di essere minorenni a vita».

Ciò che tuttavia emerge, dalla lettura di Nonostante il velo, è che molte non cambierebbero la loro condizione. Il loro destino è radicato fin dalla primissima infanzia attraverso una rigida educazione wahhabita (la corrente dell’Islam praticata in Arabia Saudita), e anche chi ha vissuto all’estero vede l’Occidente come un luogo senza morale e pericoloso. Mi domando quanto sia stata reciproca la curiosità, quante e quali domande siano state poste a Michela, non solo sulla condizione femminile in Occidente ma anche su argomenti più leggeri come la cucina italiana. «Ho percepito di rado una simile curiosità da parte loro, non sono state in molte a pormi domande, e qualora avvenisse era sempre restando sulla difensiva. Come noi occidentali abbiamo preconcetti sull’Islam duri da sfatare, loro ne hanno di analoghi nei nostri confronti, e non sembravano interessate a ottenere chiarificazioni a riguardo. Il trovarsi nella stessa stanza con un’occidentale e parlare con lei esauriva già la loro curiosità. Anche le più giovani, le attiviste, mi chiedevano di essere un mezzo per far sentire la loro voce al di fuori del Paese, ma nulla di più».

Michela è tornata in Italia da circa due anni. Le donne che ha incontrato sanno che le loro conversazioni sono divenute un libro, ma non lo possono leggere. Nonostante il velo è haram (proibito) in Arabia Saudita. Chiedo a Michela cosa le manca di più di quel Paese: «Vivere in Arabia Saudita mi ha arricchita moltissimo, sotto diversi aspetti: io stessa, nonostante fossi straniera, ho dovuto sottostare alle stesse regole imposte alle donne saudite. In un Paese occidentale sarebbe impensabile vivere così immersa in ambienti esclusivamente femminili, e ho compreso che le dinamiche emotive e molti argomenti di conversazione fra donne sono identici in ogni luogo del mondo. Non sarebbe giusto andare da queste donne a impartire lezioni, a trasmettere i nostri valori come i più giusti o gli unici giusti. Il solo risultato che si ottiene è un atteggiamento di difesa e ostilità da parte delle donne. L’Arabia Saudita è un Paese dove tutto procede molto lentamente, e dove i principi della cultura e della religione sono radicatissimi in ogni persona. Ho incontrato ragazze molto giovani, la cui mentalità è assai diversa da quella delle loro madri: chattano con i ragazzi per scegliere da sé il futuro marito, in un Paese dove donne e uomini non imparentati non possono stare nella stessa stanza. I desideri di cambiamento devono maturare dall’interno, nessuno glieli può imporre».

Vero. L’istinto di liberare le oppresse viene meno, proseguendo nella lettura, quando ci si rende conto che poche fra loro vogliono o ritengono di poter essere liberateSolo chi vive situazioni di estrema violenza, come la ragazza dell’ultima storia raccontata nel libro, che scappa non da una cultura o da una religione ma dal pericolo per la sua stessa vita. Tutte le altre – ripeto, donne benestanti e con un guardiano aperto, in una società dove la povertà è presente ma tenuta nascosta – sanno dalla nascita che la loro vita è quella, e la scelgono di buon grado anche dopo aver conosciuto il modo di vivere occidentale. Come una donna ha fatto notare a Michela, anche da voi le donne guadagnano meno degli uomini, no? Non siamo poi così diverse.


Pubblicato il

Arabia Saudita, la condizione delle donne descritta da Michela Fontana


di Farian Sabahi e Domenico Affinito (IoDonna, 14 luglio 2015)


– È l’autrice di “Nonostante il velo”, pubblicato in formato elettronico da Vanda e stampato on demand dal sito Amazon.

In Arabia Saudita le donne sono confinate in un ruolo di secondo piano, secondo una rigida applicazione del diritto islamico. Per tutta la vita sono considerate minori, e di conseguenza non possono muoversi liberamente, nemmeno per andare all’ospedale, se non sono accompagnate da un guardiano. È l’istituto del guardiano che le relega in secondo piano. Eppure, sebbene non possano guidare l’automobile e tanti diritti (che noi diamo per scontato) negati, esprimono forti istanze di rinnovamento. Ad aprirci uno squarcio nella realtà femminile saudita è Michela Fontana che in Arabia Saudita ha vissuto due anni e mezzo, dal 2010 al 2012, al seguito del marito ambasciatore d’Italia a Riad. Un soggiorno che le ha permesso di incontrare tante donne, diverse, e di scrivere il libro “Nonostante il velo” pubblicato in formato elettronico da Vanda e stampato on demand dal sito Amazon.


 

Pubblicato il

Quello che le donne saudite non dicono


di Giulia Marani (Giornalettismo, 17 giugno 2015)


– Essere donna in Arabia Saudita può sembrare un esercizio complesso ai nostri occhi occidentali.

Essere donna in Arabia Saudita può sembrare un esercizio complesso ai nostri occhi occidentali. Si tratta di camminare su un filo teso tra ciò che è lecito – comportamenti, frequentazioni, azioni anche quotidiane o banali – e ciò che è haram, proibito, eludendo i controlli della polizia religiosa. Si tratta di indossare l’abaya, una tunica nera larga e lunga fino alle caviglie, completata dall’hijab, un velo dello stesso colore che deve necessariamente celare alla vista i capelli, le orecchie e la nuca, oppure dal niqab, che lascia scoperti solo gli occhi, e di dipendere per tutta la vita da un tutore maschio. Il divieto di guidare, inoltre, obbliga le donne a fare ricorso a un autista per qualunque spostamento, compreso il tragitto casa-lavoro.

Strette in una morsa di divieti e proibizioni, le donne saudite non sono spesso al centro dell’attenzione in Occidente, se si escludono i dati raccolti dagli osservatori che si occupano di diritti civili e qualche exploit cinematografico – per esempio, il successo di pubblico e critica del film “La bicicletta verde”, della regista Haifa al Mansour, uscito nel 2012. Una delle ragioni di questo silenzio è senz’altro la difficoltà d’accesso alle opinioni della metà femminile dei sudditi di Re Salman: nel paese dove vige la più rigida segregazione di genere al mondo, la frequentazione delle donne locali è preclusa agli stranieri, a meno che questi non appartengano al gentil sesso e non risiedano per un periodo abbastanza lungo a Riad e dintorni.

NONOSTANTE IL VELO: L’OPERA – Una giornalista e saggista italiana, Michela Fontana, ha trascorso più di due anni in Arabia Saudita al seguito del marito e ha avuto modo di penetrare l’harem diffuso nel quale vive la popolazione femminile del paese. Il risultato di questa esperienza è un e-book dal titolo Nonostante il velo, pubblicato da una giovane casa editrice digitale, Vanda ePublishing, che raccoglie le storie di moltissime donne saudite – alcune molto famose, come la scrittrice Rajaa Alsanea, autrice del controverso romanzo “Ragazze di Riad”, o la giornalista Somayya Abarti, la prima saudita nominata direttore di un quotidiano, mentre altre sono semplici mogli e madri – mettendo a nudo ambiguità e contraddizioni di una cultura che conosciamo ancora poco a queste latitudini. Un libro lucido e necessario, che le donne di cui si parla non leggeranno perché come tanti altri è stato messo al bando nel paese.

SOCIAL NETWORK E ATTIVISMO DIGITALE – Eman è la più nota blogger saudita. Attraverso internet, lei e le sue compagne hanno riportato al centro dell’attenzione la rivendicazione del diritto di guidare l’auto, con una serie di azioni dimostrative ispirate alle manifestazioni dei primi anni Novanta. Iva abita nel Qasim, la provincia considerata il nucleo più conservatore del paese. Negli anni Ottanta ha creato un centro autogestito per fornire assistenza alle donne che avevano subito violenze. Oggi, la sua campagna per favorire la partecipazione delle donne alle elezioni municipali si appoggia sulla rete. Wadha, vittima di un padre padrone, ha programmato la sua fuga all’estero fin nei minimi dettagli con la complicità di una ragazza conosciuta in chat. Asma è stata ripudiata due volte. Tradizionalista e molto religiosa, trascorre le giornate accudendo il figlio del fratello e cercando di scovare su Twitter le persone, soprattutto ragazze, che organizzano picnic o altre attività che considera “troppo licenziose”, per poi denunciarle ai mutaween. Che si tratti di attiviste che si battono per l’emancipazione femminile oppure di paladine del fondamentalismo di stampo wahhabita, nessuna donna saudita si allontana troppo dal suo smartphone.

Internet, accessibile nel paese dal 1999, ha assunto un ruolo di primo piano in Arabia Saudita. Gli utenti di Facebook – oltre sei milioni – e di Twitter – tre milioni circa – sono in percentuale tra i più numerosi nei paesi arabi. Anche se la censura sul web è palese, le autorità faticano ad arginare la circolazione delle informazioni sui social network. Mentre Facebook e Twitter diventano piattaforme attraverso le quali organizzare – sempre con estrema prudenza – il dissenso, la comunicazione digitale svela i soprusi compiuti dalle autorità nei confronti di alcune donne e le situazioni di degrado rendendo le nuove generazioni più consapevoli delle ineguaglianze sociali e di genere.

MASCHERE E COMPLICITÀ – Se alcuni aspetti della vita delle donne intervistate da Michela Fontana possono sorprendere, per esempio l’uso di abiti provocanti sotto l’abaya o il ricorso massiccio alla medicina estetica, uno degli aspetti che emergono con più forza dalla narrazione è la necessità di un continuo adattamento al contesto sociale. “A noi riesce bene modificare i nostri comportamenti a seconda degli ambienti in cui ci troviamo, lo facciamo per spirito di sopravvivenza” rivela la scrittrice e attivista Munira. Oltre alla paura, entra in gioco anche il benessere economico, che spesso agisce come freno alle possibili rivendicazioni. Il flusso di petrodollari nelle casse reali garantisce al paese un apporto costante di ricchezza e offre il miraggio di una vita facile e agiata alla maggioranza della popolazione, rendendo la società saudita una delle più consumistiche al mondo. I cittadini godono di numerosi vantaggi, dalle scuole pubbliche gratuite alla sanità gratuita, dal prezzo irrisorio della benzina allo stipendio garantito dal governo ai giovani che frequentano le università pubbliche. La cura della casa e l’elevamento dei figli, che prima del boom petrolifero costituivano l’occupazione principale per le donne, sono oggi appannaggio quasi esclusivo delle domestiche straniere, una presenza costante nelle case saudite. Se le donne non lottano con forza per conquistare maggiore libertà, quindi, non è soltanto per timore delle conseguenze ma anche perché la ricchezza compensa le limitazioni della libertà.“Scherzi? E dover prendere il metrò tutte le mattine per andare al lavoro? Qui la vita è facile, ho un ottimo stipendio e non devo lavorare troppo per raggiungere una buona posizione” chiosa un conoscente dell’autrice, descritto come un uomo di larghe vedute e cosmopolita, in risposta alla domanda su un suo eventuale trasferimento a Londra.


Pubblicato il

Islam, risorse e contraddizioni


di Mariangela Milani (La Libertà, 10 Giugno 2015)


La giornalista Michela Fontana ha presentato “Nonostante il velo”.

L’Arabia Saudita? Un paese pieno di paradossi, dove la donna o il povero possono aspirare a migliorare la loro condizione solo in virtù della benevolenza del re, a tutti gli effetti ancora un monarca assoluto, e dove ogni aspetto della vita sociale e politica è scandito da una rigidissima applicazione di un Islam puritano i cui precetti si rifanno a quello dello origini. Parola di Michela Fontana, giornalista e divulgatrice scientifica, autrice tra l’altro del noto Matteo Ricci un gesuita alla corte dei Ming la cui edizione francese ha vinto il Grand prix de la biographie politique 2010. La giornalista è stata ospite l’altro pomeriggio a Castelsangiovanni all’interno della rassegna Libri in villa per parlare di un altro volume, e cioè Nonostante il velo – Donne dell’Arabia Saudita, frutto di una sua particolare esperienza. Per due anni, dal 2010 al 2012, Fontana ha infatti avuto l’eccezionale opportunità, al seguito del marito Valentino Simonetti ambasciatore italiano a Riyadh (ospite anche lui a Castelsangiovanni), di vivere in questo paese dove ancora oggi è difficile entrare (non lo si può fare ad esempio per semplice turismo). Caratteristica questa che lo rende “opaco” agli occhi degli occidentali. Un paese dove esiste una segragazione dei genere che fa sì che una donna dipenda per tutta la vita dal suo “guardiano”e cioè marito, padre o figlio che sia.  […]. [Michela Fontana ha] quindi cercato di esplorare, con piglio giornalistico, l’universo femminile intervistando le donne. «Ciò che ho cercato di fare – ha precisato a margine dell’incontro organizzato nel salone di villa Braghieri – è stato quello di fotografare la situazione così come mi veniva raccontata e restituirla nel modo più veritiero possibile, senza dare giudizi ma lasciando al lettore il compito di farsi una sua idea». Alcune delle donne intervistate sono le stesse che nel 1990 inscenarono la famosa protesta mettendosi alla guida. «Loro stesse non immaginavano di andare incontro a una tale reazione» ha spiegato la giornalista ospite a Castelsangiovanni. Tutte persero il lavoro e vennero sottoposte a una vera e propria gogna pubblica, insieme anche alle loro famiglie. Non c’è però solo questo. Dietro al velo c’è anche una gran voglia di cambiamento. «Nonostante il velo – ha detto Fontana – c’è un fermento, si fanno piccoli passi in avanti. Dietro al velo c’è un mondo da scoprire che stupisce per vivacità, sia in senso positivo che negativo».


 

Pubblicato il

Come vive oggi una ventenne saudita? “Tutto il giorno su Instagram e Twitter. E (personalmente) non voglio guidare”


di Viviana Mazza (La 27esima ora, 30 maggio 2015)


“Le saudite possono finalmente guidare – titolava nei giorni scorsi il Wall Street Journal –  ma solo in un videogioco”. 

Si chiama “Saudi Girls Revolution” e l’ha messo in commercio un principe saudita trentunenne (nipote del re). Le eroine indossano l’abaya obbligatoria ma guidano moto potentissime (qui il trailer). “Se possiamo raccontare storie di donne che guidano, forse succederà davvero”, ha detto il principe Fahad bin Faisal Al Saud, che ha dato alle protagoniste i nomi delle sue parenti inclusa la nonna.  “La vita per molti giovani sauditi è un ecosistema di app – scriveva di recente anche l’inviato del New York Times a Riad – In mancanza di libertà di espressione, si dibatte su Twitter. Visto che non possono flirtare al centro commerciale, lo fanno su WhatsApp e Snapchat. Poiché alle ragazze è vietato guidare, prenotano l’auto su Uber e Careem…. Ma essere sempre più connessi non significa necessariamente diventare occidentalizzati. I conservatori religiosi usano i social media quanto i progressisti, e molti giovani restano rispettosi e orgogliosi della propria cultura. Anche chi vuole il cambiamento dice che deve avvenire gradualmente”. Cosa sta cambiando con il boom di Internet e dei social media  in un Paese in cui oltre la metà dei 18 milioni dei cittadini ha meno di 30 anni?  Lo abbiamo chiesto a una ventenne saudita, contattata attraverso Michela Fontana, matematica milanese che ha vissuto per due anni a Riad (ascoltatela anche in radio) e autrice del libro “Nonostante il velo” (appena pubblicato da VandA). Ecco il suo racconto.

Diversi anni fa, Internet era accessibile soltanto attraverso il PC e il  portatile, per cui la gente poteva collegarsi solo da casa, dall’ufficio o dagli Internet café. Oggi Internet è nelle nostre mani, portiamo i nostri smartphone e iPad dappertutto. Siamo su Facebook, Instagram, Twitter e Snapchat quasi tutto il giorno, a mandare foto, registrare video e così via. Uso Internet per guardare film o condividere foto e video o per leggere. Credo che in Arabia Saudita Instagram, Snapchat e Twitter siano i social più popolari, senza dimenticare YouTube dove puoi guardare film o serie tv, ascoltare la musica, caricare i tuoi video, parlare liberamente. Internet ci ha dato (non solo in Arabia Saudita ma ovunque) l’opportunità di incontrare persone di tutto il mondo.

Internet ha aiutato anche ad abbattere molti muri tra uomini e  donne.

Possiamo interagire liberamente attraverso Twitter oppure in video su Snapchat o commentando le foto su Instagram e i video su Youtube. Da noi ci sono persone favorevoli e che incoraggiano quest’idea che uomini e donne possano interagire. A volte uomini e donne lavorano insieme a progetti comuni via Internet o organizzano incontri d’affari o workshop online. La gente è più aperta oggi all’idea, basta che non venga superata la linea rossa.

Sfortunatamente ci sono stati casi in cui alcune ragazze sono state ricattate da uomini che avevano visto le loro foto senza velo.Penso che questi uomini siano malati! Non capisco che divertimento ci possa essere nel ricattare una ragazza per le sue foto. Ma credo che oggi questo sia diventato molto raro. Personalmente, non conosco nessuna che sia stata vittima di una cosa del genere, ma ho sentito in giro un paio di storie.

Se dovessi scegliere un determinato valore occidentale come modello? Forse sceglierei la libertà di parola anche se penso che anche noi abbiamo libertà di parola (fino a un certo punto).

Penso che i piccoli passi siano meglio che nessun movimento. E’ vero che per alcuni versi l’Arabia Saudita è più lenta rispetto ad altri Paesi, ma almeno stiamo facendo qualcosa.  Non posso dimenticare o negare gli enormi cambiamenti che sono avvenuti nel nostro Paese sotto Re Abdullah (che riposi in pace). E in soli nove anni! Era un grande sostenitore delle donne! Spero che il cambiamento continui e che le idee e l’eredità di Abdullah continuino a vivere.

Il diritto alla guida? Personalmente non voglio guidare, non mi piace il traffico e non sono molto paziente. Comunque, appoggio il diritto delle donne a guidare: alcune non possono permettersi di avere un autista, altre credono che sia più rapido e conveniente anziché dipendere da qualcun altro. Non so se guideremo mai qui in Arabia Saudita, ma credo che tutto sia possibile, l’unica cosa che ci serve è il tempo, per quanto lungo possa essere.

Dimenticavo! C’è una cosa che proprio non prenderei a modello dal mondo occidentale, e cioè il fatto che così tanti occidentali non hanno forti legami familiari. In alcuni Paesi occidentali, i ragazzi lasciano la casa dei genitori prima del college per andare a vivere da soli. Non fraintendetemi: mi piacerebbe andare a vivere da sola, ma non così presto. Anche se la cosa ha dei vantaggi, significa pure essere lontana dalla tua famiglia e in alcuni casi non poter vedere spesso i tuoi cari. Capite quel che voglio dire?


Pubblicato il

Un dono sovversivo


di Alessandra Pigliaru (Il Manifesto, 24 aprile 2015)


– Un incontro con Genevieve Vaughan, filosofa e femminista americana che studia le società del libero scambio, individuando in quella gratuità, che ha radici materne, il principio anticapitalista per eccellenza.

Tra antropologia, filosofia, semiotica e linguistica, secondo Genevieve Vaughan l’economia del dono è efficace perché le si riconoscono le radici nel dono materno unilaterale. La scelta radicale di parlare di dono attraverso una critica femminista è stata una pratica e una scoperta, metodo teorico-pratico di lettura della realtà. Negli anni, alcune intersezioni – come per esempio i Moderni studi matriarcali fondati da Heide Goettner-Abendroth – hanno lambito le originali analisi di Vaughan sull’urgenza dell’economia del dono. Passando dal ripensamento delle categorie marxiane fino alle pratiche messe in atto da società pre-capitalistiche e spesso matricentriche ancora esistenti, i suoi interventi sono integralmente consultabili al sito internet: www.gift-economy.com.
Tra i suoi libri più significativi vi è certamente quello che riassume la questione dell’economia del dono, For-giving. A feminist criticism of Exchange (1997) tradotto in Per-donare. Una critica femminista dello scambio (Meltemi, 2005). Più recenti sono invece The Gift in the Heart of Language: the maternal source of meaning (Mimesis International, 2015) e Homo Donans, scritto qualche anno fa in inglese e ora in italiano in ebook (edizioni VandA, 2015). Negli Stati Uniti ha creato una fondazione composta da donne che si è occupata di antinucleare, pace, antirazzismo e varie altre questioni. Si chiamava Foundation for a Compassionate Society. «Mi hanno detto che la parola compassione non suona bene in italiano – racconta Vaughan – in realtà intendevo solo dire che la società, invece di crudele, doveva essere compassionevole. È stato un tentativo di cambiare i valori attraverso la pratica».

Quando ha cominciato a riflettere sul dono?
Ho iniziato negli anni Sessanta, mi ci è voluto però molto tempo per arrivare a un pensiero compiuto. Sono una slow philosopher, ho praticato slow thinking. Allora c’erano pochi autori che ne parlavano. C’era stato Marcel Mauss, ma i tre punti del «dare, ricevere, ricambiare» – che secondo lui caratterizzano il dono – non mi soddisfacevano; poi Lewis Hyde negli Stati Uniti, con il suo libro del 78 The Gift e il gruppo della rivista Mauss fondata all’inizio degli anni Ottanta in Francia sono stati fra i primi. Nei miei libri spiego come ho iniziato allora a cercare di definire il dono. Trovo che sia una base del linguaggio. Sono diventata femminista qui in Italia, ma poi sono tornata a vivere negli Stati Uniti nel 1983 e ho portato a casa sia il femminismo italiano che le mie idee sull’economia del dono. Siccome nessuno del mio ambiente aveva mai sentito niente del genere, ho pensato che dovessi praticarlo. L’ho fatto in Texas con la Foundation for a Compassionate Society, che è stato un esperimento fondamentale.

Perché l’idea di proporre un convegno sulle radici materne dell’economia del dono?
Gli studi matriarcali e indigeni ci aiutano a connettere il materno e l’economia del dono perché mostrano come possa funzionare l’economia del dono nella realtà. Gli studiosi e attivisti indigeni non hanno la stessa visione del dono che aveva Mauss e abbiamo ora la possibilità diretta di ascoltarli e collaborare. Nelle loro società, in molti casi, si vede il dono ancora funzionante malgrado gli attacchi della società patriarcale e capitalista europea. Tutte le diversi voci che riflettono sul dono uniscono moltissimi movimenti economici, femministi, indigeni, ecologisti, pacifisti che operano per soddisfare il bisogno di cambiamento di paradigma, per realizzare una società radicalmente diversa.

Dal 2001 a oggi si è sempre occupata dell’«International Feminists for a Gift Economy». Nel suo ragionamento c’è un legame primario tra il dono e la cura materna; il paradigma è lo spostamento dal «do ut des» nella infinita catena di dono e contro-dono al piano del bisogno. È il riconoscimento di sapersi dipendenti?
La logica del dono unilaterale aderisce alla logica primaria della vita, ed è molto diffusa; non c’è niente di straordinario né l’ho mai intesa come una conquista di carattere morale, piuttosto come una pratica di cura che, fin dall’infanzia, crea rapporti di mutualità e fiducia. Dal momento della nascita si riceve tutto in dono – dalla madre o da chi si prende cura di chi è piccolo che, in alcuni posti del mondo, sono addirittura villaggi interi. Nel caso dei bambini e delle bambine è una questione di vita o di morte, nel senso che chi non viene curato non sopravvive. La logica del dare e ricevere è transitiva, ovvero ciò che viene prodotto passa dall’uno all’altro per soddisfare un bisogno. Il dono gratuito costituisce quello che in economia si chiama modo di distribuzione e la matrice, la modalità in cui si dispiega, dà uno spazio allo sviluppo infantile di una soggettività imperniata intorno a quella esperienza trasmissiva, non alla esperienza dello scambio, che i bambini capiscono molto più tardi.
È interessante notare come l’esperienza della dipendenza positiva si scontri con l’indipendenza proposta dal mercato: paradossalmente, quest’ultima è proporzionale al guadagno di una efficiente dipendenza. In una comunità basata invece sull’economia del dono, tutti si riconoscono dipendenti e tale dipendenza – di altra qualità rispetto a quella offerta dal mercato – fa arretrare la prestazione coercitiva e selettiva.

In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, con il neoliberismo che inneggia all’agonismo, vi è una pesante divaricazione tutta retorica che prevede la gratuità per «meritare di esistere» e il sacrificio. Come fa il dono a non essere divorato o piegato agli interessi perversi dello sfruttamento contemporaneo?
Il mercato è un meccanismo di appropriazione dei doni. Il plus-lavoro, inteso come lavoro non pagato, è un dono forzato così come lo sono le risorse naturali – l’acqua per esempio o i semi che un tempo erano gratuiti e ora sono stati acquisiti, privatizzati e trasformati in merci dalle multinazionali.
Il lavoro delle casalinghe, anche se non è forzato nella stessa maniera, costituisce un dono all’economia stessa (aumentando il Pil di un’alta percentuale di cui l’entità esatta è ancora dibattuta da ricercatori come Waring e Ironmonger) poiché i datori di lavoro non devono pagare e quindi il «dono» delle casalinghe contribuisce al loro profitto.

Il mercato si erge come modello di comportamento, creando un homo economicus che non è mosso dal bisogno altrui. Si pone come unica misura di benessere, peccato che il dare per ricevere qualcosa in cambio nasconda come unica mira il «dono di profitto» creando l’illusione di essere principio di valore autosufficiente. C’è un modello di convivenza sotteso a tale dinamica, un motto equivalente al mors tua vita mea, un dispositivo vendicativo dell’occhio per occhio ma anche esempi più insidiosi perché apparentemente positivi – la giustizia come indennizzo del crimine o il senso di colpa come preparazione al risarcimento. In queste strutture includerei anche il meritare di esistere o attraverso lo scambio o attraverso il dono. Se sul piano macro-economico il mercato divora il dono e lo piega ai propri interessi, su quello della pratica quotidiana penso sia importante una presa di coscienza dell’esistenza di questa economia materna nascosta, per potersi sottrarre al cannibalismo del mercato che vorrebbe piegare universalmente volontà e desideri.

Che cosa esattamente produce questo mercato rovinoso che cerca di servirsi dell’economia del dono?
Proprio negli ultimi giorni abbiamo tristemente assistito alla rappresentazione dei valori bio-patici di cui questo mercato è intriso; questi valori sono facilitati dalla negazione o rimozione della memoria storica e di contesti materiali più ampi. La mia amica Charito Basa (presidente del Filipino Women’s Council, ndr) ha detto che i migranti «vanno dove sono andati i loro soldi»; vengono in Europa perché prima c’è stato lo sfruttamento dei doni e delle risorse dei loro paesi da parte dell’Europa (e degli Stati Uniti). Questa accumulazione dei doni nel Nord del mondo ci fa apparire come se avessimo una grande e ricchissima economia indipendente, anche se facciamo finta di ignorare la provenienza di quella ricchezza.

Non vogliamo che gli immigrati si impadroniscano del nostro bottino che abbiamo preso da loro. Così quello che viene prodotto – che deriva dallo statuto dell’homo economicus – è una cecità stupefacente dinanzi ai deboli, agli ultimi, alle vittime di una povertà inaudita e causata dalle guerre armate anche dall’occidente. Gli uomini e le donne, le bambine e i bambini, che spesso trovano la morte nel nostro Mediterraneo si spingono fin qui per poter dare da mangiare ai propri figli e alle proprie figlie, per poter praticare il dono necessario alla loro vita.