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Trilogia SCUM di Valerie Solanas: un dialogo con le curatrici


di Michela Pusterla (Effimera, 24 novembre 2017)


– Presentiamo la prima edizione italiana degli scritti di Valerie Solanas, icona del femminismo radicale statunitense e oggetto di rinnovato interesse da parte dei queer studies. La raccolta, intitolata Trilogia SCUM (Milano VandA 2017), contiene il Manifesto SCUM in una nuova traduzione italiana, l’atto unico In culo a te e il racconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle (gli ultimi due, finora inediti, tradotti da Nicoleugenia Prezzavento), introdotti da due saggi critici delle curatrici, Stefania Arcara e Deborah Ardilli, e seguiti da una biografia di Solanas e da una rassegna di tributi, riscritture e opere ispirate all’autrice. Qui un estratto da Come conquistare la classe agiata e di seguito l’intervista alle due curatrici, a cura di Michela Pusterla.

 

Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle

Nel luglio del 1966 Valerie Solanas pubblicò un racconto, Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, sul periodico Cavalier, nello stesso numero della rivista che conteneva scritti di autori quali Ray Bradbury e Timothy Leary. 

Il Prontuario per fanciulle, palesemente autobiografico, narra la tipica giornata di una ragazza scaltra e sagace che vive di accattonaggio e prostituzione, dando il suo contributo «alla causa socialista» mantenendosi «al di fuori del mercato occupazionale». A parlare di conquistare la «classe agiata» del titolo è, ironicamente, un soggetto sociale tragicamente svantaggiato, una giovane donna sola e senza un soldo in un mondo egemonizzato dagli uomini. Come avverrà per il Manifesto SCUM con l’editore Girodias, anche i direttori responsabili del Cavalier manipolarono l’opera di Solanas. Per solleticare la curiosità erotica dei lettori aggiunsero, con una delle tipiche delegittimazioni sessiste alle quali fu sempre sottoposta la scrittura di Solanas, il sottotitolo: «Come una signorina giovane e carina riesca a sopravvivere in città: il modo più facile per stare comoda è distesa sulla schiena».[1] Di seguito, riportiamo un’anticipazione del testo. 

Appena uscita dal college, ho dovuto misurarmi con un tipico dilemma femminile: riuscire a ritagliarmi, in un mondo di uomini, uno spazio e uno stile di vita degni di una fanciulla con i miei gusti, la mia cultura e la mia sensibilità. Nulla di volgare come il lavoro, dunque. Una fanciulla, però, deve pur sopravvivere. Pertanto, dopo aver attentamente preso in esame ciò che la scena sociale aveva da offrirmi, ho finalmente trovato un’occupazione estremamente remunerativa, dai grandi stimoli creativi e fortemente incentrata sulle relazioni interpersonali, in grado di garantire flessibilità, indipendenza, stabilità e, cosa ancor più fondamentale, una grande quantità di tempo libero; un’occupazione, dunque, perfetta per la sensibilità femminile. Contemplando la mia fortuna, mi accingo a intraprendere la mia giornata di lavoro.
«Scusi signore, avrebbe per caso quindici cent?»
«Come no, tesoro, ecco qui» Dev’essere il mio magnetismo animale: nessuno riesce a resistere.
«Scusi, signore, avrebbe per caso quindici cent?»
«No.»
«Un decino?» Non bisogna dargli tregua.
«No!»
«Un nichelino?»
«NO!»
«Una banconota da un dollaro?» Bisogna sempre pensare in grande.
«Tieni, eccoti venticinque centesimi.»
Si accumulano in fretta. Quattro e cinquanta in un’ora. Altre due ore e posso staccare e andarmene a scrivere.
«Scusi, signore, avrebbe per caso quindici cent?» (Non dico mai che sono per il biglietto dell’autobus, a meno che non me lo chiedano; il mio tempo è prezioso ed esige brevità.)
«E cosa mi dai per 15 cent?»
«Che ne direbbe di una parolaccia?»
«Non è un cattivo affare. Ok, prendi. Adesso sentiamo la parolaccia.»
«Uomini.»

(Tratto da Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle, trad. it. di Nicoleugenia Prezzavento, in Trilogia SCUM. Scritti di Valerie Solanas, a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli, VandA, Milano 2017).

 

Dialogo con Stefania Arcara e Deborah Ardilli, a cura di Michela Pusterla

MP: Scrivete: «per quanto, in generale, sia possibile problematizzare con dovizia di argomenti la questione del riflesso della vita nell’opera, nel caso di Solanas è semplicemente impensabile metterla a tacere» (p. 38). Una narrazione distorta e strumentale della sua biografia, del resto, ha accompagnato per decenni la pubblicazione rimaneggiata del Manifesto. Mi pare che la vostra scelta etica (e politica) di una traduzione rigorosa dal punto di vista filologico si accompagna inevitabilmente a quella di una ri-narrazione non distorta della biografia di Solanas. Inevitabilmente, quindi, chi è Valerie Solanas? E come la sua vita è indissolubile da questi testi?

DA: Quella del rapporto tra vita e scrittura è una questione che abbiamo tenuto ben presente in tutte le fasi del lavoro, incluso quello dedicato al vaglio del repertorio iconografico. Vorrei iniziare a risponderti proprio a partire da qui. Per la copertina di Trilogia SCUM abbiamo selezionato, in accordo con le editrici, una fotografia che ritrae Valerie Solanas nell’atto di scrivere. È bene chiarire subito che l’obiettivo non era quello di far sparire sotto il tappeto le possibilità violente di Solanas a vantaggio di un’immagine “ripulita” e rassicurante. Ci premeva invece inquadrare quelle possibilità violente all’interno di un orizzonte più largo, sottrarle alle astrazioni del verdetto morale e della schedatura psichiatrica e collegarle a un’intenzione significante indissociabile dal processo intentato da Solanas alla società etero-patriarcale. Di conseguenza ci è sembrato importante, anche in relazione alla scelta della foto di copertina, sforzarci di invertire la tendenza a congelare la figura di Solanas nel gesto muto che la inchioda al ruolo della pazza che ha sparato a Andy Warhol. È ora di leggere Solanas: uso un’espressione volutamente dimessa per far valere una pretesa esorbitante.

La restituzione della parola, d’altronde, può riservare qualche sorpresa. Studiando la biografia di Solanas, una delle cose che mi hanno maggiormente colpita è l’affiorare di momenti di ingenuità davvero disarmante, ai limiti del candore, in questa scrittrice che pure non perde mai occasione per avvertirci della «merda che bisogna ingoiare a questo mondo per poter semplicemente sopravvivere». Potrei richiamare una quantità di esempi, alcuni dei quali anche irresistibilmente tragicomici, ma qui penso soprattutto al momento in cui, nel giugno del 1968, dopo essersi costituita alla polizia, Solanas rinuncia all’assistenza degli avvocati allertati dal suo editore Maurice Girodias e comunica a Florynce Kennedy che Manifesto Scum sarebbe stata la sua unica difesa in tribunale. A cinquant’anni di distanza sappiamo benissimo quanto, invece di proteggerla, quel testo abbia contribuito a moltiplicare le condanne e a silenziare la questione che poni.

Alla domanda “chi è Valerie Solanas?” credo si possa rispondere soltanto rinunciando a fissare un nucleo immobile di identità. Occorre ripercorrere la sua storia — fermo restando che, pur potendo contare su un lavoro pionieristico come la biografia del 2014 di Breanne Fahs, della sua vita non conosciamo tutto e forse non rischiareremo mai quelle zone d’ombra in cui le tracce della sua esistenza sembrano perdersi nel nulla. Ne sappiamo comunque abbastanza per poter seguire la traiettoria di una radicalizzazione politica che, nelle sue tappe salienti, coincide con quella della sua progressiva disassimilazione sociale.  Per accidentato e contorto che possa essere il percorso dalla vita alla pagina scritta, dall’essere sociale alla coscienza di sé, arriva pur sempre il momento in cui ci si deve pronunciare in merito alla rilevanza di tale relazione. Quello che rende plausibile, per lo meno ai mei occhi, la radicalità di Solanas non è la suggestione delle frasi oltraggiose e sovversive che pronuncia: è la possibilità di connettere in maniera significativa il contenuto degli enunciati all’esistenza del soggetto dell’enunciazione, di esporle alla prova del “praticamente vero”. La persona che firma Come conquistare la classe agiata, In culo a te e Manifesto SCUM ha subìto abusi sessuali in famiglia, ha partorito da adolescente due figli dati in adozione, ha visto sfumare la speranza del riscatto nel campo della ricerca scientifica, ha conosciuto l’indigenza estrema e l’abbandono, le vessazioni lesbofobe, il rigetto persino da parte dei circoli dell’underground newyorkese. La persona che scrive «per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata», «non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne», è una persona che legge ad alta voce il libro della propria esperienza, ne coglie gli elementi generalizzabili e dichiara intollerabile il sacrificio imposto alle donne.

Volendo arrischiare una sintesi, potrei dire che Solanas è una donna che arriva a sperimentare il genere non già come differenza componibile, aperta a una dialettica di scambio con la controparte maschile, ma come classe di sesso, con tutto il portato antagonistico che questa definizione comporta. L’introduzione di Christiane Rochefort alla traduzione francese di Manifesto Scum, intitolata Définition de l’opprimé, coglie perfettamente la ricaduta principale della questione sul piano simbolico: «l’oppressore non intende ciò che dice il suo oppresso come un linguaggio, ma come un rumore». Al centro di questa rottura, ancora oggi assolutamente scandalosa se commisurata agli standard correnti di comprensione delle categorie di genere, c’è l’investimento di Solanas nella parola scritta, che se da un lato registra umoristicamente la perdita di ogni illusione di integrazione sociale, dall’altro alimenta, quasi per autocombustione, il fuoco della rabbia per le umiliazioni patite anche sul versante del riconoscimento artistico. Warhol usava complimentarsi con lei per le sue doti di dattilografa

MP: Quando Solanas scrive i suoi testi, sta appropriandosi della letteratura come pratica femminista radicale, in opposizione iconoclasta alla «Grande Arte» maschile nella quale identifica un’espressione del privilegio. Se oggi il linguaggio femminista è spesso accademico e i testi femministi sono spesso teorici, quali sono le implicazioni politiche della scelta della letteratura (e di questo specifico «fare letteratura») per la presa di parola?

SA: Innanzi tutto, ricollegandomi al discorso di Deborah, vorrei partire dalle condizioni materiali nelle quali Valerie Solanas sceglie la scrittura come presa di parola: tra il ’65 e il ’68, quando compone i suoi testi (non uso appositamente la terminologia della critica letteraria chiamandoli “opere”), Solanas si trova al Greenwich Village di New York, è sola, non ha un soldo, viene continuamente sfrattata per morosità, buttata fuori anche dal Chelsea Hotel (quel luogo mitico dell’avanguardia artistica e musicale della controcultura statunitense, dal cui pantheon la sua figura viene a tutt’oggi rimossa). A un certo punto si accampa sul tetto del Chelsea, portandosi dietro la sua inseparabile macchina da scrivere, come ben rievoca una scena del film di Mary Harron, Ho sparato a Andy Warhol (1996). Vive di elemosina per strada, sfrutta le sue doti umoristiche per “vendere conversazione” ai passanti, si prostituisce per comprarsi il cibo e per poter disporre autonomamente di quel tempo da dedicare alla scrittura che un impiego regolare non le avrebbe lasciato. In queste condizioni “il fare letteratura” di Solanas è necessariamente e apertamente politico.

È vero che gli scritti di Solanas sono femministi, ma non sono “teorici” nel senso in cui lo intendiamo oggi. E sono certamente lontani dal linguaggio accademico: Solanas infatti muove una critica feroce all’istituzione universitaria, sessista, classista, elitaria. È anche vero che in certi passaggi di Manifesto SCUM lei si appropria dell’autorevolezza del discorso teorico-scientifico – della genetica, della psicologia – presumibilmente “oggettivo”, quindi inattaccabile, per sovvertirne i presupposti misogini mantenendo la polarizzazione estrema dei generi, ma invertendo il valore dei segni («gli uomini sono donne e le donne sono uomini»). A mio avviso però è difficile definire gli scritti di Solanas puramente “letterari” in senso canonico (sono, piuttosto, anti-canonici), poiché possiedono una forte carica performativa: la scrittura, per Solanas, è azione. Il Manifesto è un testo ibrido, non classificabile secondo le categorie dei generi letterari. C’è dentro di tutto, tranne la pretenziosità del documento teorico-politico tradizionalmente prodotto da uomini intellettuali, così come quella dell’oggetto estetico-culturale della letteratura “alta” – letteratura da cui le donne sono state escluse per secoli: vi si intrecciano la comicità del linguaggio disfemico e l’urgenza del desiderio politico, sarcasmo e denuncia sociale, utopia e basso corporeo, invettiva e farsa situazionista. Credo che la potenza della scrittura solanasiana più immediatamente percepibile da qualsiasi lettrice – anche se digiuna di teoria femminista – stia nella capacità di suscitare la rabbia di una presa di coscienza mista a una risata liberatoria. In certi punti il Manifesto è esilarante (forse un po’ meno se a leggere è un uomo eterosessuale). Ricordo la folgorazione che ne ebbi quando da giovanissima lessi Manifesto SCUM per la prima volta, nelle mitiche Edizioni Millelire… Sapevo ben poco di femminismo, ma da adolescente che subiva le pressioni sociali dell’eteropatriarcato mi si aprirono gli occhi e risi moltissimo leggendo frasi come: «il maschio ha (…) l’ossessione di scopare; attraverserà a nuoto un fiume di muco, passerà a guado un miglio di vomito immerso fino alle narici, se si convince che ci sarà una figa accogliente ad attenderlo. Scoperà una donna che disprezza…».

Il Manifesto ha una forte vocazione alla performatività, si presta a essere letto ad alta voce, infatti Solanas organizzava eventi-scum che prevedevano proprio la lettura performativa del testo. Quando, nell’atto unico In culo a te, Solanas mette in scena tabù intollerabili e atti scabrosi quali la sodomizzazione del “maritino” da parte di una moglie o l’uccisione di un bambino pestifero da parte di una madre, compie una sovversione radicale, quel “rovesciamento delle prospettive” di cui parla Colette Guillaumin, la quale, fornendo proprio l’esempio di SCUM, nota come sia impossibile fare una distinzione rigorosa tra un testo “teorico” e un testo “militante”. Nel caso della scrittura di Solanas, aggiungo io, è impossibile una distinzione tra testo teorico, militante e letterario.

Mi spiego meglio contestualizzando storicamente: il linguaggio del femminismo radicale, cioè quello che alla fine degli anni Sessanta nasce in opposizione all’emancipazionismo della “parità nella differenza” (allora rappresentato dalla NOW di Betty Friedan, oggi dal cosiddetto “femminismo” liberale/mainstream in stile Hillary Clinton) trova espressione nella scrittura militante, più che nella letteratura intesa puramente come oggetto estetico. La miriade di piccoli gruppi femministi che si formarono negli anni Settanta, dopo la pubblicazione di Manifesto SCUM, mettono in circolazione testi pensati e scritti come pratica di liberazione: manifesti, dichiarazioni, guide dall’autocoscienza, spesso composti e distribuiti collettivamente, grazie al ciclostile e al lavoro volontario. Contemporaneamente nasce un importante movimento di poesia femminista pubblicata informalmente, in antologie con testi e disegni e in raccolte collettive oggi introvabili. Negli stessi anni prolifera il “sottogenere” letterario dell’utopia e della fantascienza femminista con forti connotazioni politiche (per esempio, in molte pagine di The Female Man di Joanna Russ, attenta lettrice e ammiratrice di Solanas, si sente distintamente l’eco della “teoria” prodotta da Solanas, come da Shulamith Firestone).

Si produce, cioè, nella scrittura letteraria come in quella militante (non nettamente distinguibili), quel discorso apertamente antagonista per la liberazione delle donne poi messo a tacere in favore del discorso rispettabile dei diritti e della parità (oggi diventato “educazione alle differenze”, “lotta agli stereotipi”, ecc.). Tutta questa produzione testuale informale di testi militanti del femminismo radicale, oggi difficilissima da rintracciare (un buon archivio è quello della Women’s Liberation Print Culture della Duke University), servì a rendere il discorso femminista di trasformazione sociale una presenza pubblica, manifesta. Manifesto SCUM però, composto prima del femminismo radicale da una donna non eterosessuale che si identifica come scrittrice, non ha alle spalle una tradizione di scrittura militante femminista. Da una parte Solanas è una scrittrice, e come tale tenta di essere riconosciuta, cercando di pubblicare i suoi testi e produrre la sua commedia, dall’altra rifiuta di essere paragonata a Jean Genet, affermando che mentre lui si limita a «riportare», lei è una «social propagandist». Era perfettamente consapevole, dunque, che la propria scrittura era al tempo stesso artistica, politica, militante. E che nessuna arte (o prodotto estetico) è al di fuori della politica: «Sappiamo che la ‘Grande Arte’ è grande perché così ci hanno detto le autorità maschili» (Manifesto SCUM).

DA: La critica della cultura e della «Grande Arte» è un tema cruciale di Manifesto SCUM, direi una delle sue ragioni fondanti. Le implicazioni di questa critica, tuttavia, possono essere — e, di fatto, sono state — oggetto di valutazioni differenziate. Mi spiego meglio con un paio di esempi. Nelle sua biografia, la poeta e attivista lesbofemminista Judy Grahn (un nome semisconosciuto in Italia, ma di rilievo primario nel movimento statunitense degli anni Settanta) rievoca l’entusiasmo suscitato dalla pubblicazione di Manifesto SCUM tra le donne della sua generazione, collegandolo direttamente alla messa in questione del monopolio patriarcale della creatività artistica e alle energie liberate dalla contestazione di quel monopolio. Non per nulla estratti del manifesto finirono in Woman to Woman, una delle prime antologie di poesia femminista degli anni Settanta. Abbiamo, in questo caso, una ricezione della critica formulata da Solanas che storicamente si traduce in un allargamento delle frontiere, delle forme e degli usi possibili della letteratura, dovuto all’immissione di voci precedentemente escluse.

La mia impressione, tuttavia, è che in Solanas ci sia qualcosa di sostanzialmente diverso da un appello alla democrazia estetica. E, a ben vedere, Solanas non predica nemmeno l’avvento di un divenire-donna, o di un divenire-minore della letteratura. Non è un caso che il Manifesto si proponga di mobilitare, ai fini del sabotaggio del sistema, commesse-scum, operaie-scum, impiegate-scum, centraliniste-scum, mentre non si parla mai di scrittrici-scum o di artiste-scum. Stefania giustamente ricordava che Solanas respingeva il confronto con altri scrittori, sia pure dei bassifondi. In effetti, penso che avesse in mente un unico esempio, provvisorio e non replicabile, di letteratura-scum: se stessa. Il suo disinteresse per la scum-izzazione delle istituzioni letterarie, e più in generale cultu-rali, dovrebbe aiutarci a vedere che il nocciolo della sua sfida al mito patriarcale della creatività non consiste nell’allargamento dei diritti di cittadinanza artistica. Qui credo possa essere davvero illuminante il parallelo con la Carla Lonzi che riflette sul senso del suo ritiro da un mondo, quello della critica d’arte, che condanna le donne al ruolo alienante di spettatrici dell’impresa maschile. Quelle pagine andrebbero confrontate con ciò che afferma Solanas in Manifesto SCUM, quando scrive che in una società compiutamente post-patriarcale «l’unica arte, l’unica cultura sarà l’esistenza di femmine insolenti, stravaganti, scatenate, capaci di ricavare piacere l’una dall’altra e da qualsiasi altra cosa nell’universo». Per Solanas non è universale né inalterabile, ma inscindibilmente connessa alle condizioni del dominio maschile, l’esigenza di istituire un rapporto immaginario con le condizioni reali dell’esistenza. Prefigurare uno scenario in cui la vita, per giustificarsi, non avrà più bisogno trasfigurazioni estetiche significa esprimere un verdetto inappellabile sulla funzione dei meccanismi di compensazione estetica e culturale attivati dalla società etero-patriarcale.

MP: Il manifesto – come genere letterario – ha uno statuto ambiguo: si colloca infatti sul crinale tra atto discorsivo e performativo, e quindi tra testo e vita. Storicamente, proprio per questa sua natura intrinsecamente politica, ha rappresentato uno strumento di espressione resistenziale. Se il manifesto, come atto performativo, è espressione di una collettività, nello scrivere il Manifesto SCUM Solanas decreta l’esistenza della scum feccia come soggetto politico. Scrivete: «Solanas si appropria in maniera terroristica del genere letterario del manifesto» (p. 13): come?

SA: Il manifesto come tipologia testuale nasce prima di tutto come documento politico che annuncia, e al tempo stesso produce, un cambiamento sociale radicale. È un testo che afferma una rottura nel ripetersi della storia e la promessa di un cambiamento operato grazie alla formazione di una nuova collettività politica (e/o artistica). Il testo di Solanas segnala sin dal titolo, «Manifesto», la sua inequivocabile intenzione politica, rimandando a una tradizione di scrittura prodotta quasi sempre negli ambienti omosociali maschili delle avanguardie – si pensi al Manifesto del Futurismo, al Manifesto Dada, al Manifesto del Surrealismo. Janet Lyon ha osservato che «SCUM è la figlia vendicatrice e vittoriosa dei manifesti d’avanguardia di Apollinaire, Tzara, Marinetti, Debord».

Solanas attua un’appropriazione terroristica di questa tradizione per varie ragioni: accosta al termine “manifesto” il sostantivo imprevisto “scum”, feccia, scarto, pattume, ciò che è reietto. Defrauda dunque il genere del manifesto di quell’autocompiacimento intellettuale delle avanguardie artistiche e dei gruppi politici che fino ad allora lo avevano utilizzato. La femminista radicale Jane Caputi ha colto nel segno quando nota che “scum” «significa lo stato degradato delle donne in un sistema di valori sociali definito dagli uomini». Attraverso questa prospettiva dal basso, il basso dell’abiezione, della fogna, non quello “vellutato” dei sotterranei warholiani, Solanas immagina una collettività di soggetti sociali, le donne-scum, le quali – una volta riconosciuta la propria oppressione sulla base del genere, a differenza di quanto non facciano le Daddy’s Girls, le Figlie di Papà complici del patriarcato – si muoveranno per distruggere l’attuale società e costruirne una nuova e giusta. È un manifesto, dunque, che annuncia l’abbattimento del patriarcato. Ma ciò non avverrà, sottolinea l’autrice, attraverso metodi tradizionali quali cortei, manifestazioni, richiesta di diritti… scum-la feccia sabota il sistema, “slavora” e – avverte Solanas – «se SCUM colpirà, sarà nell’oscurità con una lama di quindici centimetri». Questo, ricordiamolo, Solanas lo scriveva negli stessi giorni in cui la controcultura hippie e psichedelica (spietatamente presa in giro nel Manifesto) proponeva fiori, LSD e amore libero come forme di contestazione.

Però, questa collettività di donne e ausiliari-froci che agirà il cambiamento sociale, quando Solanas scrive, cioè prima del femminismo radicale e prima delle rivolte di Stonewall, non esiste ancora, è una sua invenzione testuale, è un desiderio politico che lei rende vivo attraverso la pagina scritta e/o letta-performata. Di fatto, il suo Manifesto, pubblicato per la prima volta in copie ciclostilate nel 1967, non è (ancora) espressione di un gruppo organizzato, bensì la voce della singola soggettività dell’autrice, isolata perché la sua visione politica è in largo anticipo sui tempi.

Anche se Solanas non fece mai parte di un gruppo organizzato, la storia del femminismo degli anni Settanta è stata segnata da quello che Deborah, nel suo saggio introduttivo, ha chiamato «Effetto Scum»: tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta usciranno il Redstockings Manifesto, The Bitch Manifesto, Black Woman’s Manifesto, The Combahee River Collective Statement e molti altri testi prodotti da una miriade di gruppi auto-organizzati, mentre in Italia nel 1970 esce il Manifesto di Rivolta femminile. Mi piace ricordare l’immagine usata da Hannah Ghorashi, secondo la quale il Manifesto di Solanas ha inviato «una scossa elettrica lungo la storia del femminismo che è percepibile ancora oggi». Con le dovute distinzioni, credo se ne trovi un’eco anche nel recente Manifesto Xenofemminista del collettivo transnazionale Laboria Cuboniks, con la sua invocazione razionalista e antinaturalista della fine del genere e con l’invito all’appropriazione collettiva della tecnologia in senso anticapitalista – temi anticipati mezzo secolo fa dalla “pazza” Solanas.

MP: Tradurre è un’operazione che esula dal dominio strettamente linguistico e si colloca in quello culturale e politico: la scelta di proporre questa traduzione oggi è in sé significativa. Per esempio, penso alla questione salariale. Il femminismo della seconda ondata, che sarebbe scoppiato subito dopo la pubblicazione del Manifesto, si poneva come obiettivo la redistribuzione salariale; il neoliberismo progressista contemporaneo declina il femminismo in emancipazione individuale delle donne (il capitalismo oggi ci vuole produttrici e riproduttrici); il movimento globale Non una di meno si pone come obiettivo politico il reddito di autodeterminazione. Solanas scrive: «a liberare le donne dal dominio maschile […] sarà la totale eliminazione del sistema basato sul lavoro e sul denaro, non il raggiungimento dell’uguaglianza economica con gli uomini al suo interno» (p. 69). E qui sento la radicalità inappellabile dell’antagonismo di Solanas e ne identifico il potenziale per attaccare il tentativo egemonico del femminismo mainstream attuale. Siete d’accordo? Dove altro?

DA: “Antagonismo” è sicuramente il termine giusto, ma occorre fare attenzione a non confonderlo con un generico sentimento anti-sistema. Solanas vede benissimo che è il controllo maschile sul lavoro, sulla sessualità e sulla coscienza delle donne a produrle e riprodurle come “feccia”, come soggetto sociale minoritario e dipendente. La sua radicalità si articola, per dir così, in due tempi logici. In primo luogo, Solanas sceglie di non ignorarsi come soggetto subalterno sull’asse del genere: questo significa collocare le donne in posizione antagonistica verso il gruppo sociale che beneficia direttamente della loro minorizzazione e della loro “desistenza” programmata, quello degli uomini. In secondo luogo, Solanas evita la scorciatoia consistente nel voler far riconoscere l’identità dominata come equivalente a quella dominante, ciò che nel gergo mainstream si declina, come già sottolineava Stefania, nei termini di “parità nella differenza”. Mi sembra che, precisamente a questa altezza, si delinei una serie di interrogativi ancora pertinenti: quale uguaglianza può esserci all’interno di una gerarchia sociale? “Parità” non è forse il soave eufemismo che veicola la resistenza ad aggredire le premesse materiali della gerarchia di genere? Che senso può avere dichiarare equivalente in valore ciò che di fatto esiste in funzione della costruzione sociale della diseguaglianza? Credo sia questa lucidità, in definitiva, che consente a Solanas di concepirsi come soggetto negativo, ovvero di politicizzare la propria identità subalterna non per “valorizzarla”, ma per distruggere il rapporto di potere che la produce.

Non si tratta soltanto di una posizione incompatibile con il “femminismo mainstream”, ma di una posizione che induce a interrogare la logica stessa dell’amalgama che associa con tanta disinvoltura il femminismo al mainstream. Qualunque cosa possa essere il “femminismo mainstream” — e io credo si tratti più di rimozione attiva e violenta, che non di co-optazione, del femminismo, della sua storia, dei suoi dibattiti – una figura come quella di Solanas ci obbliga a precisare i termini della critica che gli rivolgiamo. Per rimproverare al “femminismo mainstream” il coinvolgimento con la ragione neoliberale non è strettamente necessario essere femministe radicali: si può denunciare, per esempio, il ricorso massiccio al lavoro gratuito da parte del capitalismo neoliberale senza essersi di fatto mai accorti/e dei volumi di lavoro gratuito estratti alle donne fuori dal mercato, nella famiglia, e senza aver mai sospettato che quel tipo di appropriazione del corpo, del tempo e della mente delle donne segnala la presenza di uno specifico rapporto di produzione co-estensivo a quello capitalistico, che prolunga i suoi effetti anche fuori dalle mura domestiche (una situazione che diventa particolarmente vistosa quando si osserva la vita delle donne di estrazione popolare, delle donne migranti o razzializzate, benché non sia limitata a quell’area sociale). È necessario essere femministe radicali, invece, per poter rimproverare al “femminismo mainstream” la cecità teorica e l’inerzia politica nei riguardi dell’infrastruttura eteropatriarcale che espone la grande maggioranza delle donne e delle altre minoranze di genere a un impatto differenziato e penalizzante con le politiche neoliberali. Si sente spesso dire, per esempio, che sono le crisi sociali ed economiche innescate dal neoliberalismo a determinare la recrudescenza della violenza diretta contro le donne. Questo modo di ragionare manca però puntualmente di interrogarsi sulla direzione della violenza: come mai lo sconvolgimento degli equilibri precedenti non dà luogo a fenomeni massicci di violenza perpetrati dalle donne sugli uomini?

Quanto al reddito di autodeterminazione: Solanas privilegiava le tecniche cospirative, non credo che guarderebbe con favore alla nostra scelta di partecipare a scioperi e cortei per far vivere quella rivendicazione. Certamente, però, ci dà buoni motivi per caratterizzarla in senso femminista e per tenere aperta la domanda sui conflitti che è necessario aprire per darle gambe su cui camminare.


Note

[1] Il titolo sostituito a quello originale dai curatori del Cavalier era: For 2c: Pain, the Survival Game Gets Pretty Ugly (Per due centesimi: sofferenza, il gioco per la sopravvivenza si fa duro). Cfr. Breanne Fahs, Valerie Solanas: The Defiant Life of the Woman who Wrote SCUM (and shot Andy Warhol), New York, Feminist Press, 2014, p. 45.


 

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Simone Venturini racconta il potere salvifico della Bibbia


di Simone Baroncia (Korazym, 14 novembre 2017)


– La Bibbia è da sempre il libro più venduto al mondo, oltreché ad essere stato il primo ad essere stampato nella seconda metà del 1400 da Johann Gutenberg. Però oggi corre il rischio di restare solo un libro di memorie antiche.

La Bibbia è da sempre il libro più venduto al mondo, oltreché ad essere stato il primo ad essere stampato nella seconda metà del 1400 da Johann Gutenberg. Però oggi corre il rischio di restare solo un libro di memorie antiche. Invece la Bibbia è il Libro che alimenta la nostra vita, come ha scritto Simone Venturini nel libro ‘Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi’, cercando di mettere a fuoco i contenuti del Testo Sacro per renderli più fruibili.

Egli dal 2004 lavora presso l’Archivio Segreto Vaticano ed è docente di Scienze Bibliche all’Università della Santa Croce. In questo lavoro, intitolato ‘Il potere segreto della Bibbia per scoprire Dio e se stessi’ (edito da VandA.Epublishing ed in vendita su Amazon e a Roma presso la Libreria Coletti), l’autore parte dai fondamentali (‘Chi ha scritto la Bibbia?’) per approdare ad alcune riflessioni più complesse (‘L’innominabile e inafferrabile realtà di Dio’).

Infatti nell’introduzione l’autore ha descritto lo scopo del libro, che è quello di avvicinare il lettore alla conoscenza della Bibbia, perché “va letta in profondità, superando le contraddizioni superficiali e le interpretazioni della teologia: solo così essa diventa una vera e propria guida universale alla scoperta di se stessi e di come trovare il vero Dio… Parla di persone che hanno provato le nostre emozioni (paura e gioia, odio e amore). La Bibbia è il libro in cui il divino e l’umano si compenetrano sino a fondersi insieme, diventando quasi inscindibili l’uno dall’altro”.

Nel volume si trova anche una rilettura dei tanti simboli biblici: “Erano il mezzo più efficace per rendere trasparenti le storie che raccontavano, per far sì che attraverso quello che essi dicevano, i loro destinatari riconoscessero non solo se stessi, i propri problemi, le proprie ansie, ma anche Dio”.

A lui abbiamo chiesto spiegazione del libro con un titolo così: “Perché ritengo, anzitutto, che la gente ami la Bibbia, sia affascinata da essa, ma occorre anche ‘sdoganarla’ almeno un pò da certe presentazioni editoriali che, francamente, invogliano ben poca gente a leggere la Bibbia. Inoltre, penso che il titolo, scelto dal mio editor VandaA Epublishing, rifletta veramente il contenuto del libro. L’ho iniziato a scrivere nel 2012, quando l’editore Newton Compton mi aveva chiesto di scrivere un libro del tipo ‘101 misteri sulla Bibbia’. Poi però abbandonò l’idea. Nel frattempo, nella mia vita, sono accadute diverse cose, la più importante delle quali è l’esperienza di angoscia e di sofferenza che ho vissuto la scorsa estate, dove ho finalmente scoperto dove abita Dio e cosa accade quando Lui si manifesta veramente nella nostra vita”.

Quale è il potere della Bibbia?
“E’ il potere di farci scoprire dove abita Dio e chi Egli sia veramente. E’ il potere messo in mano a chiunque si scopra fragile e bisognoso di un Padre eterno che lo inserisca nella propria spirituale famiglia, dove vive un fratello come Cristo e una madre come la Vergine Maria. Del resto, il problema dei problemi dell’uomo contemporaneo è la sua sensazione di insicurezza e di profondo e devastante isolamento sia da se stesso, che dagli altri. La Bibbia, soprattutto i vangeli, se letti in profondità e attraverso la lente d’ingrandimento dei suoi potentissimi simboli, offre l’occasione di trovare in noi stessi la Luce di un Dio che abita nel nostro cuore”.

Quale esperienza di Dio racconta il libro?
“La mia esperienza. L’esperienza di un biblista che ha ormai scoperto di essere un uomo, un credente in Dio e un amante della vita, prima di essere uno ‘specialista nel settore’. Un’esperienza mistica che ho vissuto nell’estate del 2016, quando all’improvviso una grande e calda luce si è sprigionata dal mio cuore ed ha finalmente illuminato tutto ciò che mi circondava.
Piansi come un bambino e finalmente compresi che Dio non lo si incontra nella mente, nei ragionamenti, nelle idee, ma solo nel cuore. Un pò come accadde a Maria Maddalena, quando si recò al sepolcro. Mai dimenticherò quel giorno e quell’ora dove ho finalmente trovato la casa del Padre. Un pò come accadde ai discepoli che chiesero a Cristo dove abitasse. Giovanni ci tramanda perfino l’ora in cui fecero quella esperienza”.

Come leggere la Bibbia per scoprire Dio e se stessi?
“Secondo me, bisogna abbandonare la tentazione di leggere la Bibbia alla lettera. Occorre andare in profondità, laddove essa si erge a libro universale e dell’intera umanità. Per farlo, occorre però anzitutto sperimentare sulla propria pelle cosa sia l’angoscia di aver fondato la propria vita su idoli e false speranze.
Essa esplode quando accade qualcosa di inaspettato nella vita, di estremamente doloroso e che richiede da noi una decisione forte e coraggiosa. Solo allora, tutto ciò che non è Dio cadrà, insieme a tutte le false e fuorvianti interpretazioni della Bibbia che a quegli idoli davano corpo”.

Riprendere in mano la Bibbia può significare ritrovare la propria vita.


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Manifesto Scum, la traduzione integrale dopo 50 anni. La co-curatrice Arcara: «Testo scandaloso e attuale».


di Claudia Campese (MeridioNews, 23 ottobre 2017)


– Un mitico pamphlet femminista prima che il femminismo radicale si affermasse. Un’autrice lesbica, indigente e considerata pazza negli Usa anni ’60. Sono gli ingredienti di Trilogia Scum, il nuovo volume, con due inediti, curato dalla studiosa modenese Deborah Ardilli e dalla docente catanese Stefania Arcara.

«Un pamphlet incendiario, provocatorio, scandaloso, serio e comico al tempo stesso». È Scum, manifesto per l’eliminazione dei maschi, opera del 1967 scritta da Valerie Solanas, mitico testo femminista prima ancora che il femminismo radicale si affermasse negli Usa, oggi oggetto di rinnovato interesse da parte dei queer studies. Un libro irriverente, già a partire dal nome – scum, cioè feccia – circolato per decenni negli ambienti underground, ma che ha dovuto attendere cinquant’anni per avere una traduzione italiana fedele e integrale. Si tratta del volume Trilogia Scum, edito dalla casa editrice di Milano VandA e-publishing, e curato dalla storica femminista modenese Deborah Ardilli e dalla catanese Stefania Arcara, docente di Letteratura inglese e Gender studies all’università di Catania e presidente del centro Studi di genere Genus. All’interno della raccolta, anche due inediti – la commedia Up Your Ass (In culo a te) e il racconto Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle -, due saggi introduttivi e la sezione Cronologia di una vita abietta che ricostruisce per la prima volta la movimentata vita dell’autrice. Nota ai più per il tentato omicidio di Andy Warhol e finora esclusa sia dalla storia del femminismo che dagli archivi della memoria queer, Solanas dimostra oggi la sua attualità e inizia a essere riconosciuta per l’importanza della sua analisi politica e per il suo talento di scrittrice. «Manifesto Scum l’ho letto da adolescente, negli anni ’80, nelle mitiche Edizioni Millelire – racconta Arcara – Oggi, insieme alla regista e traduttrice Nicoleugenia Prezzavento si sta pensando all’allestimento della commedia di Solanas Up Your Ass, prima assoluta in Italia, nei prossimi mesi a Catania». Un’anteprima si avrà mercoledì 25 ottobre, alle 15, al Coro di notte dell’ex monastero dei Benedettini, all’interno delle giornate di studio Ne uccide più la parola, con protagonista l’attrice Rita Salonia. Un assaggio di un volume da maneggiare con cura: MeridioNews ne ha discusso con la co-curatrice Stefania Arcara.

 

Valerie Solanas è un nome che non si trova certo nei manuali di letteratura. Qual è l’eccezionalità della sua opera?

«Nel 1967 Solanas vendeva per strada le copie di Scum a un dollaro agli uomini e a 25 centesimi alle donne, per denunciare la diseguaglianza economica sulla base del genere. Oggi la disparità salariale è ancora un dato di fatto, mentre la società continua a reggersi sul lavoro riproduttivo delle donne. Solanas ha avuto molto coraggio, perché scriveva nella seconda metà degli anni ’60, prima del femminismo radicale e prima delle rivolte di Stonewall che daranno il via all’attivismo Lgbt: si rivendicava la feccia come posizione dalla quale esprimere la sua rabbia e lottare. Questa posizione infima nella quale la società la relegava, lei, scrittrice di talento, con un’intelligenza brillante e un sarcasmo tagliente, l’ha sperimentata sulla propria pelle tutta la vita, essendo non solo una donna, ma anche una lesbica dichiarata negli Stati Uniti della Guerra fredda, quando gli individui come lei venivano arrestati o ospedalizzati per il solo fatto di essere visibili. Per di più era una lesbica sottoproletaria, che ha vissuto per anni senza fissa dimora chiedendo l’elemosina e prostituendosi».

Come mai, a 50 anni dalla prima pubblicazione, circolava ancora un testo parziale di Manifesto Scum? Cosa le ha lasciato questo lavoro di cura e traduzione in termini di esperienza umana, politica e professionale?

«L’identità alla quale Valerie Solanas teneva di più era quella di scrittrice, ma in quanto donna e lesbica e indigente le fu negato l’accesso ai canali dell’editoria e agli ambienti intellettuali, anche quelli delle avanguardie. Il Manifesto Scum, inizialmente stampato in proprio, fu pubblicato senza il consenso dell’autrice all’indomani della sparatoria che la rese famosa nel 1968, dall’astuto editore Maurice Girodias dell’Olympia press, che manipolò e tagliò il testo mentre lei si trovava in carcere. Per tutta la vita Solanas non ricevette un centesimo dalla vendita delle numerose edizioni e traduzioni di Scum in tutto il mondo. Solo nel 1977, fallita l’Olympia Press, i diritti tornano a Solanas che finalmente ripubblica, ancora in proprio, l’edizione corretta, da lei stessa rivista. La traduzione mia e di Deborah Ardilli si basa su questa versione, originale e integrale, ed è stata un’esperienza entusiasmante: siamo state sempre rigorose per rispetto dell’integrità artistica e politica di Solanas, e al tempo stesso ci siamo divertite da matte».

Dal 1967, però, il mondo è cambiato. Chi sono le donne-feccia del 2017 e come parla loro oggi questo libro?

«L’idea di feccia (scum) di Solanas sta a significare “lo stato degradato delle donne in un sistema di valori sociali definito dagli uomini”. Quindi, poiché continuiamo a vivere in un regime eteropatriarcale, la feccia sono tutti i soggetti sociali oppressi sulla base del genere. Se oggi, in media, un uomo uccide una donna ogni tre giorni; se alla maggioranza delle donne continua a essere estratto lavoro domestico e di cura gratuito, malgrado l’emancipazione permetta loro di lavorare anche fuori casa, ma pagate meno degli uomini; se i corpi femminili sono commentabili da qualunque uomo nello spazio pubblico, indipendentemente dalla sua classe sociale e dal colore della pelle; se le donne vivono costantemente sotto la minaccia, implicita o esplicita, di molestia sessuale e di stupro come dimostra, qualora ve ne fosse stato bisogno, la recente campagna #metoo, allora Manifesto Scum parla ancora forte e chiaro a tutte le donne, cis e trans, e a tutti i soggetti che non si conformano alle norme di genere. Oggi forse, semmai, si è indebolita la disponibilità delle donne a riconoscersi quali soggetti oppressi e quindi a organizzarsi politicamente per abbattere il sistema».

E cosa scoprirebbe invece un uomo che si avventuri nella lettura, ammesso che riesca a superare il titolo e quel “distruggere il sesso maschile” dell’incipit?

«È interessante che in Manifesto Scum gli uomini siano oggetto del discorso e mai interlocutori. Solanas lo dice esplicitamente: il vero conflitto è quello con coloro che lei chiama le “figlie di papà”, cioè donne complici del patriarcato, che non hanno preso coscienza della propria oppressione e magari credono di ottenere benefici dalla propria posizione subordinata. Oggi un uomo eterosessuale che legge Scum potrebbe, nella migliore delle ipotesi, riconoscersi nei tanti comportamenti da lei descritti e prendere coscienza del proprio privilegio sociale di genere. Un uomo non eterosessuale, può riconoscersi, io credo, in ciò che lei scrive quando loda “i froci che, con il loro magnifico e fulgido esempio, incoraggiano altri uomini a de-mascolinizzarsi”. A chi poi, sia uomini che donne, si scandalizza per il discorso estremo fatto da Solanas quando teorizza provocatoriamente l’inferiorità maschile, rispondo che nessuno e nessuna si sognerebbero mai di accusare grandi uomini come Aristotele, San Tommaso o San Paolo di essere pazzi quando affermano che la donna è “un uomo mancato” o che è suo dovere ubbidire al marito. Solanas usa provocatoriamente la stessa argomentazione, ribaltando i poli di genere. Ma lei è considerata una pazza, in quanto parla da una posizione sociale subalterna, quella di una lesbica mascolina, proletaria, con un linguaggio volgare, una fuorilegge del genere. E questo la società non può tollerarlo».

Il libro viene pubblicato a ridosso di una tornata di elezioni regionali ancora una volta con scarsa presenza femminile e, spesso, di facciata. Cosa scriverebbe nella dedica alle candidate?

«Rispondo con le parole della pazza Solanas: “Scum mira a distruggere il sistema, non a conquistare dei diritti al suo interno”».


 

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Il potere segreto della Bibbia


di Luciano Zanardini (La Stampa, 20 agosto 2017)


– Nel suo nuovo libro Simone Venturini spiega come il Testo Sacro rappresenti una grande opportunità per scoprire Dio e ritrovare se stessi.

La Bibbia, oltre ad essere il libro più venduto al mondo, è stato il primo ad essere stampato nella seconda metà del 1400 da Johann Gutenberg con l’aiuto di caratteri mobili. Nel tempo ha ispirato la letteratura e l’arte ed è entrata a far parte del nostro linguaggio. Se dell’Antico Testamento, eccetto la Genesi, conosciamo molto poco, del Nuovo abbiamo come riferimento i quattro Vangeli. È evidente, però, che oggi viviamo un preoccupante analfabetismo religioso: il Libro dei Libri corre il rischio di essere letto a catechismo, quando va bene…

Da questo punto di vista è interessante l’operazione di Simone Venturini che nel suo libro “Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi” cerca di mettere a fuoco i contenuti del Testo Sacro per renderli più fruibili. Venturini dal 2004 lavora presso l’Archivio Segreto Vaticano ed è docente di Scienze Bibliche presso l’Università della Santa Croce. In questa sua nuova fatica il direttore emerito della Biblioteca dell’Università Lateranense parte dai fondamentali («Chi ha scritto la Bibbia?») per approdare ad alcune riflessioni più complesse («L’innominabile e inafferrabile realtà di Dio»).

Con questo testo, edito da VandA.Epublishing (in vendita su Amazon e a Roma presso la Libreria Coletti), l’autore cerca di avvicinare il lettore alla conoscenza della Bibbia, perché «va letta in profondità, superando le contraddizioni superficiali e le interpretazioni della teologia: solo così essa – scrive nell’introduzione – diventa una vera e propria guida universale alla scoperta di se stessi e di come trovare il vero Dio». Non è poi così lontana dal nostro vissuto perché i protagonisti sono gli uomini: «Parla di persone che hanno provato le nostre emozioni (paura e gioia, odio e amore). La Bibbia è il libro in cui il divino e l’umano si compenetrano sino a fondersi insieme, diventando quasi inscindibili l’uno dall’altro».

Nel volume si trova anche una rilettura dei tanti simboli che abitano queste pagine: «Erano il mezzo più efficace per rendere trasparenti le storie che raccontavano, per far sì che attraverso quello che essi dicevano, i loro destinatari riconoscessero non solo se stessi, i propri problemi, le proprie ansie, ma anche Dio». Ricercare se stessi e ricercare l’Assoluto sono le due azioni che da sempre hanno interessato il cuore dell’uomo. In un capitolo (“La legge e il cuore”) prende in esame la rivoluzione copernicana del capitolo 32 del libro di Geremia e invita a leggere l’esperienza religiosa a partire dall’amore: «Finché l’uomo non scopre il Dio che parla al cuore, ci sarà sempre bisogno di qualcuno che guidi la sua vita. Ci sarà sempre bisogno di qualcuno che lo istruisca su cosa fare e come farlo. Soprattutto, ci sarà sempre una legge pronta a condannarlo e a sottolineare la sua inadeguatezza, il suo essere sbagliato, i suoi errori».

Nel Nuovo Testamento ci interroghiamo anche sulla croce e sulla sofferenza, ma «Gesù non visse per morire sulla croce, ma per indicare a ciascuno la strada che porta oltre la croce». L’uomo, invece angosciato dalla paura, decide la morte per Colui che insegnava e insegna semplicemente «ad amare e a non aver più paura di Dio né del prossimo. La croce, dunque, non è il simbolo della rinuncia a se stessi, bensì l’emblema di una vita spesa per ciò che davvero conta, un simbolo d’amore e di vita più che di morte e sofferenza». Ecco, allora, che riprendere in mano la Bibbia può significare riprendere in mano la propria esistenza.

“Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi” di Simone Venturini (VandA.Epublishing, pp 174, 12,75 euro). Il libro è disponibile presso la Libreria Coletti di Roma (via della Conciliazione 3a).


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A testa in giù, 12 racconti di Raffella Formillo. L’intervista di Fattitaliani: “Guardare indietro aiuta ad andar avanti”


di Giovanni Zambito (Fattitaliani, 13 agosto 2017)


– Dopo l’esordio con Tè alla Fragola, Raffaella Formillo, psicoterapeuta scrittrice, invita a guardare il mondo «A Testa in giù» attraverso una raccolta di dodici racconti brevi tenuti insieme da uno stratagemma  letterario e pubblicati in formato e-book dalla casa editrice indipendente VandA. 

Dopo l’esordio con Tè alla Fragola, Raffaella Formillo, psicoterapeuta scrittrice, invita a guardare il mondo «A Testa in giù» attraverso una raccolta di dodici racconti brevi tenuti insieme da uno stratagemma  letterario e pubblicati in formato e-book dalla casa editrice indipendente VandA. Due bambini, una donna abbandonata, un internato, un ladro, un bombolaio e un tassista, sono alcuni dei personaggi di queste storie sbagliate, cattive, ingenue, folli e romantiche.

Dodici storie che si rincorrono, come una giostra, attraversando tutti i generi letterari, dal diario al pulp, dalla confessione intimistica all’horror e conducono il lettore a ritmo serrato fino all’ultimo racconto dove, ancora una volta, ci si ritroverà capovolti. I racconti, speculari alla frammentarietà dell’animo umano, si ricongiungono in un’unica narrazione che assembla i cocci di esistenze sbagliate e apparentemente disperse, riconducendole alle proprie radici. Il flashback, la ricostruzione della memoria attraverso episodi non integrati nel flusso autobiografico non è soltanto uno stratagemmaletterario ma il percorso che conduce il disagio alla sua origine, dalla quale non si può fuggire, anche quando l’esistenza si ritaglia uno statuto autonomo che si conclude nello spazio di un singolo racconto. Fattitaliani ha intervistato Raffaella Formillo.

Rispetto a un romanzo la gestazione e la concezione dei racconti in che misura cambiano nei tempi e nella scrittura?

I racconti sono spesso oggetto d’interesse secondario in Italia rispetto al romanzo, ma la difficoltà narrativa per la scrittura di un buon racconto è spesso superiore per diversi aspetti. In un romanzo la costruzione del personaggio, della storia, degli eventi narrati ha un tempo dilatato. Lo scrittore può lavorare ai vari capitoli del testo, approfondendo temi diversi in tempi diversi e sapendo che ha più di un’occasione, il tempo appunto di un intero libro, per sedurre il lettore. Chi scrive un racconto deve essere capace di condensare tutto in uno spazio breve, deve in poche pagine creare personaggi che abbiano da subito un impatto emotivo, narrare una situazione forte di per sè sulla quale sia possibile generare una tensione narrativa e un ritmo in grado di catturare il lettore. Ogni racconto deve bastare a se stesso, essere percepito dal lettore come concluso, deve avere in sé la ragione della sua esistenza, indipendentemente da quello che lo precede o lo segue in una raccolta. Chi scrive racconti non ha molte occasioni per far amare un testo, ma solo un’occasione, quella appunto dello spazio di un racconto.

La diversità e la varietà dei personaggi della raccolta hanno un substrato comune?

I  personaggi sono apparentemente molto diversi tra loro, ma in un modo o nell’altro connessi e non solo per l’architettura complessiva del libro, che qualcuno ha definito un ipertesto. Sono personaggi accumunati da una perdita, subita o provocata, dalla fragilità, dalla solitudine, dal tema della colpevolezza, reale o vissuta. Sono legati da quella che un mio lettore ha definito in una recensione su Amazon “la soave malinconia del vivere”.

Che contesto, che ambiente fa loro di sottofondo?

I contesti e gli ambienti sono i più diversi. Ogni racconto ha un suo genere narrativo. Spaziano dal diario, alla confessione intimistica, dal noir all’horror. Il sottofondo è costituito semmai dal filo conduttore che li accomuna, dalla tecnica narrativa che ha nel titolo stesso la chiave di lettura.

La sua formazione e gli incontri dovuti alla sua professione quanto hanno inciso sulla creazione e sulla vita dei personaggi?

La mia formazione ha inciso moltissimo, non solo per ciò che racconto, ma per lo stile narrativo e la struttura stessa del libro. Dovrei parlare del terzo assioma della comunicazione umana e dell’organizzazione dei ricordi nella memoria di una certa tipologia di pazienti, ma non credo di avere sufficiente spazio per farlo!  Potrei sintetizzare  che il mio è un invito a invertire, ribaltare il punto di vista, cercare il significato oltre l’apparenza.

Ce n’è uno in particolare con cui si è proprio lasciata andare nella fantasia e nella libertà di narrazione?

Elencherei: “Il bambolaio” perché  per il mio stile è stato in assoluto il  più sperimentale; “Reverse” che ha richiesto tutta la fantasia possibile e non svelo volutamente il perché; “L’aeroporto” perché credo che superi l’immaginazione di qualunque lettore.

Il flashback è molto utilizzato nei racconti: secondo lei, oggi ci si sofferma su quello che si è stati o si è avuto?

Non voglio generalizzare, ma se mi guardo intorno credo ci si soffermi nella misura in cui si affidano i propri ricordi ai diari fotografici dei social network, alla tristezza degli autoscatti, alla cronistoria della propria vita in pubblico. Come se si potesse essere certi di esistere solo attraverso una foto, spesso un selfie autoreferenziale. Mi chiedo come si possa passare il tempo a pubblicare quotidianamente dove si è, dove si è stati, che si sta facendo, cosa ci piace fare. Il prodotto è un’autobiografia falsata e un’identità fragile. Erri De Luca scrive in un suo libro che le fotografie sono per chi non ha memoria. Affermazione che trovo calzante per questi tempi in cui viviamo troppo legati all’immagine.

Lei personalmente lo fa?

Personalmente mi soffermo molto sul passato, ma la mia è più una modalità riflessiva che contempla il pudore e la riservatezza della sfera privata. Credo che guardare indietro aiuti per molte cose ad andare avanti, a strutturare quel senso di appartenenza necessario per poi avere la forza di andare oltre nella formazione della propria identità. Quando però ciò che si è stati o si è vissuto diventa un rimuginare sul passato oppure un’idealizzazione mitizzata, allora il prodotto non può che essere lo stallo, la mancata realizzazione del progetto di vita che ognuno di noi è chiamato a realizzare.

Che rapporto ha con gli e-book? preferisce il cartaceo?

Sono nata nel 1974 e subisco ancora il fascino del cartaceo, così come prediligo il corporeo al virtuale, la relazione diretta a quella mediata dei social network, ma credo sia anche un fattore culturale e di abitudine. Considero  il libro un vero e proprio pezzo d’arredo. Amo le case con enormi librerie, anche nella zona pranzo perché per me il libro è la forma più evoluta di nutrimento umano. Tuttavia penso che l’e-book sia il futuro, soprattutto per chi legge molti libri, per chi ama leggere in viaggio o semplicemente per chi non ha spazio sufficiente in casa. Credo che sia il futuro anche per i bassi costi che ha per l’editore e per il lettore quando acquista. Aiuterebbe i libri a non diventare introvabili dopo un certo lasso di tempo, li aiuterebbe ad arrivare ovunque, aiuterebbe un intero sistema sociale nella diffusione della cultura. Credo inoltre sia un processo inarrestabile, così com’è avvenuto per i cd e gli mp3 nel mondo della musica, sebbene siano meno romantici dei Vinili. L’ideale in questa fase sarebbe dare al lettore sempre una doppia scelta: cartaceo ed e-book. Si potrebbe poi fare una considerazione ecologica. Ultimamente  per la promozione del libro dico: salva un albero, compra un e-book!


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Emma Treves, da Vogue a una rivoluzione con saggezza e ironia


di Susanna Garavaglia (Dol’s Magazine, 16 maggio 2017)


Emma Treves, ex redattrice di moda di Vogue ha scritto  “Non adesso”, un romanzo autobiografico che riscatta senza rancore le sue ferite di moglie abbandonata dopo i sessanta anni da un marito che ha scelto una donna più giovane. 

Un nuovo incontro con la “eccellenza” del Femminile, dopo quelli con Enrica Bonaccorti, Laura Gessner, MariaRosaria Omaggio, Giulietta Bandiera, Marta Morotti e Francesca Lolli.

Questa volta ho individuato l’eccellenza in Emma Treves, ex redattrice di moda di Vogue che ha scritto “Non adesso”, un romanzo autobiografico che riscatta senza rancore le sue ferite di moglie abbandonata dopo i sessanta anni da un marito che ha scelto una donna più giovane. 

Ci sono ingredienti che aiutano ad affrontare i momenti difficili in occasione di crescita e di trasformazione: tra questi l’ironia e la leggerezza, quando si impastano con una folle saggezza o, forse, con una saggia follia. Ingredienti che non è semplice individuare al primo colpo d’occhio perché non vivono nell’apparenza, non si appiccicano alla personalità ma sono ben radicati nell’essenza e, in profondità, crescono, germogliano, fioriscono.

Incontro Emma Treves, sorridente e raffinata oversixty milanese, per molti anni redattrice di moda per Vogue, che ha inoltre  collaborato per le collezioni di borse di Trussardi e a lungo con la stilista Castellini. Mi piace molto parlare con lei, si muove nella vita con ironia, leggerezza, saggezza e follia, espressioni di una Energia del Femminile intrisa di ascolto, accoglienza e accudimento non solo verso gli altri ma soprattutto verso se stessa. Ha saputo infatti salvarsi svestendosi della anima ferita e appoggiandola in un posto dove tutti potessero vederla, asciugarla, metterla al riparo e imparare da lei a mettere in salvo la propria. Emma Treves l’ha fatto raccontando in un libro autobiografico intitolato “Non adesso”, la dolorosa vicenda del suo matrimonio terminato quando suo marito, dopo trenta anni di vita insieme, avendone lui sessantaquattro e lei sessanta, l’ha abbandonata da un momento all’altro per una donna più giovane. Il trauma maggiore e la spinta a scrivere il libro è stata la nascita di un bebè al maturo marito.

Un libro che dovrebbero leggere tutte le donne con una relazione in crisi e tutte le giovani che intendono condividere la vita con uomo. E anche gli uomini perché, spesso ancorati ai loro tempi adolescenziali, forse non hanno sempre chiaro il sentire delle donne che vivono loro accanto. La Treves ci ricorda che ci sono momenti in cui siamo costretti ad aprire gli occhi e quello che fino a quel momento credevamo di avere visto, di colpo ci appare in uno dei suoi possibili inaspettati risvolti.

E quando tutto il mondo le è crollato addosso lei ha scelto di non richiudere gli occhi ma di fermarsi a guardare per poi rivedere tutta la sua vita e ricominciare con un nuovo bagaglio di esperienze e nuove verità. E di mettere la sua storia a disposizione di tutti.

Una donna coraggiosa e per questo eccellente, effettivamente una Donna con la D maiuscola.

– Sei stata redattrice di moda a Vogue, una delle riviste più prestigiose del mondo della moda. Poi, a un certo punto, hai deciso di mollare tutto. Partiamo da qui, così poi cerchiamo di capire tutto il resto..

L’errore più grande della vita l’ho fatto appunto quando ho lasciato il lavoro. E che lavoro! Mi ero appena laureata, negli anni settanta e subito fui assunta come redattrice di moda per Vogue, realizzando il mio sogno. Si può desiderare di più? Ricevere uno stipendio per lavorare coi più famosi fotografi del mondo, raggiungere in business class le location più prestigiose e abbinare vestiti con accessori alla moda per vestire le modelle più belle e pagate…ma se non stai bene, anche un mestiere così ambito può diventare un incubo.

– Perché, cosa era successo?

– Dopo una quindicina di anni a Vogue, improvvisi attacchi di panico mi spinsero a mollare quel mondo magico, sicura che sarei morta se avessi continuato con una vita tanto movimentata e piena di responsabilità. Fui io stessa a fabbricarmi una diagnosi di stress (o forse un’ infelicità non riconosciuta?). Rimasi a casa, certa che non solo il mio fisico,ma anche il mio matrimonio ne avrebbe giovato. Invece mi impigrii sempre di più e, non trovando di meglio da fare, iniziai a notare un’infinità di cose che mi infastidivano nei comportamenti di mio marito. Mi salì un pericoloso senso di disistima. Lo criticavo di continuo, mentre lui evidentemente preso in un circolo vizioso si allontanava sempre di più. Iniziai a pensare che il nostro rapporto fosse alla fine. La verità è che volevamo reciprocamente essere amati e accettati e invece abbiamo passato anni vivacchiando in malo modo senza capire cosa stava succedendo. A volte penso che sarebbe bastata una carezza…ci si dimentica che l’affettività è la base di un matrimonio riuscito, più della sessualità. Tutto il resto è scritto nel libro.

– Perché, infatti, tu hai scritto un libro, intitolato IMG_5936“Non adesso”, che racconta il dopo-Vogue e la fine del tuo matrimonio…

– Sì, in realtà l nostro rapporto era entrato in crisi già da molti anni: si era interrotto quel linguaggio della comunicazione fatto di parole, gesti affettuosi, sguardi complici che è il perno su cui ruota la serenità di una coppia. Erano rimasti silenzi e incomprensioni che io mi rifiutavo cocciutamente di analizzare. Mi pareva che quello fosse ormai lo status quo e che l’amore potesse avere anche una controfaccia di frustrazione. Non riuscivo a comprendere la tempesta emotiva che certi miei rifiuti e reazioni provocavano in lui.

– Fino a che lui ti ha lasciato per un’altra donna…qual è stata la tua prima reazione?

– La mia prima reazione all’abbandono fu un’iperattività che proprio non si addiceva alla mia cronica pigrizia. Mi iscrissi a yoga, pilates già lo facevo e ne aumentai le ore, andai in sinagoga ad ascoltare le colte lezione del rabbino e al centro buddista a sentire conferenze, due volte a settimana avevo lezione di bridge, io che mai avevo preso in mano  carte in vita mia. Pranzavo al bar ogni giorno con un’amica diversa su cui riversavo le mie pene. La sera cinema, concerti, inaugurazioni, qualsiasi cosa pur di uscire e distrarre il cervello da visioni e paragoni che mi torturavano. Ho fatto anche un corso di volontariato e mi sono data da fare in ospedale per un paio di anni. Cercavo di distrarre i pazienti dal dolore fisico o spirituale.  Ascoltandoli davo aiuto, avendone bisogno io stessa. Fu una buona terapia, finchè di vedere altra sofferenza ne ebbi abbastanza.
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Come ti è nata l’idea di trasformare la tua ferita in un romanzo? 

– Non ho mai pensato di scrivere un romanzo autobiografico, in pratica la mia sofferenza raccontata con qualche licenza poetica. Ma quando mio marito, avanti con gli anni, se ne è andato e dopo poco gli è nato un figlio, l’incredulità fu tale e il dolore tanto forte che non riuscivo più a dormire. Passavo le infinite ore buie nella mia maniacale ostinazione ad immaginare demoni e a fabbricare pensieri torturanti, finché qualcuno mi disse di provare a metter giù quello che mi passava per la testa nelle notti insonni…scrissi quasi 500 pagine in due anni. Sul Mac, su foglietti, su un quadernino che tenevo vicino al letto. Poi, un giorno, vincendo le mie timidezze, presi coraggio, raccolsi tutto sul computer, lo stampai  e feci leggere il mio corposo sfogo a una volonterosa amica giornalista. Mi disse che si era divertita. “Ma come? Non hai pianto?” le risposi seccata. Il fatto è che non mi ero neppure resa conto che il mio dolore si era andato stemperando in humour. Anche in humour, diciamo, perché il mio male era comunque ben chiaro a chi leggeva!

– Ironia e humor sono ingredienti non solo del tuo romanzo ma, in generale, della tua vita..

– Sì, lo sono. Ho avuto l’ enorme privilegio di crescere in ambiente pieno di ironia, arte che non si impara strada facendo, ma si eredita. Senza lo humour che ho respirato fin da bambina e quell’imprinting di leggerezza, non credo sarei sopravvissuta agli accadimenti della mia vita.  I miei genitori erano giovanissimi e li ricordo sempre di buon umore, mio fratello un gran battutaro, tanto che a volte, quando eravamo a tavola, si doveva smettere di mangiare perché ci si strozzava dal ridere.emma treves foto

– Ma, pur se dotata di humor, avrai avuto incertezze riguardo alla tua privacy, mentre scrivevi il libro ma, soprattutto, quando lo hai pubblicato? Tu non eri proprio una sconosciuta e soprattutto lui era un personaggio molto in vista.

– Più persone mi spinsero a pubblicare le mie pagine. Non è che ci pensai tanto su, ma intanto cominciai in un’ opera di pulizia a cancellare tutto quanto fosse troppo intimo o astioso o  potesse ferire il mio ex e la sua nuova famiglia, pur lasciando qualche sfottò dei miei e qualche pensierino puntuto sulla mia giovanissima rivale. A quel punto rimasero circa 250 pagine delle 500 iniziali e, rileggendo, mi parve di aver messo insieme una storia dolorosamente leggera che, oltre a poter interessare ad una quantità di donne nella mia situazione, poteva essere un sano dignitoso modo per dire un definitivo addio al mio marito fuggitivo. Il libro, che intitolai NON ADESSO, uscì nel 2014 con VANDA.epublishing, edizioni online scelte da una famosa agente letteraria. Non ci potevo credere: ero una scrittrice. Il mio ego, ridotto a brandelli, cominciava a riposizionarsi al suo posto. Grazie anche alle buone recensioni sul Corriere, su Repubblica e altri giornali, grazie al tam tam di amiche giornaliste, il libro andò benissimo e anche oggi, dopo tre anni, continua vendere (miracoli dell’ebook).

IMG_5947– C’è stato qualcuno contrario a questa tua iniziativa di mettere in pubblico la tua vicenda familiare? Il tuo ex marito e tuo figlio come hanno reagito? 

– Tanto mio figlio fu entusiasta del mio successo e si complimentò per la leggerezza con cui avevo trattato i nostri complessi rapporti famigliari, tanto mio marito si inviperì,  reazione da me imprevista. Non ci sentivamo da quando mi aveva annunciato la nascita del bebè, ma quando lesse le recensioni sui giornali (il libro si rifiutava di leggerlo) mi mandò una mail di fuoco. Mi dissero pure che la sua anima gemella aveva consultato un avvocato per farmi causa ma che il professionista non ne aveva trovato motivo, anzi. Un annetto dopo, il mio ormai ex raccontò ad un’amica che aveva finalmente trovato il coraggio di leggere e che aveva pianto molto ma riso ancor di più. E questa fu la mia grande vittoria. 

– Nel tuo romanzo dici che riesci quasi ad assolvere tuo marito..in che senso?

– Pensare che si fosse commosso mi fece tornare un vago senso di tenerezza per l’uomo che aveva condiviso la sua vita con la mia per trent’anni. Cercai di convincere il mio cuore ad odiare il fedifrago, ma non ha mai funzionato. Ancora una volta mi sentii di assolverlo nonostante tutto, come avevo scritto. Lo assolvo ancora oggi perché il nostro rapporto era entrato in crisi già da molti anni: si era interrotto quel linguaggio della comunicazione fatto di parole, gesti affettuosi, sguardi complici che è il perno su cui ruota la serenità di una coppia. Erano rimasti silenzi e incomprensioni che io mi rifiutavo cocciutamente di analizzare. Mi pareva che quello fosse ormai lo status quo e che l’amore potesse avere anche una controfaccia di frustrazione. Non riuscivo a comprendere la tempesta emotiva che certi miei rifiuti e reazioni provocavano in lui. Mi diceva che non possedevo intelligenza emotiva, e ora mi fa male pensare che avesse ragione-

– E per questo lo assolvi, perché aveva ragione?

– Lo assolvo perché comprendo che, se in un momento di crisi profonda, si presenta ad un uomo in età una giovane bionda che corrisponde ai canoni di donna perfetta e gli si offre come compagna ideale, è difficile che non acchiappi al volo l’occasione di dare una svolta coraggiosa alla propria imperfetta vita e partire per un sogno con nuovi progetti.  Lo assolvo perché, nonostante fosse un marito molto molto difficile, lui si è sforzato di capire cosa ci stava succedendo. Io non abbastanza. Lo assolvo perché ha avuto un coraggio da leone.

– Non è comune, quando un marito se ne va con un’altra donna, assumersene la responsabilità come stai facendo tu…e chiamare “coraggio” la sua fuga..

– Ora, passati tanti anni e dopo tanto lavoro su me stessa, posso affermare che uno dei motivi per cui ho avuto il coraggio di pubblicare è stato per dimostrare a mio marito che pure io ero capace di fare una cosa straordinaria e coraggiosa come aveva fatto lui, diventando padre a sessantaquattro anni. Certo ho scritto anche per riuscire a sopravvivere, ed è stato una specie di gioco di prestigio che ha funzionato alla grande forse perché mi sono assunta gran parte della responsabilità di quanto è successo, cosa necessaria per poter andare oltre.

– E oggi come stai?”

– Non ci si riprende mai del tutto da botte di questo genere, ma si impara a gestire le emozioni, a fare buon uso del famoso humour salvatore e a restare positivi. La vita va come vuole andare ed ho imparato in questi anni( ma con che fatica!) a sorridere agli accadimenti, perché, se non altro, sono proprio diventata un po’ zen, saggia come una santona, come un rabbino, un prete, un imam, un guru, uno psicologo ma di quelli bravi. Ho imparato a lasciar andare, mi sono accorta di non poter afferrare ciò che non c’è. Ho imparato che non si guarisce da ciò che ci manca. Ci si adatta e basta.

IMG_5938– Come vivi i tuoi rapporti con le persone che ti stanno a cuore?

– Sono anaffettiva nel senso che faccio fatica a mostrare i miei sentimenti, ma sono iper-sentimentale e super-affettuosa al mio interno. Spero traspaia in qualche modo. Probabilmente è un’eredità paterna che non ho saputo combattere, anche soffrendone molto, consapevole di quanto mi abbia bloccata nei rapporti umani.  Mi dicono (soprattutto ora) che sono una buona ascoltatrice, accogliente e accudente. Mi da gioia poter essere di aiuto, anche se non richiesta.

– Hai trovato solidarietà tra le donne?

– Buona parte del libro è dedicata alle donne, alle mie due preziose amiche storiche e all’ esercito di quelle nuove, alla  scoperta di un universo femminile di cui non potrei più fare a meno, così come dell’ascolto disinteressato, del supporto reciproco, della certezza che di la dal filo c’è qualcuno che tiene a te.  Mi sono aggrappata al mondo femminile anche perché di uomini non ne ho più visti.

Come è ora il tuo rapporto con gli uomini?

– I maschi (qualche corteggiatore ce l’avrei pure ) ora mi mettono a disagio, come quando ero adolescente e temevo di non sapermi comportare correttamente, di illuderli o deluderli. Provo, ormai sessantottenne, sensazioni di insicurezze antiche. Buffo. Ora sto bene così: chiusa in una sorta di vedovanza, ma con l’amore assoluto del mio bambino-uomo, con l’affetto e la presenza delle mie amiche, con la mia mamma, incredibile moderna donna di novantacinque, che non si limita a guardarmi negli occhi quando parlo. Lei mi vede, mi scruta. Lei sa chi sono, lei mi scopre e la sua ironia spiazzante mi aiuta ad alleggerire il peso di quello che devo affrontare. Sono una figlia accudente, ma ancora ben accudita.

– Cosa vuoi dire alle donne tue coetanee che sono in crisi con il loro compagno?

Nella mia novella saggezza, mi ritrovo spesso a dare consigli alle mogli in crisi ed è incredibile come io sia diventata il punto di riferimento di signore inquiete che mi interpellano senza neppure conoscermi. Mi pare di insegnare “prevenzione” come si fa coi cancri. Perché adesso conosco il know how, so come si fa.
Per le coppie ageè: non fate gli errori che ho fatto io, non credete che i giochi siano fatti e non ci sia più nulla da fare, che non si possa recuperare la complicità perduta. La terapia di coppia, che io ho ostinatamente rifiutato, aiuta. Fatevi aiutare, siate aperti ai cambiamenti. Per poterlo fare a volte servono degli scossoni perché spesso il meglio di noi va tirato su dal fondo in cui si è depositato negli anni, ma c’è. La sotto c è qualcosa di buono: se nelle movenze, nelle parole, nei gesti di vostro marito trovate un qualcosa che vi commuove un po’, sappiate che quello è amore, anche se forse di questa parolina magica si è perso il significato.

E a quelle più giovani?

Per le giovani spose: non lasciate mai il lavoro! Il lavoro è la vostra identità, voi siete quello che fate, qualsiasi cosa sia, non solo quello che siete. Il lavoro, l’obbligo di uscire, vestirvi bene, farvi belle, confrontarvi coi colleghi,  produrre, vi salverà dai momenti bui che prima o poi arrivano. Sarete mogli migliori se avrete cose interessanti da raccontare ai vostri mariti (sempre che vi ascoltino) e madri eccellenti se potrete pagarvi una tata che vi dia i turni nella cura dei bebè. Tenete duro, non mollate!

– Il tuo romanzo termina con un’ immagine finale molto particolare per te: riesci finalmente a superare i tuoi attacchi di panico e a viaggiare in aereo. Questa esperienza è anche simbolicamente l’espressione di una ritrovata libertà?

– Sì, dopo qualche anno sono riuscita a vincere la paura di volare: il libro termina con il mio ritorno da New York e l’immagine di mio figlio che mi accoglie all’aeroporto. Il messaggio che ho voluto dare era per il mio ragazzone, ormai uomo, che tanto aveva sofferto insieme a me e tanto si angosciava vedendomi fragile e spaventata. Gli ho voluto dire che non avevo più bisogno di lui, che era libero perché io stavo finalmente bene e mi sentivo forte e sicura al punto che se lui avesse dovuto andarsene da Milano per lavoro, ero solo felice e sarei andata a trovarlo senza fatica, ora che prendevo aerei come niente fosse.  Volevo non sentisse sul collo il peso di una madre anziana, insomma. Ora mi sono data una calmata, le giornate trascorrono serene senza troppi impegni se non occuparmi del quotidiano e delle cose di famiglia. Sono tornata ad essere me stessa, ma molto differente da quella che ero nella vita del prima. La terapia del tempo cura tutte le ferite, come si dice, certo che quelle ricevute in età avanzata fanno più fatica a rimarginare.
Ma ce l’ho fatta.

– Altri libri in progetto?

– Pubblicare NON ADESSO è stata una meravigliosa salvifica avventura, ma ne ho pagato costi emozionali  altissimi. Ne è valsa la pena. Continuo a scrivere racconti autobiografici (solo quello so fare, non avendo fantasia) ma li tengo per me. Non sono una scrittrice, sono solo una donna che è riuscita a sopravvivere con la scrittura, magica terapia.

Grazie Emma, la tua testimonianza è preziosissima per tutte le donne che temono di non farcela. Spero che tu riesca a renderti conto della tua “eccellenza”!


 

 

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Cinque domande a Giuseppina Norcia

Giuseppina Norcia, autrice di Siracusa. Dizionario sentimentale di una città, risponde ad alcune domande della redazione di VandA.

Siracusa è la tua terra. C’è un luogo specifico della città che più di altri preferisci, o a cui sei legata da ricordi particolari?
Di Siracusa amo molto la luce, quella bellezza accecante in cui si incontrano i colori del cielo e la roccia bianca che è la parte corporea della città, dei suoi templi e dei palazzi antichi, delle cave di pietra e delle grotte marine che d’estate visito spesso, nuotando. Lì abitano ancora gli dèi…
Il posto che più di ogni altro sintetizza questa magia è il Teatro greco, il mio luogo dell’anima da sempre. È un luogo del pensiero e del sentimento, il posto del “primo appuntamento” con la persona che amo, la fonte d’ispirazione di tanti progetti.
Vorrei scrivere una storia ambientata proprio lì, è già nella mia testa.

La passione per il mondo classico e il teatro: da quando ti accompagna e come si è alimentata?
Credo che il primo incontro risalga ai racconti di mio padre, appassionato narratore dell’Odissea, la grande “storia seriale” della mia infanzia. Quando avevo dodici anni, poi, mia zia mi portò con sé a vedere una tragedia di Euripide al Teatro greco: ricordo Elena Zareschi, sublime, maestosa; la dignità e la potenza del gesto, della parola.
Fu una folgorazione. Non sapevo ancora che la drammaturgia antica sarebbe divenuta materia di studio e successivamente di lavoro come autrice e divulgatrice culturale, ma in realtà queste emozioni tracciavano in segreto la via che avrei percorso.
Quella per la cultura classica è una passione che cresce e si rinnova. La sfida sta nel coglierne la vitalità, la relazione con i luoghi e con il sentire dell’uomo di oggi.
Credo fermamente che il Mito sia “Arte contemporanea”, che possa svelarci la misteriosa trama della vita.

Hai una tragedia e/o un personaggio mitologico preferito?
Sono molti, a volte variano quasi rispondendo alle esigenze del momento o delle mie trasformazioni. Oggi tra gli dèi sceglierei Atena, per la profondità della sua intelligenza, la ricerca dell’equilibrio frammista al coraggio e alla potenza nel combattimento. È la dea di Atene, che “conquista” il cuore della sua gente con un dono speciale: l’albero dell’ulivo. Mi piace pensare che il grande albero del Mediterraneo provenga proprio dalle mani della dea!
Tra gli eroi scelgo Achille, personaggio a cui ho dedicato anni di studio e scrittura. Simone Weil, in un libro di rara intensità, definisce L’Iliade “il poema della forza”.
Percorrendo i passi di Achille, anche oltre l’Iliade, tuttavia vedo altro, la forza ma anche una fragilità quasi struggente, l’ambizione congiunta ad un incontenibile desiderio di amare. In lui si contendono il dominio l’ombra della morte e una straordinaria vitalità.
Come un acrobata Achille volteggia tra contraddizioni insolubili, e questo fa di lui un personaggio indimenticabile.

Il tuo libro I racconti del loto (VandA ePublishing, 2015) si ispira alle parabole della tradizione buddhista. Come nasce questo tuo legame con il buddhismo?
Pratico il buddhismo di Nichiren Daishonin da 17 anni. È una religione ed un insegnamento filosofico in cui mi sono subito sentita a casa, come fosse il ricordo di qualcosa che conoscevo già. In questa grande “palestra spirituale” ho imparato la dignità della vita, l’importanza del coraggio e dei tesori del cuore, l’immenso potenziale che abbiamo di trasformare le sofferenze e i limiti in esperienze di grande valore.
Questo senso di speranza, questa ricerca della felicità è la sorgente e l’anima de I Racconti del loto.
I personaggi di queste storie sono eroi che lottano con se stessi: devono vincere la paura e la sfiducia per scoprire che il seme della vittoria e della sconfitta risiede sempre nel nostro cuore. Uno di loro, il generale Li Kuang, riesce a trafiggere una roccia con una semplice freccia grazie al potere della determinazione e della fede. Quando dubita, però, le cose vanno diversamente, pur nelle stesse circostanze.
È ciò che accade costantemente nella nostra vita. Anche per questo, I Racconti del loto è un libro a cui tengo particolarmente, che mantiene lo stupore dei bambini ma parla a persone di ogni età.

Infine, tradizione buddhista e cultura classica hanno elementi in comune o sono mondi separati?
Aristotele diceva che lo scopo della vita, e dunque della filosofia, è la felicità. Il Sutra del Loto definisce la felicità “il desiderio che esiste da sempre in fondo al cuore”. Questa ricerca è forse l’elemento in comune più significativo, quello che tengo come punto saldo nella mia vita e nel mio lavoro. Di certo i conflitti e le sofferenze non sono sempre evitabili, ma nella visione buddhista sono “trasformabili” al punto da divenire rimedi e alleati, proprio come un antidoto contiene una piccola parte di veleno. Anche questo aspetto ci riporta al Mito: non a caso Pegaso, il cavallo alato cavalcato dagli eroi, nasce dal collo decapitato della Gorgone.
Il “mostro”, dunque, può generare un cavallo alato!
Il buddhismo, con la sua visione profonda della vita, mi ha dato una chiave in più per comprendere e trasmettere la cultura umanistica. “Conosci te stesso”, dice il celebre motto delfico che ispirò Socrate, in perfetta aderenza con la visione buddhista.
È proprio così. Tutto comincia dalla rivoluzione umana di un singolo individuo. Allora si può cambiare il mondo.

Giuseppina Norcia è nata a Siracusa nel 1973. Ama la musica, il mare, la buona cucina e i racconti intorno al fuoco. Da anni si occupa di divulgazione culturale, con particolare riferimento al teatro antico, alla cultura classica e alle sue “persistenze” nella contemporaneità. Ha realizzato progetti didattici con università italiane e straniere e ha lavorato per oltre dieci anni presso la Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Negli ultimi anni ha tenuto corsi di drammaturgia antica e coordinato laboratori per ragazzi sul teatro classico, la lingua italiana e la trasformazione creativa dei conflitti. È autrice di contributi, di taglio sia scientifico sia divulgativo, relativi alla storia di Siracusa e alla messinscena contemporanea della tragedia greca, pubblicati su riviste specializzate (tra cui Dioniso), e di articoli sulla filosofia e sulla religione buddhista. Con VandA ha pubblicato Siracusa. Dizionario sentimentale di una città (2014), tradotto anche in inglese e in francese, e I racconti del loto (2015).

 

 

 

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Cinque domande alle fondatrici di VandA

Giulia, Egle, Silvia e Silvia – il team di VandA – giovani donne che vorrebbero intraprende una carriera nel mondo dell’editoria, hanno rivolto alcune domande alle tre donne che nel 2013 hanno fondato la casa editrice: Silvia Brena, Angela Di Luciano, Vicki Satlow. Scopriamo insieme a loro cosa significa essere editore indipendente al giorno d’oggi.

L’editore indipendente: lo fareste di nuovo? Che cosa consigliate alle giovani donne che vorrebbero affrontare una simile impresa?

Silvia – L’avventura di VandA è ed è stata entusiasmante. Seguire la nascita di un libro dalla progettazione all’uscita è come vedere idee, storie e sogni prendere corpo. E poi VandA è una vera “impresa” al femminile: noi donne siamo organizzate e disorganizzate, perfezioniste ma estemporanee, disciplinate e indisciplinatissime. Un’avventura quotidiana!
Angela – Sì, lo farei ancora, le nevrosi sono difficili da guarire. Francamente, considerando le risorse con cui siamo partite, penso che abbiamo fatto il meglio e trovato un business model funzionante, quindi, stando così le cose, non cambierei niente. Ma potendo, cambierei il budget… Al cuor non si comanda!
Vicki – Ripeterei l’avventura di VandA mille volte, magari la prossima con un investitore… Un consiglio alle giovani donne: imbarcatevi in avventure di questo genere solo con cari amici, è un viaggio gratificante ma molto duro.

Tre parole per descrivere VandA ePublishing:

Silvia – Curiosa. Puntigliosa. Coraggiosa.
Angela – Tenace. Coraggiosa. Scanzonata, un’amazzone bambina.
Vicki – Anarchica. Creativa. Audace.

Si parla di un ritorno del femminismo con manifestazioni in tutto il mondo. Dando uno sguardo ai titoli in catalogo, sembrerebbe che VandA si sia caratterizzata nel tempo per un impegno programmatico di sensibilizzazione sulle tematiche del femminile e del materno. Era questo il vostro obiettivo?

Silvia – Il punto di vista delle donne in questi tempi difficili è fondamentale. Per esempio, il pensiero di Genevieve Vaughan sull’economia del dono, di cui VandA ha pubblicato gli scritti principali, rappresenta un’inedita e, secondo me, efficacissima sintesi per ripensare l’economia ai tempi in cui l’1% dei ricchi al mondo è più ricco del restante 99%. Quindi sì, credo che il pensiero delle donne abbia trovato forza e originalità.
Angela – Sì, anche se non dichiarato. Siamo tutte donne e più o meno femministe, e chiaramente è stato il nostro punto di vista fin dall’inizio. Il punto di vista delle donne è fondamentale come approccio politico, sociale, culturale e quindi editoriale. Questa è stata la sfida più importante di VandA e penso che siamo riuscite a dare un vero contributo in questo senso. Sul femminismo attuale nutro qualche perplessità: bene che Christian Dior produca magliette con la scritta “We should all be feminists”, sacrosanto. Ma se le rappresentanti di questo femminismo sono Beyoncé e Sheryl Sanderberg…
Vicki – Non coscientemente, come ogni attività VandA riflette il carattere e la passione di chi la dirige: tre donne con idee chiare, responsabilità civili e sociali. È evidente, io credo, che ogni attività debba essere svolta con passione: senza impegno non ci sono possibilità di riuscita.

A quattro anni di distanza come reputate il percorso di VandA, rispetto alle aspettative iniziali? Credete ancora nella formula dell’ebook? 

Silvia – Un cammino faticoso, ma ricco di spunti e soddisfazioni. E l’editoria digitale resta una delle grandi opportunità per gli autori e gli editori.
Angela – Non è stato un successo ma neppure un fallimento. Ritengo che VandA sia una realtà interessante nel panorama editoriale, non ancora incisiva, ma con un chiaro posizionamento e un lodevole lavoro di ricerca. Al di là di qualsiasi evidenza, ci credo ancora!
Vicki – Fare l’editore è più difficile e il mercato è più povero di quanto potessimo immaginarci quando abbiamo cominciato. Io credo nelle storie e nella lettura in tutte le sue forme.

Infine, qual è l’ultimo libro che avete amato e quale l’ultimo odiato?

Silvia – Oddio, come fa un editore a odiare un libro? Dico un libro che ho amato molto: L’uomo di fiducia, di Herman Melville. Ha qualche annetto, ma  – come sa fare la buona letteratura – è visionario, perché in pieno Ottocento ha saputo spiegare il carattere dell’americano medio bianco… Come dire: ecco perché si è arrivati a Trump!
Angela – Ultimo amato La scuola cattolica di Edoardo Abbinati. L’ultimo odiato? Sono tanti. Uno per tutti l’ultimo di Saviano.
Vicki – Non si può provare odio per un libro, può mancare la connessione, si può non essere d’accordo. L’odio è un concetto che va molto di moda, oggi, ma non ci si può riferire con odio a un’opera d’arte. L’ultimo libro che ho amato? Il Miracolo dell’Acqua, di Masaru Emoto.

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Sicilia, il triangolo bello


di Alessandro Cannavò, (Corriere della Sera, 10 marzo 2017)


– Eschilo, padre della tragedia greca, decise di finire i suoi giorni qui, sospeso tra la storia e il mito. Archeologia, barocco e natura: venite a scoprirle con il «Corriere».

 

Eschilo è qui. Te lo immagini passeggiare nell’isola di Ortigia, tra il tempio di Athena e quello di Apollo; oppure nel ruolo di regista al Teatro Greco. Sì, perchè il grande drammaturgo che combatté nella battaglia di ;aratona vinta dai Greci contro i Persiani, venne a Siracusa (poi finì i suoi giorni a Gela), dove realizzò due tragedie appositamente concepite per una delle platee archeologiche oggi meglio conservate. È da questa cavea che parte il nostro viaggio nella Sicilia Sud Orientale, il triangolo estremo dell’Europa. Nei giorni del tour proposto dal Corriere andrà in scena I sette contro Tebe al festival del dramma antico. Lo scontro etico, politico, familiare dei fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo, ci ribalta addosso, come accade sempre nella tragedia greca, dilemmi attualissimi.

Il mito come fuoco che alimenta da sempre le pietre, i colori, gli umori di questa città siciliana. Ce lo spiegherà la scrittrice e divulgatrice culturale Giuseppina Norcia che a Siracusa ha dedicato una «biografia» affascinante, giocata tutta sulla contrapposizione tra luce e buio. La luce abbagliante del sole e della pietra calcarea, il buio delle latomie (le cave di pietra) e delle catacombe, le più estese dopo quelle di Roma. L’ingresso nella cattedralecon la splendida facciata barocca che domina una singolare piazza a mezzzaluna, è da brivido. Le possenti colonne doriche del tempio di Athena sono la struttura portante dell’edificio cristiano. Dimentichiamo per un attimo guerre e distruzioni: l’arte e la fede di epoche diverse qui si abbracciano in una fusione miracolosa. E, giurano i siracusani, la patrona santa Lucia ( di cui in cattedrale non si conserva il corpo ma solo un prezioso simulacro) discende da Antigone.

Sono un siciliano etneo trapiantato al nord ma che ha scelto di farsi adottare (mi trovo in una sempre più nutrita compagnia) da questo lembo di terra. Provo la rabbia per un’isola vittima del suo malgoverno, delle tante cifre umilianti che la pongono spesso agli ultimi posti delle classifiche nazionali ed europee. ma proprio per questo cerco di impegnarmi nel far conoscere le persone di qualità, comunque numerose, che qui brillano più che altrove. Il viaggio si snoda, così lungo una serie di incontri. E sul filo della narrazione: da sempre il modo più congeniale per raccontarsi, dalla tragedia antica all’opera dei pupi.

È un affabulatore della natura il botanico Paolo Uccello che ci condurrà a Pantalica, nella più vasta necropoli rupestre d’Europa a picco sullo spettacolare canyon del fiume Anapo, e nella riserva costiera di Vendicari, dove la storia della vecchia tonnara si intreccia con lo spettacolo delle formazioni di volatili migratori. Uccello è un profondo conoscitore dell’uso delle piante nella medicina popolare e arricchisce le sue spiegazioni di proverbi e pregiere dialettali. Noto è a due passi e vedendola da lontano, come una stampa settecentesca, vengono in mente le parole di Vincenzo Consolo ne Le pietre di Pantalica in cui lo scrittore spiega la smania, a ogni suo ritorno in sicilia, di esplorare posti e incontrare persone come «un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca».

Nel «giardino di pietra» barocco (così la definì lo storico e critico d’arte Cesare Brandi) un artista della pasticceria, Corrado Assenza, titolare del caffè Sicilia, ci ricorderà i sapori della ricotta col miele della nonna e ci svelerà l’alchimia della maionese al pistacchio e l’arte della granita.

Nel campo dei sapori è illuminante la scelta di Simone Sabaini, emigrante al contrario: verenose che lavorava nella finanza e che in un’inversione di vita «a U» ha deciso di trasferirsi a Modica per fondare l’azienda di cioccolato Sabadì: tradizione antichissima locale unita a un’idea di commercio del cacao equo e solidale nella scenografica città che Gesualdo Bufalino definì in Argo il Cieco «un paese in figura di melagrana spaccata».

Ma siamo già nel Ragusano e dunque in odor di Camilleri e di Commissario Montalbano. Gli scenari sono quelli di Ragusa Ibla e di Scicli. Elio Vittorini ne La città nel mondo descrive ques’ultima «festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e di scampanii» e la paragona a Gerusalmme. Lo storico Gaetano Falla ci svelerà la vita delle grandi famiglie in uno degli edifici più noti, Palazzo Spadaro.

E la Sicilia interna dei muretti a secco che scandisce il tragitto verso Piazza Armerina per ammirare gli splendidi mosaici romani della Villa del Casale; e poi a Caltagirone, la capitale della ceramica, dove un artista di fama internazionale come Giacomo Alessi, ci mostrerà la sua ricerca verso nuove forme contemporanee. Il finale è al Monastero dei Benedettini a Catania, il più grande d’Europa, dove il barocco si confronta in un corpo a corpo con la lava e trova un arbitro impeccabile nell’intervento architettonico contemporaneo del progettista Giancarlo De Carlo. La visita al complesso è affidata a Officine Culturali, un caso di successo tra imprese giovanili. La cultura come fonte di sviluppo. Proprio quello di cui ha un bisogno urgente, vitale, la Sicilia.


 

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Marco Voleri, “Dobbiamo rallentare per poter vivere la nostra vita con pienezza”


(Libreriamo, 18 febbraio 2017)


– E se potessimo rivivere la nostra vita al contrario senza poter cambiare nulla di quello che abbiamo fatto? Di questo parla Marco Voleri…

E se potessimo rivivere la nostra vita al contrario, da oggi al giorno della nostra nascita, senza poter cambiare nulla di quello che abbiamo fatto? Cosa proveremmo? Scopriremmo qualcosa di nuovo? Quale valore assumerebbero gli eventi? Ci renderemmo forse conto di esserci persi qualcosa lungo il nostro percorso? Di questo parla “Senza di te il treno non parte” (VandA), il secondo libro di Marco Voleri, tenore professionista già autore dell’autobiografia “Sintomi di felicità“, nella quale ha raccontato la sua reazione alla sclerosi multipla che l’ha colpito. Abbiamo intervistato l’autore. Ecco cosa ci ha raccontato.

“Senza di te il treno non parte” è in qualche modo un elogio della lentezza. Perché dovremmo rallentare? Cosa ci guadagnamo?

Più che un elogio  alla lentezza trovo che il romanzo sia una riflessione sulla consapevolezza dei momenti di vita vissuti a pieno, a metà o semplicemente non vissuti, bypassati in una modalità frenetica di vivere, senza gustare di fatto tutto quello che la vita quotidianamente ci offre. Un po’ la differenza tra vivere e sopravvivere. Se per lentezza si intende la possibilità di vivere in pienezza la vita, scorgerne colori ed odori senza passarci in mezzo come fossimo, appunto, un treno… allora sì, il guadagno in questo caso risiede proprio nel rallentare, consapevolmente. Per dirla alla Mogol “rallentare per poi accelerare, con un ritmo fluente di vita nel cuore”.

Qual è la cosa più importante che Francesco scopre ripercorrendo a ritroso la sua vita?

Il valore di attimi di vita “sopravvissuti”. Il Francesco quarantenne impara spesso da quello che lo ha preceduto. Si trova frequentemente in mezzo a un ripasso dei sentimenti. Come dire: se prima non aveva minimamente dato peso a una parte della vita vissuta, adesso le priorità diventano proprio i gesti dimenticati, le frasi scritte su un biglietto di auguri, le parole non dette, sostituite spesso da un sorriso di circostanza. Il suo evidenziatore mentale ha sottolineato, nel viaggio fantastico che stava facendo, proprio quei paragrafi di vita che aveva attraversato distratto, con sufficienza. E tutto, come per magia, è più bello rispetto al viaggio d’andata.

Francesco, il protagonista, è come lei un musicista. Cos’ha di speciale il linguaggio della musica?

La musica, semplicemente, esiste per parlare di ciò di cui la parola non può parlare. Questo non lo dico io, ma lo scrittore e saggista francese Pascal Quignard. Concordo pienamente con questa prospettiva. Quante volte, in vita vostra, vi siete trovati ad ascoltare alla radio, durante un viaggio, un brano che vi ha immediatamente catapultato l’anima in un momento intenso vissuto? Una specialità del linguaggio della musica è certamente questa. Non è l’unica, sia chiaro. Francesco si separa raramente dal suo violoncello, che è di fatto un prolungamento fisico della sua anima.

Quali scenari apre la possibilità di rivivere il passato, diversamente a livello emotivo? Che poi è quello che racconta il romanzo…

Sicuramente lo scenario della nave rompighiaccio. Francesco, in un determinato momento del racconto, si trova a navigare “nel mare gelato di emozioni ibernate, volutamente non vissute, a volte neanche scorte. E adesso come per miracolo liberate, come una grande emorragia di sentimenti veri.” E’ di fatto costretto a fare i conti con emozioni passate e volutamente non vissute nel viaggio di andata. Era faticoso affrontarle, all’andata,  e comportava una grossa messa in discussione di se stesso. Ma qualcuno, di fatto, gli ci ha fatto sbattere il naso.

Il lettore arriva all’ultima pagina e chiude il libro. Cosa spera che gli sia rimasto dalla lettura?

La stesura di questo romanzo è nata osservando le persone. Per strada, al supermercato, in metro, ovunque. Mi sono chiesto, un bel giorno, quante emozioni non vissute ci potessero essere nella vita frenetica di tutti i giorni, e ho sognato ad occhi aperti quanto sarebbe fantastico poterle rivivere. Spero che al lettore possa rimanere l’avida voglia di vivere e non sopravvivere, nemmeno per un giorno, un’ora o un minuto della sua vita.


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Il rivoluzionario Tolstoj contro la pazzia moderna


di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 12 febbraio 2017)


– Fioccano in libreria rarità e inediti dell’ultima fase del grande scrittore russo o a lui dedicati. Tra i titoli più interessanti la lettura politica offerta da Lenin e la stroncatura di Shakespeare.

La situazione è grosso modo questa: Shakespeare non è abbastanza cristiano per Tolstoj e Tolstoj non è abbastanza rivoluzionario per Lenin. A dispetto delle apparenze, però, la simmetria è tutt’altro che perfetta. Lenin è disposto ad ammettere la grandezza artistica di Tolstoj, pur continuando a denunciarne la debolezza politica. Nell’interpretazione di Tolstoj, al contrario, di Shakespeare non si salva nulla, tanto meno la sbandierata reputazione poetica che – secondo l’autore di Risurrezione – sarebbe il risultato di un’allucinazione collettiva tanto imponente da sconfinare nel complotto.

Non c’è che dire, l’intreccio dei titoli che si rincorrono in questi giorni nelle librerie italiane è abbastanza vertiginoso, ma non per questo meno istruttivo riguardo alla singolarità di quello che, a oltre un secolo di distanza, viene ancora da definire “il caso Tolstoj”. Il romanziere prodigioso che rinnega la letteratura, salvo continuare a servirsene per una più alta finalità morale. Ma prima ancora il convertito che, nel suo desiderio di attingere alle ragioni del cristianesimo più autentico, finisce per fondare suo malgrado (“a sua insaputa”, si sarebbe tentati di dire, se l’espressione non suonasse irriverente) una religione a sé stante, il famoso e a tratti famigerato “tolstoismo”. Ce n’è di che ragionare e leggere, anche soltanto limitandosi alle uscite delle ultime settimane.

Che comprendono, oltre alla scelta di testi Sulla pazzia del nostro tempo e del mezzo per rinsavire di cui si occupa Giorgio Agnisola in questa pagina, le riproposte di uno scritto sotto ogni aspetto decisivo come Che fare, dunque? (traduzione di Flavia Sigona, Fazi, pagine 246, euro 20,00) e di un pamphlet finora abbastanza maltrattato dall’editoria italiana, ovvero Su Shakespeare e il dramma (a cura di Roberto Coaloa, Libreria Utopia, pagine 140, euro 17,00). Fin qui siamo sul versante della riscoperta delle opere di Tolstoj, un ambito al quale appartengono anche la ripresa del manifesto vegetariano Contro la caccia e il mangiar carne (a cura di Gloria Gazzeri, VandA, pagine 66, disponibile in ebook o nei negozi on line) e l’edizione commentata della tardiva e oggi attualissima novella Denaro falso (a cura di Dario Pontuale, con un saggio di Leone Ginzburg, Ianieri, pagine 208, euro 10,00).

Senza dimenticare che l’anno da poco concluso ci ha portato una nuova importante versione del capolavoro Anna Karenina, allestita da Claudia Zonghetti per Einaudi (pagine 962, euro 28,00). Bene, e Lenin? Composti tra il 1908 e il 1911 – a ridosso, cioè, della morte del conte Lev Nicolaevic, avvenuta nel 1910 all’età di 82 anni – gli Scritti su Tolstoj del leader bolscevico arrivano ora in Italia grazie alla mediazione di Roberto Peverelli, che ne introduce la raccolta per Medusa (traduzione di Luana Salvarani, pagine 80, euro 9,50). Piccolo libro, d’accordo, ma che aiuta a mettere ordine fra Tolstoj e il tolstoismo, avanzando una critica che, in modo tutt’altro che imprevedibile, trae spunto dalla stessa filosofia della Storia su cui si basa la visione espressa in Guerra e pace.

Così come non sono i condottieri a vincere le battaglie, ma gli anonimi soldati che compongono gli eserciti, per Lenin il merito principale di Tolstoj sta nell’essersi fatto portavoce delle istanze di rinnovamento susseguitesi in Russia tra l’abolizione della servitù della gleba nel 1861 e la fallita rivoluzione del 1905. Laddove si allinea alle necessità del popolo, Tolstoj rasenta la genialità. Fallisce miseramente, invece, quando pretende di ricondurre alla dimensione religiosa un sommovimento che, secondo Lenin, non può essere risolto se non attraverso il rigore del materialismo storico. Proprio su questo punto Tolstoj avrebbe avuto di che obiettare.

Il tumultuoso ragionamento di Che fare, dunque? (apparso nel 1886, il saggio mutua il titolo da un romanzo di Nikolaj Cernyševskij poi riecheggiato dallo stesso Lenin) non lascia spazio all’equivoco: o la trasformazione sarà spirituale, oppure non sarà. Prima ancora che dalla rilettura dei Vangeli, l’intuizione proviene dalle conversazioni con il contadino Sjutaev, la cui frequentazione fu determinante per le convinzioni dell’ultimo Tolstoj. Se la scena iniziale di Che fare, dunque? ci mostra lo scrittore turbato dalla scoperta della miseria urbana (ma su questo, forse, gli sarebbero potuti essere d’ammaestramento già i romanzi del rivale Dostoevskij), l’approdo finale consiste nella condivisione della fatica nei campi, in una prospettiva per cui l’ascesi personale si trasforma in riscatto collettivo. In più di un’occasione la polemica tolstojana contro la divisione del lavoro rimanda davvero alle osservazioni di Marx, ma non meno insistita è la rivendicazione del carattere radicalmente religioso dell’auspicata palingenesi. Per Tolstoj tutto dovrà tornare a risplendere alla luce di una fede autentica, capace di far nuovamente corrispondere, «come una chiave e la sua serratura», la rappresentazione artistica e la pietà popolare.

Al di là di ogni altra considerazione, infatti, il fastidio di cui sono testimonianza le pagine di Su Shakespeare e il dramma (pubblicato nel 1906, all’apice del tolstoismo) deriva dalla sostanziale empietà che Tolstoj si persuade di ravvisare nella produzione di quello che, per lui, è poco più di un abile capocomico elisabettiano. Giudizio straordinariamente ingiusto, che si spinge a negare qualsiasi intenzione etica al teatro di Shakespeare e a sminuirne in maniera programmatica i meriti artistici. Eppure ci sono casi – e questo è uno – in cui anche un partito preso può rivelarsi illuminante. Non per il partito, si capisce, ma per chi lo prende. In fondo Tolstoj, che fu lo Shakespeare del romanzo, con chi sarebbe mai dovuto entrare in conflitto, se non con Shakespeare in persona?


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«Senza di te il treno non parte», il nuovo romanzo a ritroso di Marco Voleri


di Ilaria Liberatore (La Stampa, 23 gennaio 2017)


– È uscito per VandA.ePublishing il nuovo libro del tenore livornese, che per la prima volta si dà alla fiction.

Francesco ha appena compiuto 40 anni e conduce una vita normale, come quella di tanti suoi coetanei, dividendosi tra il lavoro di violoncellista e le sbronze con gli amici di sempre. Una mattina, mentre si fa la barba, gli si presenta uno sconosciuto che gli dà un aut aut: morire il giorno dopo o ripercorrere la sua vita all’indietro, come uno spettatore, senza poter cambiare niente del passato. Non è uno scherzo architettato da amici «simpaticoni», e Francesco sceglie la seconda opzione. Sfortuna o opportunità? Sta al lettore scoprirlo, scorrendo le pagine di «Senza di te il treno non parte» (VandA.ePublishing), il nuovo romanzo di Marco Voleri, tenore livornese di fama internazionale (ha appena concluso la tournée lombarda della «Turandot» del M° Carlo Goldstein).

Ma chi ha già letto il suo primo libro, «Sintomi di felicità» (Sperling & Kupfer, 2013), sa già che lo aspetta un viaggio entusiasmante attraverso i piccoli e preziosi piaceri (e non solo) della vita, un percorso in cui, per dirla con Johnatan Safran Foer, «ogni cosa è illuminata».
Se l’autobiografico «Sintomi di felicità», «diario di bordo di un cantante lirico alle prese con la sclerosi multipla, una malattia imprevedibile e dannatamente seria», raccontava l’atteggiamento positivo e incoraggiante di Voleri verso la malattia (una forza nutrita anche e soprattutto dalla musica), in «Senza di te il treno non parte», si assiste a un’avventura unica: Francesco andrà al funerale del nonno per rivederlo il giorno successivo e vivere ogni attimo con lui con nuova intensità. Riscoprirà i primi baci, i dolori, l’intensità di amicizie poi perdute nel tempo, momenti che nemmeno ricordava e altri che non avrebbe voluto rivivere, fino a ritornare nel grembo materno.
«Sono due lavori completamente diversi – spiega a La Stampa Voleri -. «Sintomi di felicità» ha avuto il grande pregio di essere diretto, di riuscire a far ridere e piangere nello stesso momento. Questo è ciò che ho capito dalle recensioni e le tante persone che lo hanno letto. «Senza di te il treno non parte» è un romanzo che vuole far tuffare il lettore in una storia che potrebbe essere la sua in tutto e per tutto. Il treno giusto è lì che aspetta al binario, e non parte senza di te».
La sfida di raccontare una storia a ritroso è già stata colta in passato, da molti giganti della letteratura: pensiamo al Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald (reso celebre nel 2008 dal meraviglioso film di David Fincher), o a «Tradimenti», di Harold Pinter.
Ma il romanzo di Voleri, che sottolinea, «non ha nulla di autobiografico», non è ispirato a questi modelli: «L’idea è nata semplicemente osservando quante emozioni non vissute ci sono nella vita frenetica di tutti i giorni, e pensando a quanto sarebbe fantastico poterle rivivere, con maggiore consapevolezza, e succhiarne l’intero nettare».
E ammette: «Scrivendo, a volte, ho invidiato Francesco. In particolare mi piacerebbe rivivere la mia adolescenza, una stagione della vita in cui le emozioni si annusano avidamente e trasudano spesso in modo trasparente».

«Senza di te il treno non parte» è disponibile in versione sia ebook (9.90 euro) che cartacea (14 euro) su www.mondadoristore.it. I diritti dei libri di Marco Voleri contribuiscono a finanziare l’associazione di cui è presidente, Sintomi di Felicità, (www.sintomidifelicita.it), che dal 2013 promuove progetti di sensibilizzazione riguardo alla sclerosi multipla. L’associazione organizza, inoltre, il «Sintomi di Felicità tour», una serie di concerti in giro per l’Italia con musica e grandi artisti, che partirà da Roma il 9 aprile prossimo.


 

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«La pietra e la luce fanno Siracusa una città-scultura»


di Annalisa Stancanelli (La Sicilia, 28 dicembre 2016)


– Interrompiamo il lavoro di Giuseppina Norcia mentre è alle prese con la fase finale di un romanzo a cui ha lavorato intensamente negli ultimi 3 anni e che attinge a un “grande mito” ma di cui non vuole svelare nulla.

Interrompiamo il lavoro di Giuseppina Norcia mentre è alle prese con la fase finale di un romanzo a cui ha lavorato intensamente negli ultimi 3 anni e che attinge a un “grande mito” ma di cui non vuole svelare nulla.

Che senso ha la scrittura nella sua vita? Quale la molla che la spinge a narrare? «È una forza irresistibile, non governabile. Penso spesso al grande mito di Sherazade che ne Le mille e una notte narra storie per salvare la sua città, ma anche per curare il cuore malato del suo re. E così facendo salva se stessa. Credo che la letteratura abbia un grande potere salvifico, ma non può farlo se non in una dimensione di costruzione armonica e di piacere in cui alla fine di ogni storia desideriamo sentirne un’altra». 

Immaginava il successo del suo libro “Siracusa, dizionario sentimentale di una città”? «Era un mio desiderio, perché a quel libro ho dedicato ben 7 anni, densi di studio, emozioni, viaggi sentimentali tra i segreti di questa città, ma il successo che ha avuto ha superato ogni mia aspettativa. Il dono più grande è stato sentire quanto il dizionario abbia toccato il cuore delle persone; qualcuno lo ha definito un compagno di viaggio, o una cura per l’anima, dando un immenso significato agli sforzi che la scrittura ha richiesto».

Quale la soddisfazione più grande? «Non saprei ascriverla a un episodio in particolare. Posso dire che ogni volta che un conflitto “muta colore” trasformandosi in occasione di dialogo, che ritrovo lo stupore, che vedo cadere il muro di un pregiudizio, di uno stereotipo, provo una grande gioia. A ciò mi dedico tramite la mia vita personale ma anche con il mio lavoro, con i laboratori sulla tragedia e sulla trasformazione creativa dei conflitti che svolgo con i bambini e adolescenti, e tramite gli incontri con le persone, nelle scuole, a teatro, nelle piazze. Spesso è proprio da lì, dalle domande, dagli sguardi che si accendono durante un racconto che traggo l’ispirazione».

Cosa vuol dire narrare la storia di Siracusa? «Il rapporto con la storia di Siracusa segue proprio questo andamento creativo, piuttosto lineare. Di Siracusa amo la stratificazione, la luce la pietra così facile da scavare che la rende quasi una città-scultura, la sua vocazione a essere un immenso scrigno di storie».

I suoi percorsi di studio come hanno segnato la sua vita? «Non sono mai riuscita a scindere i percorsi di studio dalla vita stessa. È piuttosto l’intimo intreccio tra le 2 ad aver tracciato il percorso. Ad esempio, sulla letteratura ho imparato molto dai librai, figure preziose e irrinunciabili. Nessun supermercato del libro, per quanto ben fornito, potrà essere paragonato a un librario che ama i libri, che li consiglia, li presenta come amici cari o quasi li prescrive, come una terapia. Certo, poi ci sono le lezioni, o i docenti indimenticabili».

C’è una relazione tra cultura e felicità? «Assolutamente sì! Il Sutra del Loto – il meraviglioso insegnamento su cui si basa la pratica buddista che ho abbraccciato 17 anni fa – parla della felicità come “del desiderio che esiste da sempre in fondo al cuore”. Ogni istante di vita ha un potenziale infinito, sta a ognuno di noi riconoscerne l’immenso valore e realizzare la missione che lo rende unico».

Quali filosofi dovrebbero conoscere tutti e perché? «Personalmente amo molto Platone, i suoi dialoghi quasi teatrali, la sua capacità di creare i miti, l’immagine indimenticabile che ci trasmette del suo maestro Socrate. Credo che la relazione maestro-discepolo sia una delle più nobili, un tesoro inestimabile. Per questo dedico sempre le mie vittorie al mio maestro Daisaku Ikeda, filosofo, maestro buddista, costruttore di pace, che è per me costante fonte di ispirazione».

Qual è il mito che la emoziona di più? Oggi i miti hanno un senso? «Sono intensamente legata ad Antigone, un personaggio che torna ciclicamente nella mia vita, spesso in momenti importanti. Il mito attinge alla sorgenete della vita, quindi ha una forza inesauribile che lo rende insieme antico e contemporaneo. Il grande studioso Kàroly Kerényi lo definiva un tessuto senza orli, rendendo perfettamente la sua natura magica e labirintica. Il mito è sempre stato nella mia vita, da quando mio padre mi raccontava l’Odissea, come un cantastorie, spesso agganciando le storie a luoghi di grande fascino, come il nostro mare, o l’Etna. E a mia volta amo raccontarlo sia agli adulti sia ai ragazzi, tramite il raccontarlo sia agli adulti sia ai ragazzi, tramite il racconto orale o con la scrittura, come nel libro L’Isola dei miti. Anche il romanzo che ho appena finito attinge a un grande mito, per scavare nei grandi temi del destino, della vita e della morte, dell’eroismo. Delle ragioni, se ve ne siano, per cui può scoppiare un aguerra. Trovo che il racconto mitico sia uno specchio straordinario con cui narrare la contemporaneità. Tra le storie poco note mi appassiona moltissimo la vicenda di Achile a Sciro,tramandata, nei suoi particolari, dal poeta latino Stazio. Secondo questa versione dl mito, Teti avrebbe cercato di salvare suo figlio dalla guerra di Troia nascondendolo nell’isola di Sciro, travestito da donna per non farlo partire. Una versione completamente diversa dal grande guerriero omerico, ma altrettanto affascinante. Dopotutto Achille è un figlio del mare, proteiforme come sua madre…».

Il teatro classico: il suo ruolo oggi e che peso ha avuto nella sua vita? «Il teatro classcio è vita e passione. Ricordo ancora la prima volta che ho assistito a una rappresentazione classica al teatro greco di Siracusa: era il 1986 e mettevano in scena Le Supplici di Euripide, con il titolo Le Madri. Ricordo Elena Zareschi, quelle voci potenti di madri che piangono i figli morti in guerra, il silenzio religioso degli spettatori nella cavea, la presenza complice e affettuosa di mia zia Patrizia che mi aveva portata con sè a quel rito iniziatico. Fu una folgorazione. Per me il Dramma Antico è sempre la casa in cui tornare, una fonte di ispirazione, di studio e di passione. Credo che il suo ruolo oggi sia fondamentale, per la profondità di pensiero e la bellezza di cui è portatore, ma abbiamo la responsabilità di tutelarlo, non indulgendo a logiche di puro intrattenimento, nè al contrario chiudendolo di nuovo nella torre d’avorio in cui è stato segregato per secoli».

Quali opere non mancano nella sua biblioteca? «I tragici, l’epica, i lirici greci sono i miei preferiti. devo molto alla Yourcenar, a Gesualdo Bufalino, a Italo Calvino. Ho amato molto Ariosto, la sua ironia, non potrei rinunciare a Montale e a Ungaretti, o a quel sogno di Grecia che è Ritsos».

Quale il suo rapporto con la città e i siracusani? «È un rapporto dinamico, in costante evoluzione. Lo vivo con un’intensità quasi assoluta, come fossi cittadina di una polis antica, eppure ho trascorso, e potrei trascorrere, molti anni altrove. Molti capitoli del libro che ho dedicato a questa città sono stai scritti in anni difficili, in cui, pur vivendoci, mi sentivo quasi in esilio. È stat un’esperienza preziosa, perchè anzichè fuggire da Siracusa ho desiderato attingerealla sua luce, come chi cerchi l’acqua nel deserto. E alla fine l’ho trovata. A ogni passo sentivo che cambiavo qualcosa di me stessa e dunque della relazione con il luogo. il punto di svolta è stato riuscire asentirmi libera dai consensi, dall’opinione degli altri».

Com’è vista Siracusa dagli stranieri? «Qualche volta rimango a osservarli, ammiro lo sguardo sognante ed estatico dei viaggiatori, ma anche la libertà con cui vivono questo luogo molti stranieri, quando vi si trasferiscono. Ne amano la storia, la stratificazione, qualche volta vivono con una punta di esotismo le nostre tradizioni e proprio in virtù di ciò ci aiutano a non dimenticarle, a rivitalizzarle. Grazie a miei amici e studenti statunitensi ho imparato molto sul fascino che esercitano i luoghi del mito e sula possibilità di giocare, nel senso più alto, con la tradizione classica».

Quale musica la fa pensare a Teatro Greco? «Al trameno mi fa pensare a un adagio di Mozart, nei mezzogiorni assolati sento un suono di flauti e timpani, in certi giorni liquidi di primavera pensopiuttosto alle melodie di Satie o di Debussy».

Nel corso dei suoi incontri letterari quali storie hanno riscontrato più attenzione? «A suscitare attenzione non sono in genere le storie in sè ma il modo in cui le raccontiamo».

Giuseppina Norcia ha 43 anni, è sposata, ama la cucina, il mare e anche i racconti intorno al fuoco. Si definirebbe un’entusiasta della vita. Eclettica e dinamica è impegnata su diversi fronti, forse perchè ama il nomadismo culturale – ha detto – la possibilità di confrontarsi con persone ma anche ambienti diversi. Da qualche anno tiene corsi di drammaturgia antica nell’Accademia d’Arte del Dramma Antico: si tratta di un laboratorio basato sul dialogo, una fucina di idee in cui, con i suoi allievi-attori, esplora e “interroga” le opere dei grandi tragici. Da qualche giorno ha anche intrapreso un progetto di divulgazione e valorizazione del meraviglioso patrimonio culturale di Siracusa.


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15 Dicembre – Quando l’affido diventa una favola, il libro di Agnese Bizzarri


(L’eco di Parma) 13 dicembre 2016


– Favole scritte da Agnese Bizzarri e illustrate da Margherita Braga, che raccontano l’esperienza dell’affido ai più piccoli e toccano il cuore anche dei grandi.

L’affido può diventare una storia favolosa. Lo racconta il libro “12 case, tanti pianeti. L’affido familiare in giocose storie che sarà presentato giovedì 15 dicembre alle 19, al Circolo Famija Pramsana, in viale Vittoria 4, a Parma.

Favole scritte da Agnese Bizzarri e illustrate da Margherita Braga, che raccontano l’esperienza dell’affido ai più piccoli e toccano il cuore anche dei grandi. Parlano di accoglienza, solidarietà, benessere delle famiglie e della comunità, temi importanti e complessi che qui diventano immediati e alla portata di tutti. Sarà l’autrice a presentare il volume, insieme all’attrice Irene Valota che leggerà alcune favole.

La serata, rivolta a tutti e in particolare ai bambini e alle famiglie, sarà l’occasione per ascoltare le storie, condividere qualche pensiero sull’affido familiare e conoscere più approfonditamente i progetti e le iniziative presenti sul territorio provinciale, realizzate dalle Equipe Affido dei diversi Servizi, attualmente riunite nel Coordinamento provinciale affido e accoglienza.

Il libro nasce nell’ambito di “A braccia aperte”, la campagna di informazione e sensibilizzazione della Regione Emilia Romagna, in collaborazione con Forum Solidarietà Provincia di Parma.

Agnese Bizzarri, laureata in Filosofia, si occupa di progetti educativi e culturali. Per il sito Che Forte.it cura la rubrica “I miti spiegati ai bambini”. Per Fondazione Milano ha realizzato e gestito iniziative legate all’infanzia, in collaborazione con Fondazione Cariplo e Università degli Studi di Milano Bicocca. Nel 2013 ha scritto il libro Quante Storie… (Edizioni C’era una volta), ora ripubblicato da VandA.ePublishing con quattro storie inedite.


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Dinosauri e poltrone volanti per vincere la paura del dentista


di Enrico Gotti (Gazzetta di Parma, 28 novembre 2016)


– Nel libro della Bizzarri dieci favole a colori per fare superare ai bimbi le fobie.

Nascono in Oltretorrente, fra il Parco Ducale e il torrente Parma, storie fantastiche per far superare ai bambini fobie e paure, favole a colori per parlare di temi importanti.
Qui abita Agnese Bizzarri, autrice del libro «Dentisti, dinosauri e altre strane creature», edito da Vanda, che sarà presto distribuito gratuitamente in tutte le scuole materne e elementari di Parma, grazie al finanziamento di Fondazione Cariparma e al patrocinio del Comune.
Il piccolo volume è realizzato da Agnese insieme all’ortodontista parmigiana Sara Salvadori, che ha studiato alla New York University e vive e lavora a Parma, il professore Giampietro Farronato, dell’università di Milano, e l’artista parmigiana Margherita Braga, che ha curato le illustrazioni.
Si tratta di un progetto che non ha corrispettivi nel resto d’Italia, è la prima iniziativa scolastica ad hoc per far vincere la paura del dentista in modo originale, con denti parlanti e poltrone volanti, dinosauri e impronte preistoriche al posto dei calchi per l’apparecchio.
Il progetto vede la nostra città come pilota, ma l’obiettivo è di realizzarlo anche in altre regioni. Il libro è pensato per essere letto in classe, ed è formato da dieci favole, cinque contro la paura del dentista e altre cinque per la corretta alimentazione e la salute dei denti. Non è la prima volta che l’autrice utilizza creatività e fantasia per parlare di temi importanti ai bambini.

Laureata in filosofia all’università di Bologna, Agnese Bizzarri ha lavorato per anni con Fondazione Milano a progetti innovativi per l’infanzia, è stata coordinatrice del Ciofs (Centro italiano opere femminili salesiane) di Parma, nel 2013 ha scritto il libro «Quante storie» e nel 2015 l’e-book «C’era una volta… anzi no!», dove ci sono «giocose metafore» per dialogare con i figli in modo diverso, per parlare di temi difficili, con il linguaggio, la leggerezza e la fantasia dei bambini.
«Mi piace mettermi in contatto con il loro mondo immaginario. La scrittura e la lettura ricreano un rito antico per il bambino – spiega l’autrice -. Conrad diceva: “Si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra si deve occupare il lettore”. I bambini ci mettono sempre con la loro fantasia oltre la metà dello scritto!».
«Parlare di temi complessi è importante perché i bambini sono già piccoli filosofi. La domanda del filosofo è sempre infantile, chi interroga è bambino» dice Agnese, citando Paul Valery.


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«Utero in affitto? Doppio sopruso»


di Anna Maria Ferrari, (Gazzetta di Parma, 27 settembre 2016)


– Marina Terragni: «Si sfrutta una donna bisognosa e si sottopone il bambino a un’esperienza molto dura: essere separato dal corpo della madre. Il mercato irrompe in una relazione che è fondamento di umanità».

Capovolge il mondo, subito. E’ lo sguardo sottosopra, la foto alla rovescia. «Non ne usciamo da questa violenza sulle donne. Continuiamo ad esercitare psicologismi sugli uomini, invece è arrivato il momento di appoggiare lo sguardo dentro noi stesse. Di connetterci fortemente alla nostra differenza per trovare un linguaggio, un simbolico adeguato. Il modo in cui ne stiamo parlando non funziona. Per esempio: guardiamo sempre la violenza che subisce l’altra. Non partiamo mai da quella che viviamo noi: la svalutazione subdola, i gesti misogini. Ci è richiesto di essere ammortizzatori della rabbia maschile. Tutte sappiamo di che cosa sto parlando. Ma su questo tacciamo. E invece si dovrebbe partire di qui».

Testa pensante del nuovo femminismo, legata a quel laboratorio che è la libreria delle donne di via Dogana, a Milano, una delle prime blogger italiane: Marina Terragni, una donna fuori dal coro. Ha cominciato giovanissima a Radio popolare, poi il Corriere della sera, L’Europeo, Linus, Il Foglio, e anche un po’ di tv. Scrittrice: l’ultima fatica è il pamphlet «Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli» (Vanda edizioni, eBook o ordinabile in cartaceo). 100 pagine di coraggio e idee da leggere tutte d’un fiato sulla maternità surrogata, che ci porta dritto a «una nuova forma di patriarcato» e nasce dall’antichissima «invidia dell’utero».

Un atto di accusa senza ideologismi che non è piaciuto a parte del mondo Lgbt, il movimento omosessuale e transessuale. Di sé dice: «Sono milanese: nata qui ma anche un po’ calabrese, americana, tedesca. Meticcia». Casa morbida, accogliente: libri, ricordi, foto, divani. Sguardo assertivo: si ferma, pensa, torna sempre al punto. E’ una pioniera della differenza sessuale: «Non c’è quasi più nessuna donna che voglia prendersi la briga di essere donna. La questione è la libertà di stare al mondo da donne, come soggetti che, per dirla in modo un po’ più complicato, non sono costrette a tagliare con se stesse e a mettersi a guerreggiare con gli uomini. Il rischio? Perdere se stesse».

Una donna amica delle donne, le parli e senti lo stesso modo di guardare il mondo. Si prende cura: «Sei venuta fino a Milano per intervistarmi? Beh, dopo vai a farti un giro, ti faccio vedere dov’è Lenno, lago di Como. Noi siano qui, Lenno è là, secondo me è molto bello, a Ossuccio c’è uno stupendo campanile romanico». Il lavoro e la vita: non solo autorità e controllo, ma ascolto, energia che corre, passione. Occhi di donna. Cerca le immagini sull’iPad, ti accudisce, mentre mostra il balcone di casa.

Violenza alle donne: un caso al giorno. A Parma Elisa Pavarani, 39 anni, è stata accoltellata dall’ex fidanzato: voleva lasciarlo.

«Anche solo il fatto che una donna voglia separarsi, può scatenare violenza. L’addio è diventato rischioso. Lasci il compagno e non sai come andrà a finire. E’ necessario proteggersi. Gli uomini dipendono da noi ma vivono un delirio di onnipotenza: l’indipendenza per noi è una disposizione naturale, ma per loro può essere devastante. Il delitto è l’estremo, ma tutte sperimentiamo la violenza e il dominio ogni giorno nei rapporti con l’altro sesso. Sappiamo di essere il terreno su cui si esercitano il disagio e la fragilità maschile. Il gesto incivile, lo sfogo rabbioso, la volontà di dominio. Eroghiamo lavoro di welfare anche su questo, contenendo la rabbia degli uomini. Parlarne a partire da noi, da quello che sperimentiamo, e non sempre dall’altra, aiuta a trovare un linguaggio, un simbolico efficace. La strada della consapevolezza passa di qui».

Abbiamo delle leggi che ci tutelano, eppure quelle che non denunciano la violenza sono più del 90 per cento. Perché?

«Le leggi servono ma non bastano: spesso sono inapplicabili. A Milano, per esempio, la quasi totalità delle denunce viene archiviata senza alcun atto di indagine. Anche nella lotta alla violenza abbiamo assunto un linguaggio maschile: la denuncia, il codice rosa. Non funziona così. Quello che la stragrande maggioranza delle donne fa – o non fa, non denunciando – va ascoltato. Alla loro scelta va data dignità. Questa ambiguità femminile non è semplicemente debolezza, ma tentativo di resistere, tenace ricerca di mediazioni. Quello che stanno cercando di fare è non essere del tutto vittime, conservare la competenza su ciò che hanno vissuto. Ina Praetorius parla di competenza dell’esserci».

Nel silenzio e nella solitudine non si va da nessuna parte, anzi si può morire.

«Bisogna trovare le parole, un simbolico che ci consenta di uscire di parlare di violenza come di una questione politica, e non più come di una sventura privata. Il contratto sessuale si è rotto, il patriarcato sta finendo: questo è il fatto politico. Noi continuiamo a consolare l’altra, e non diamo a questo fatto la dignità di un enorme fatto politico. Il grande seminario di Diotima quest’anno è dedicato al tema della violenza, ne parleranno le filosofe e sono molto contenta: si proverà a volare alto. La differenza sessuale va rimessa al centro. La crisi è pesata soprattutto sulle donne. Non solo e non tanto in termini di posti di lavoro, ma soprattutto come crisi di ritorno: tagli ai servizi, figli senza lavoro, mariti esodati con il loro disagio e la loro rabbia».

Abbiamo fatti enormi passi avanti. Anche nelle istituzioni, nei lavori che erano degli uomini, nella polis, là dove c’è il potere degli uomini.

«Siamo nello spazio pubblico. La vittoria di Hillary sarebbe un grande passo. Però penso che non basti. Dobbiamo trovare portare nella polis il nostro sguardo. Un esempio: sono stata per un anno e mezzo nella direzione nazionale Pd, ero convinta di trovare le altre, per me è naturale e indispensabile fare riferimento alle donne. Non le ho trovate, non ha funzionato».

Qual è allora il modo femminile di stare nel mondo?

«Adottare nello spazio pubblico i criteri che abbiamo da sempre usato nel cosiddetto privato. Portare i nostri modi, le nostre agende, le nostre priorità: l’attenzione all’altro, centralità della relazione. E farlo stando in dialogo con le altre. Ci vuole almeno un’altra donna con te, se vuoi combinare qualcosa. Un’altra che ti riporti costantemente alla genealogia materna. Diversamente non ce la fai».

Cosa pensa della polemica sul burkini? Giusto vietarlo?

«Credo che sia sbagliato pensare di vietare il burkini per legge. Il desiderio di liberarsene deve essere della donna che lo indossa: se glielo strappi non cambi nulla. Non puoi costringere una donna a essere libera e a esserlo secondo i tuoi criteri di libertà. Ovviamente quando si parla di infibulazione, di tutela dei corpi, di salute, leggi impositive sono necessarie. Ma la libertà obbligatoria non porta da nessuna parte: io posso solo esserci, lì accanto a lei, offrire i miei modelli, autorizzarla e accompagnarla nel suo percorso di liberazione. Il punto è sempre quello: ritrovare la differenza e giocarla nel mondo. Dentro le case, la nostra differenza era usata come una catena. Fuori dalle case, ci è stato chiesto di essere come gli uomini, rinunciando alla differenza sessuale».

Maschilismo. Nel saggio “Un gioco da ragazze” ha scritto che “una volta un uomo intelligente mi ha detto che l’essenza della virilità nell’esercizio del controllo sul caos minaccioso: ma quello che la cultura maschile legge come un disordine da controllare è semplicemente un altro ordine”.

«Il dominio dell’altro sesso sul sesso femminile è un artificio, quindi è continuamente minacciato. E’ un’impalcatura che rischia sempre di crollare e va costantemente riaffermata. Il fatto che qualcuna abbia cominciato a dire no ha incrinato la monumentale costruzione del patriarcato. Dalle crepe si è cominciata a vedere la finzione, il rovesciamento. L’invidia verso la potenza materna. Si sta smontando un sistema millenario con tutti i paradigmi che ne sono derivati: l’idea corrente di economia, i dispositivi politici, i modelli di convivenza. Tutto sta andando in pezzi. E noi, con i nostri gesti di libertà, siamo una minaccia evidente. La violenza contro le donne si radica qui».

Amore, maternità. Cosa hanno voluto dire nella sua vita?

Ho un figlio di 27 anni, vive solo qui a Milano. Nel rapporto con la maternità la mia generazione si è giocata molto. Sono rimasta incinta a 31 anni. All’inizio è stato conflittuale, ero una di quelle donne che rifiutavano la maternità come destino. Ero un ometto, pensavo di cavarmela negando il mio essere donna. L’esperienza della gravidanza e della maternità mi ha molto cambiato, come capita quasi a tutte. Non sei più il centro del mondo. Anche i padri spesso sperimentano questa secondarietà rispetto ai figli, ma per le donne è qualcos’altro: è lo spostamento del baricentro fuori di noi. La rottura dei limiti fittizi dell’individuo. Capisci che l’unità di misura è il due, non l’uno: cioè la relazione».

Cosa direbbe alle ragazze di oggi, che vivono la parità come un risultato acquisito?

«Non mi sembrano del tutto consapevoli. D’accordo, le “vecchie” lo hanno sempre detto delle “giovani”. Ma loro sono veramente convinte che tutto andrà liscio: con gli uomini, sul lavoro. Quand’è che vanno a sbattere? Quando vanno a convivere, e i loro compagni propongono modelli di relazione d’antan. Soprattutto con la maternità. Quando vedono i colleghi che fanno carriera, mentre loro, a parità di competenze, si sentono dire: “Mica vorrai fare figli!”. I costi della maternità incidono in modo irrisorio sui bilanci aziendali, questione di zero virgola. La questione è un’altra: non puoi volere sommare il potere maschile alla potenza materna? Ancora una questione di simbolico. Le ragazze pensano che la vita scorra via senza inciampi e quando c’è lo sgambetto, non hanno gli strumenti per capire. Noi li abbiamo costruiti».

L’ultimo libro, «Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli», ha suscitato infinite polemiche. Soprattutto da parte della sinistra e del mondo omosessuale.

«Gli insulti, pesantissimi, sono via via diminuiti, il processo di normalizzazione della Gpa sembra in stand by: solo pochi mesi fa, mentre scrivevo, la Gpa si presentava come un modo “normale” di avere figli. Era dato come un diritto acquisito e intoccabile. Adesso si è capito che c’è un problema. Sono soddisfatta di questo».

Uno degli argomenti di chi sostiene l’utero in affitto è quello del dono: si dice, la donna compie un gesto generoso verso chi non riesce o non può avere un figlio.

«Dove non ci sono soldi non c’è dono: ormai non provano nemmeno più a raccontarla, questa balla colossale. Insopportabile poi l’idea misogina della donna generosa fino all’abnegazione. Passa molto dolore in tutto questo, si fa mercato di una relazione intima come quella tra madre e figlio. Le gestanti non sono contenitori, sono le madri, quelle che i bambini riconoscono come madri. Spesso il loro terribile destino è imposto dalla violenza del marito, del padre, del fratello. Ma in primo piano va tenuta la creatura. Se neghi i superiori diritti del minore è la fine del mondo».

Ha scritto che il senso del limite lo mettiamo volentieri in funzione quando si tratta di sfruttamento delle risorse. Ma nel caso di fecondazione assistita e Gpa l’idea di darsi un limite è intesa come conservatorismo ottuso e omofobico.

«Il libro è stato sontuosamente recensito, ma quasi nulla sui media di sinistra. Anche se moltissimi a sinistra sono contrari alla Gpa. Ma c’è paura di uscire allo scoperto, si teme di essere giudicati antimoderni e contro i “diritti”. Mi aspetto che si parli sempre secondo coscienza, si discuta con verità, oltre le appartenenze. Non si tratta solo di sfruttamento del corpo delle donne, e del fatto che il bambino viene sottoposto per contratto a un’esperienza molto dura, la separazione dal corpo della madre: improvvisamente tutte le consapevolezze sulla psicologia infantile, sul rapporto madre-figlio, sembrano svanite. Il punto vero è che facciamo irrompere il mercato in una relazione, quella tra madre e figlio, che è fondamento di civiltà e di umanità. Lo facciamo burocraticamente, con un contratto, trasformando la riproduzione in produzione. E’ lo scippo della relazione madre-figlio, il sogno maschile originario: appropriarsi della potenza materna».

Gli uomini li amiamo. Come si fa?

«Ho fiducia nel fatto che se gli uomini troveranno il modo di essere uomini fuori dalla logica del dominio e dalle certezze dell’ordine patriarcale, se riusciranno a non mettersi più al centro e a riconoscere la loro differenza, la nostra civiltà avrà davvero svoltato. Saremo nel terzo tempo, il tempo del due. Noi donne cosa dobbiamo fare per dare loro una mano? Semplicemente essere donne».

Temporary mother

di Marina Terragni

Vanda, pag. 100, euro 10,00.


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“Non possiamo assolutamente vendere i bambini che mettiamo al mondo”


di Luca Manes (La presenza di Maria, settembre 2016)


– Marina Terragni, giornalista e scrittrice, una delle voci più autorevoli e originali del pensiero femminile, ha scritto un libro per denunciare i pericoli della mentalità dell’utero in affitto. Un cammino, il suo, che nasce “per passione civile”. Come ci ha spiegato in questa conversazione. “Basta guardare l’immagine di Maria, per capire che andare a strappare il bambino dalle Sue braccia è una delle operazioni più violente che si possa concepire”.

Ogni anno migliaia di bambini nascono grazie alla pratica della maternità surrogata: più di duemila solo negli Stati Uniti, con un incremento annuo del duecento per cento. Un vero e proprio mercato in espansione a livello globale, nel quale le donne divengono oggetto di sfruttamento e il frutto del loro corpo, il figlio, oggetto in vendita. Diventa così possibile comprare quei figli che non ci è consentito avere. Basta pagare. È giusto? Perché una donna dovrebbe concedersi a una simile pratica?

Si può fare del proprio corpo quello che si vuole? Cosa significa essere una madre “surrogata”? Abbiamo affrontato la questione con Marina Terragni, milanese, opinionista e conduttrice radio e tv. Tra le prime blogger italiane, ha scritto per molte testate, fra cui “Io Donna”, “Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Panorama Mese”. È autrice di Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (VandA ePublishing), un pamphlet che analizza a trecentosessanta gradi l’argomento della surrogazione di maternità.

Come è nata in lei l’idea di scrivere un libro sul tema dell’utero in affitto? Un po’ per questioni biogra­fiche intime, un po’ perché sono stata testimone di almeno un paio di esperienze di surrogati. Mi sono sempre interessata a tutte queste tecniche di fecondazione assistita e negli ultimi anni ho messo gli occhi su questa faccenda, che è l’ultima evoluzione della tecnoscienza. Dopodiché la cosa è esplosa all’attenzione generale e allora ho messo insieme quelle riflessioni che avevo fatto in questi anni, continuando a pensarci. Il libro nasce per passione civile. Credo che quando si vanno a toccare i con­fini tra la nascita, la vita e la morte, ogni leggerezza e ogni ideologia vadano bandite. Tocchiamo i fondamentali della civiltà umana.

Quali sono gli elementi per cui lei critica questa pratica? Il fatto che sull’abbraccio tra la madre e il ­figlio si fonda la nostra civiltà. Anche quella precristiana nasce dalla presa d’atto di questo legame sacro e inviolabile in cui l’amore raggiunge la sua forma più alta, la sua perfezione. Poi basta guardare l’immagine di Maria, ricordarsi di che cosa signi­fica quell’e gie, per capire che andare a strappare il bambino dalle Sue braccia è una delle operazioni più violente che si possa concepire.

Secondo lei è possibile per la donatrice di utero sottrarsi alla relazione con la creatura che mette al mondo? È possibile, nel senso che alcune persone lo fanno. È un’azione che si può realizzare praticamente. Ma che fare questo porti alla nostra specie un sovrappiù di felicità, questa è una cosa da discutere. Evidentemente alcune persone ritengono di poterlo fare. Bisognerebbe svolgere un’indagine attenta su queste madri surrogate, interrogarle a fondo. Naturalmente non sto parlando di quelle povere donne del mondo che vengono messe sul mercato dai loro parenti, mariti, fratelli e padri. Diciamo che, se parliamo di una donna occidentale, con una situazione economica non disastrosa, c’è questa apparenza di libertà dentro la quale bisognerebbe andare a guardare attentamente. È comunque un gesto auto-violento. La gravidanza è un processo impegnativo per il corpo di una donna, rischioso. Quindi mi sembra davvero strano che oggi una donna in piena libertà non consideri almeno questi aspetti della questione. Ci devono essere sicuramente delle forti motivazioni per farlo e queste sono praticamente sempre di carattere economico, anche per quelle donne che non sono indotte dalla fame, dalle necessità materiali. Solo per casi rarissimi, si possono contare sulle dita di una mano, si può parlare di gravidanze solidali.

Si è generato un vero e proprio mercato attorno al fenomeno delle madri surrogate? Sì, certo. In una situazione ideale in cui non ci fosse questa preponderanza del mercato in ogni fatto umano, forse questa sarebbe una pratica concepibile. Il problema è che su centocinquanta mila euro che possono andare in California a una surrogata, in tasca a lei ne andranno venticinque. Tutto il resto è sfruttamento.

Perché non si può fare del proprio corpo quello che si vuole? Intanto ci sono delle leggi italiane ed europee che parlano d’indisponibilità del proprio corpo. È ammesso un suo uso solidale, cioè posso donare un rene anche a uno sconosciuto, posso donare il sangue, ma non posso fare mercato dei miei organi. Ma la cosa più importante è che in questo caso, a differenza della donazione di organi, c’è un terzo che andrebbe tenuto per primo, ed è la creatura che nasce. Posso anche pensare di fare di me quello che mi pare, ma il frutto del mio corpo, ovvero il bambino, non è mio. Nessuno di noi può fare commercio dei propri figli e quindi non si vede perché in questa situazione bisognerebbe ammettere un’eccezione. Non possiamo assolutamente vendere i bambini che mettiamo al mondo.

Come si è arrivati a questa cultura del possesso, per cui la donna è una cosa che può essere sfruttata e comprata? La cultura del possesso del corpo femminile è antica e millenaria. I corpi femminili facevano parte delle risorse materiali di un mondo governato dagli uomini, un atteggiamento tipico di una società di tipo patriarcale. Nel corso della storia, però, c’è stato un moto di liberazione da parte delle donne, che hanno ritenuto di poter decidere che cosa fare di se stesse e del proprio corpo, del proprio io. Questa di oggi mi sembra che sia una brutale fuga all’indietro, un ritorno al pensiero delle donne da considerarsi come risorsa materiale. Del resto abbiamo molti esempi oggi di ritorno all’indietro.

È un momento difficile per la libertà femminile. Da dove si riparte? Dal non aver paura di dire la verità. Sono convinta che la stragrande maggioranza dei cittadini europei sia contraria alla surrogazione. Tuttavia è solo una minoranza che parla contro la surrogazione. Ci sono persone che non si pronunciano perché non vogliono rogne, non è moderno esprimersi su un tema del genere, si teme di offendere i diritti delle coppie gay… Ma occorre attivare la propria coscienza davanti a ogni prova della vita, dalle più piccole alle più grandi, e ri­fiutare le formule preconfezionate di qualunque pensiero unico. C’è da fare una grande lotta contro il conformismo.


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Femministe contrarie all’utero in affitto. Ma non si deve dire


di Claudio Risè, (Il Giornale, 22 agosto 2016)


– La sinistra nasconde i dubbi sulla maternità surrogata. In due libri le ragioni del “no”.

Nello stanco scenario della tarda modernità c’è un solo mercato in continuo sviluppo, che garantisca da subito utili a doppia e tripla cifra, anche con investimenti relativamente bassi. Per avviare l’attività basta infatti un sito internet per raccogliere gli ordini e un bi/trilocale dove consegnare la «merce».

Si tratta del tile della maternità surrogata o sotto quello, più tecnico e misterioso, della gestazione per altri, GPA.
Per spianare la strada al mercato (un giro d’affari globale di 10 miliardi di dollari, in fortissima espansione) si è cercato di presentarlo come una conquista delle donne, appoggiata dal mondo femminista. Ma non è così. Si era già visto in Francia, dove la campagna contro l’utero in affitto è stata guidata con grande forza argomentativa dal Sylviane Agacinski, femminista e filosofa (anche moglie dell’ex primo ministro socialista Lionel Jospin), che ripete da anni: «La madre surrogata è la nuova schiava. Ma la sua schiavitù è mascherata dal progresso tecnologico». Donne (anche gruppi omosessuali) erano inoltre gran parte dei partecipanti (e leader) delle enormi Manif pour tous contro la legge della ministra Taubira, che legalizzava i matrimoni omosessuali e le nascite all’estero attraverso GPA.
L’avversione femminile all’utero in affitto, che potrebbe rendere più difficile la legalizzazione in Europa di questo nuovo e fiorente mercato, viene però nascosta nella politica e nei media (soprattutto a sinistra) dalla frettolosa promozione della maternità surrogata, lanciata con le parole chiave: progresso, realizzazione dei desideri, benessere delle donne.
Balle colossali, dicono ora anche in Italia due libri molto documentati sull’argomento. Quello, emozionato e assai caldo, della giornalista femminista Marina Terragni (Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli, Vanda epublishing) e quello più pacato della filosofa e esponente femminista Luisa Muraro (L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, Editrice La Scuola), che ha bruciato la prima edizione in poche settimane.
A indignare Terragni è, come lei dice con chiarezza, che nella GPA «si fa scomparire la madre per contratto in cambio di soldi, precostituendo quello che la creatura vivrà come un abbandono». A sparire sono poi addirittura entrambe le madri, quando gli ovuli impiantati nell’utero affittato vengono anch’essi comprati, da una donna diversa o da un maschio.
Cosa vuol dire poi «maternità surrogata», si chiedono sia Terragni che Muraro, e non per oziosa curiosità filologica. «Surrogato», risponde Terragni, vuole dire «al posto di». Si intende che «la gestante è solo una temporary mother in sostituzione della vera madre, che è la madre genetica (che ha fornito l’ovulo fecondato) o anche solo la madre intenzionale». L’eufemismo della maternità surrogata è dunque solo l’impossibile tentativo (puramente lessicale) di presentare «un ordine simbolico là dove si è creato un formidabile disordine». Muraro poi incalza: «Voi siete i surrogati»! Surrogati sono «quelli che sostituiscono la donna, madre della creatura». Quelli che «realizzano il loro desiderio, facendolo passare per esigenze che hanno creato loro stessi, separando la creatura da sua madre».
Nella realtà, sotto i diversi eufemismi, il grande rischio di questa separazione è di liquidare la maternità, sostituita dal mercato e dalle varie tecnologie riproduttive. E qui le femministe che sostengono il significato della differenza tra femminile e maschile, come appunto Terragni e Muraro, e le altre della Libreria delle donne di Milano e del gruppo Diotima di Verona (e altri) non ci stanno. Terragni protesta, da donna e femminista, contro l’attuale «sinistra trattativista e iperrealista, disponibile a sacrificare buona parte dei valori fondamentali» (e cita il rispetto della dignità umana, il rifiuto dello sfruttamento, l’opposizione alla deriva neoliberistica), «in cambio di sempre nuovi diritti». Le pagine sul dirittismo e le sue follie sono tra le più sferzanti e (pur nell’aspetto horror del quadro complessivo) anche divertenti, come quando cita il parere di una bioeticista, la quale sostiene un «diritto alla nascita» di un bambino neppure concepito, ma tuttavia programmabile con contratto di utero in affitto. Con vistosa contraddizione tra i diritti da riconoscere al bambino che non c’è, ma intanto negati all’embrione che già esiste.
È proprio quando, nota Terragni, il diritto si sostituisce alla relazione umana su temi come l’inizio della vita o la sua fine che «deflagra, e genera mostri», come appunto dove «stabilisce per legge che separare madre e figlio è ammissibile, e accettabile tutto ciò che è consentito dalle tecnologie riproduttive». Oggi, e non solo nelle questioni riproduttive, si è sviluppata, col supporto della retorica dei diritti umani, una potente alleanza fra tecnologia e mercato, che sta uccidendo la potenza generativa delle relazioni affettive, a partire dalla prima e più importante: quella madre-figlio. Ma «se salta la relazione materna», dice Lia Cigarini, fondatrice della Libreria delle donne di Milano, «la neutralizzazione della differenza sessuale è già avvenuta». E, completa Terragni, «se lasciamo slegare al mercato anche il legame tra madre e figlio, il mondo muore».
Una morte dovuta anche alla rimozione da parte di tutti (compresa buona parte delle istituzioni psicologiche) delle scoperte di psicoanalisi e psichiatria novecentesca, confermate poi dall’Infant Observation ed altre pratiche cliniche, su come nella relazione madre figlio «già durante la gestazione avvengono scambi decisivi che continuano dopo la nascita e fanno di quel bambino quello che sarà. È la relazione più intensa che sia dato sperimentare». Distruggerla è devastante.
La pericolosità dell’entrare nel campo riproduttivo con la logica della soddisfazione dei desideri attraverso la tecnologia è già dimostrata dalle ricerche (qui ricordate) di cui ha di recente riferito il British Medical Journal, che dimostrano come i bambini concepiti con la «fecondazione assistita» hanno più probabilità rispetto ai bambini concepiti naturalmente di soffrire di pressione alta, obesità, livelli di glucosio anormali e disfunzioni vascolari. La maternità surrogata poi, naturalmente, è attività ad altissimo rischio di gravi patologie psichiatriche sia per la madre che per il bambino, come avverte il qui citato psicoanalista Luciano Casolari nel suo blog sul Fatto quotidiano.
La logica dell’utero in affitto, però, è lontana dalla realtà dei fatti. Perché è quella dell’onnipotenza, del delirante «mito dell’autodeterminazione». I suoi principi sono altri. Riferisco, da Terragni: Scassare relazioni, per comprare relazioni. I figli che non possiamo avere possiamo comprarli, anzi, se li compriamo è meglio. Puoi comprare, ma anche venderti; il corpo è tuo, l’utero è tuo, c’è un – modesto – guadagno anche per te.
Una malpensante, un po’ anarchica, insomma, Marina Terragni. Chissà perché questo libro mi fa venire in mente un vecchio proverbio milanese: «A pensà màl sa fa pecat, ma se induina semper».


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Chiedereste a queste ragazze di affittarvi l’utero per 5mila euro?


di Marina Terragni (F, 27 luglio 2016)


– È la cifra che arriva alle ragazzine dei Paesi poveri (sempre che non finisca nelle mani di padri o mariti), mentre le organizzazioni che gestiscono il business si arricchiscono. Una giornalista ci spiega come funziona questa forma di schiavitù che qualcuno chiama gesto d’amore. E che trasforma la relazione tra una madre e il bambino che cresce nella sua pancia in un losco affare.

Il catalogo (online) è questo: povere ragazze cambogiane nel loro vestito della festa, abitini fiorati e tutine fluo, timidamente in posa su un fondale bianco. Un osceno mercato di piccole donne pronte a “surrogare” una maternità, più frequentemente costrette a farlo da mariti o fratelli papponi. E a prezzi stra-competitivi: solo 30mila dollari (contro una media di 150mila nelle supercliniche californiane), dei quali si calcola che a loro ne arrivino non più di 5mila. Sempre che non finiscano nelle mani dei familiari sfruttatori. Il plus offerto dall’agenzia Surrogacy Cambodia, tra gli ultimi arrivi nel colossale business dell’utero in affitto (un affare globale da almeno 3 miliardi di dollari con un enorme potenziale di crescita), è la possibilità di scegliere il sesso del nascituro: se vuoi un maschio, gli embrioni femmina si buttano via.

Figli come prodotti di lusso

Nei Paesi poveri l’unica ricchezza di cui disponi è il corpo. La vendita di un rene frutta fino a 250mila dollari: 5-10 mila al povero corpo mutilato, tutto il resto alla filiera criminale, la mafia della carne umana, i chirurghi compiacenti. Ma anche l’affitto di utero può fruttare un gruzzoletto analogo. E in apparenza senza danni permanenti, sempre che la gravidanza vada bene: solo un’insanabile ferita nell’anima di quella madre che non è una madre (e allora che cos’è?) e di quel figlio che non è un figlio, ma solo un prodotto di lusso. Se il traffico d’organi, almeno per ora, continua a suscitare scandalo e riprovazione, di fronte all’utero in affitto e al mercato dei figli le reazioni sono flebili. Il mainstream è possibilista.

La condanna del Parlamento Europeo

Che orrore, certo, gli abusi, le cliniche prigione con le gestanti detenute per nove mesi, le baby farm in Nigeria piene di ragazzine incinte che dopo il parto spariscono con le loro creature e non si sa che !ne fanno. Ma l’uso, invece, regolato da un contratto a cui la donna aderisce liberamente e con tutte quante le garanzie igienico-sanitarie, ebbene, perché no? Se in Paesi “civili” come la California e il Canada si può, perché non si dovrebbe poter fare anche da noi? È civile anche la Svezia, e lì il divieto è assoluto. Sono civili la Norvegia, la Danimarca, la Germania, la Spagna e la Francia: come da noi, l’utero in affitto non è ammesso. Al momento l’Europa tiene duro: il Parlamento Europeo condanna la pratica della surrogazione e la considera una questione “urgente” di diritti umani.

Un mercato potenziale sconfinato

Ma gli assalti della bio-lobby sono metodici e continuativi. Le agenzie di surrogacy organizzano i loro tour pubblicitari nel Vecchio Continente. Il mercato europeo è una sconfinata prateria, l’infertilità è in vertiginoso aumento e poi ci sono le coppie gay, naturalmente sterili. I soldi in ballo sono troppi. E se una donna decide in piena libertà di usare il proprio corpo come le pare, prestandosi per una gestazione conto terzi, perché mai uno Stato “etico” dovrebbe impedirglielo? «Il corpo è mio»: non era questo lo slogan principe del femminismo?

Nessuna lo fa gratis

La legge italiana ed europea parla di indisponibilità del corpo se non per un uso solidale e “samaritano”. Posso donare il sangue o un rene, ma non posso venderli. Posso anche condurre una gravidanza per altri (in alcuni casi i tribunali italiani l’hanno concesso) a patto che non vi sia passaggio di denaro. Il corpo è tuo, l’utero è tuo, ma il bambino che dai alla luce non è tuo. Non è un oggetto di tua proprietà e non puoi venderlo. Gli esseri umani non si vendono e non si comprano. «I !gli non si pagano», diceva Filumena Marturano. «Non si tratta di vendita, ma di un dono», è la risposta standard. Nessuna lo fa gratis, ma la strategia di marketing delle agenzie di surrogacy punta sulla retorica ipocrita delle “sante donatrici”. «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividono lo stesso obiettivo: donare la vita» (Artparenting, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri !gli il più puro atto di gentilezza» (Extraordinary Conceptions, California).

Dopo il parto il legame non si interrompe

Anche i committenti (coppie eterosessuali in otto casi su 10, per il resto coppie gay e maschi single) magnificano l’ “incantesimo d’amore”: così lo ha definito Nichi Vendola, padre da qualche mese via surrogazione. Una donna che offre i propri ovociti, un’altra disponibile alla gestazione per conto di perfetti sconosciuti che quasi sempre vivono dall’altra parte del pianeta. Ma i soldi sono il meno, giusto un “rimborso”. Ciò che conta è la gioia di aiutare gli altri. Straordinaria empatia che però, come da contratto, non deve assolutamente scattare nei confronti della creatura da cui ci si separerà subito dopo il parto. Per evitare il rischio che la gestante si attacchi al bambino, alcuni contratti prescrivono di non accarezzarsi il pancione. Ma, carezze e non carezze, per il piccolo che nasce quella è sua madre. La riconosce dalla voce, dall’odore, dal ritmo del cuore, dalla temperatura corporea. I legami epigenetici che si instaurano in quei nove mesi non si interrompono al momento del parto. La neonatologia insegna che la gravidanza prosegue fuori dal corpo per altri 2-3 anni, il tempo che serve al bambino per separarsi dalla madre. Ricordarlo, oggi, equivale a negare un diritto dato per acquisito. L’immagine di una donna che allatta è diventata istigazione all’omofobia.

Non facciamo del corpo una merce

Le femministe di tutto il mondo – le francesi di CoRP, le svedesi di Kajsa Ekis Ekman, le spagnole di No Somos Vasijas, le italiane di Se Non Ora Quando? e tutte le altre – non prendono di mira l’omogenitorialità e chiedono infatti che l’adozione venga aperta anche ai single e alle coppie di fatto. Il punto è un altro, ed è un punto decisivo per la civiltà umana: che del corpo-anima non si faccia merce, che l’invasività del mercato si fermi sulla soglia della relazione più intima che ci sia dato sperimentare, quella del figlio con la madre e della madre con il figlio. Una lotta che le donne stanno conducendo per il bene di tutte e tutti.

Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli, di Marina Terragni (VandA Epublishing. 5,99 euro), [è] un’inchiesta su un business planetario in espansione costante (attualmente negli Stati Uniti nascono più di duemila bimbi da uteri in affitto) nel quale le donne diventano mezzi di produzione e i bimbi merce in vendita.


 

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Ma utero in affitto non vuol dire libertà


di Paola Tavella (IoDonna, 23 luglio 2016)


– L’industria della surrogacy fattura tre miliardi e cresce del 200 per cento l’anno. Progresso? No, solo una nuova forma di sfruttamento. Marina Terragni lo denuncia in un libro di successo. Che fa discutere.

È significativo, secondo me, che la schiacciante maggioranza di giornaliste, studiose, attivisti dei diritti umani, femministe e lesbiche che si occupano da più di vent’anni anni di biopolitica e nuovi modi di nascere avversi lo sfruttamento commerciale della gravidanza e della produzione industriale di neonati destinati a coppie eterosessuali o omosessuali e maschi singoli di ogni orientamento (fenomeno in crescita). Uso le espressioni “sfruttamento” e “vendita” perché ritengo che espressioni neutre, edulcorate o “politicamente corrette” siano solo un astuto strumento del marketing dell’industria della surrogacy, che fattura ormai 3 miliardi e ha un tasso di crescita del 200 per cento l’anno.

Per orientarsi su questo difficilissimo tema va colmato innanzitutto un deficit di informazione, come ha fatto Marina Terragni mandando in libreria per Vanda Publishing un breve, fulminante testo, Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (si trova anche in ebook), di cui molti e molte – fra le altre Susanna Tamaro sul Corriere – hanno discusso in questo ultimo mese. Sull’utero in affitto, ha scritto per esempio la psicoanalista junghiana Costanza Jesurum, ognuna/o tende a reagire non in base alla brutale realtà ma al proprio vissuto nei confronti della propria madre o della propria maternità, perché l’argomento ha immensi contenuti archetipici, emotivi, simbolici. Il successo del libro di Marina Terragni è dovuto alla capacità dimettere ordine proprio in questo magma, intanto liberandosi dall’accusa che avversare la trasformazione delle donne in mezzi di produzione e dei figli in merce significhi schierarsi contro l’omogenitorialità maschile o il desiderio delle coppie sterili. Terragni è invece favorevolissima alla genitorialità gay ma difende un’ovvietà: il neonato non può fare ameno del corpo di sua madre, della sua origine, della sua storia umana. quando questo avviene per disgrazia cerchiamo di trovare rimedio, ma nella surrogacy il danno viene organizzato.

Così Terragni giudica un equivoco qualificare quella pro-surrogacy come una opinione di libertà, e quindi progressista.

La libertà, scrive, non va scambiata con una sorta di “dirittisimo”, come se desiderare un figlio equivalesse al diritto di comprarlo e scavalcare a suon di dollari i veri diritti, quelli scritti nella Dichiarazione dei Diritti Umani e dei fanciulli. Terragni racconta le condizioni atroci in cui le fabbriche di bambini costringono le fattrici in Nigeria, in India, in Nepal, in Ecuador, dove l’80 per cento di quelle che si prestano sono analfabete e non leggono il contratto. Ricchi occidentali pagano per trasferire in una donna di colore l’ovulo fecondato comprato da una donna dell’Est Europa o da una brillante studentessa americana che non riesce altrimenti a pagarsi gli studi, in modo che il figlio nasca bianco. anche in California o in Ucraina i contratti sono scritti per garantire i clienti, non certo la “lavoratrice” che accetta ogni sorta di prescrizione e restrizione, che può essere costretta a abortire, partorisce davanti ai clienti e non può toccare la figlia o il figlio, tanto che dopo la nascita molte vengono sedate di routine, per evitare incidenti. Alcune di queste donne dichiarano di volere aiutare le coppie sterili, oppure si sentono investite da una missione umanitaria – come se il denaro non c’entrasse. Così la mistica della maternità, l’oblatività, il sacrificio femminile vengono rimasticati e riproposti come strumento di propaganda per fare un sacco di soldi, e solo una minima parte va alle fattrici, il resto tocca a mediatori, agenzie, avvocati, medici. Allora, dice Terragni, chiedere l’abolizione universale dell’utero in affitto “non significa soltanto contrastare il nuovo feroce volto del patriarcato e il mercato che divora tutto, ma difendere un punto irrinunciabile di civiltà che ruota intorno al riconoscere e rispettare la differenza sessuale, il cuore della natura umana. Cancellare la maternità e la relazione fra madri e figli significa mettere indubbio tutta la nostra civiltà”.