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Io, figlia di madre difficile non vorrei essere nata dalla gestazione per altri


di Susanna Tamaro (Corriere della Sera, 5 luglio 2016)


– Il fondamento della vita è la genealogia. La storia di chi ci precede fa di noi persone. L’intervento di Susanna Tamaro.

Appena ho terminato la lettura del coraggioso e attualissimo pamphlet di Marina Terragni, Temporary mother (VandA ePublishing), mi è sorta spontanea una riflessione: come mai è stato accolto da un siderale silenzio? E subito è seguita una domanda: quanti sono i fondamentalismi del nostro tempo? Ce ne è uno macroscopico — quello religioso — che per le sue tragiche conseguenze è purtroppo noto a tutti. Ma non se ne annidano forse altri intorno a noi, più miti, più benefici, apparentemente più innocui? In fondo la scomparsa delle ideologie del ‘900 e l’innegabile eclissi del cristianesimo hanno lasciato un grande vuoto di etica e di orizzonti, e il vuoto non è facile da reggere. O si accetta di attraversarlo — consapevoli che l’incertezza fa parte del destino dell’uomo — oppure ci si attacca a qualcosa, a un particolare, e si trasforma quel particolare nel metro della totalità; da quel momento in poi, tutto quello che non si conforma alla totalità che ci rappresenta va combattuto. E in che modo? Con l’invettiva, la ridicolizzazione, la derisione: tutte armi che il mondo della rete offre con democratica generosità. Per linciare una persona basta un click, in meno di un secondo si guadagna la certezza di essere dalla parte giusta del mondo, senza mai essere sfiorati dal dubbio che la parte in cui ci riconosciamo sia soltanto un microscopico spicchio della realtà totale. Questi fondamentalismi domestici — che potremmo chiamare identitari, perché ci si identifica completamente con un’identità parziale — sono particolarmente vivi e attivi nel campo della bioetica, campo a cui la Gpa appartiene di diritto.

Gpa, gestazione per altri. Non occorre essere dei filosofi del linguaggio per capire che la prima e più grande manipolazione del pensiero avviene attraverso le parole. Parlare di «pulizia etnica», ad esempio, è molto diverso che dire «sterminio di massa» perché se c’è del pulito, il nostro inconscio automaticamente pensa che qualcosa in fondo di buono c’è. E così dire «gestazione per altri» e tutt’altra cosa che dire «utero in affitto». Il concetto di affitto porta con sé l’idea, infatti, dell’oggetto e del commercio — grazie al denaro, posso affittare una macchina, un appartamento — mentre la definizione «per altri» ci indirizza verso una positività buonista che rende questa condizione, non solo accettabile, ma anche desiderabile. Ne consegue che tutti coloro che si oppongono a questo progetto sono persone retrive, egoiste, prigioniere di un oscurantismo che non ha più senso di esistere, e — soprattutto — nemiche della Felicità e dell’Amore, i due grandi Totem all’ombra dei quali vive prostrato il nostro tempo. Come puoi pensare, infatti, di negare a qualcuno il diritto di essere felice, il diritto di amare?
Non è forse con la stessa suadente strategia che i predatori di ovuli — quest’abominevole categoria di «benefattori» — si aggira tra le giovani ragazze? «Non vuoi rendere felice una coppia a cui il destino ha negato questo diritto? C’è gente che dona un rene e tu sei così egoista da non voler donare un misero ovetto? Ci guadagni anche due soldini di rimborso, che fanno sempre comodo…». Per delle bambine cresciute con gli ovetti Kinder, questo discorso sembra innocuo, convincente. In fondo che c’è di male? Tranne poi dire, come ho letto in un’intervista fatta a una ragazza donatrice: «Oddio, non è che poi da qualche parte ci saranno dei bambini che mi assomigliano?».
Sempre per l’esercizio di chiamare le cose con il loro nome, gli ovetti — diciamolo allora, per chi zoppica in biologia — sono i nostri figli. Figli che prima iberniamo e poi lanciamo nel mondo come fossimo piante che si affidano alla fecondazione anemofila. Spargiamo semi senza sapere dove andranno a finire. Noi, le madri, non verremo mai a conoscere il loro destino. Può esistere qualcosa di più atroce di questo? La maternità — la condizione fondante del vivente — ridotta a livello delle piante, senza identità individuale. La genealogia ridotta a quella uniformante della specie.
Ma forse è proprio qui, contemplando il punto più basso dell’abisso, che il bio business getta la maschera e fa vedere il suo vero volto, che non è quello di un salvatore bensì quello di un famelico generatore del nulla. Attaccare la maternità, distruggere le sue viscere misericordiose vuol dire attaccare e distruggere i fondamenti del mondo. Per capire questo non occorre essersi rimpinzati di opuscoli Pro Life, basta aver visto almeno una volta una gatta a cui siano stati sottratti i gattini, la trepida cova di una rondine, le povere donne che scendono dai barconi stringendo al petto i loro figli sopravvissuti all’orrore. Basta ricordare l’ultima telefonata di quel povero ragazzo morto nella strage di Orlando: «Mamma, sto per morire, ti voglio bene». O basta anche, semplicemente, ricordare la morte della propria madre. Con la Gpa tutto questo non potrà avvenire, perché la super donna, super generosa — la complementare della donatrice — la donna che tutte noi dovremmo ammirare, cede immediatamente ad altri il frutto del suo ventre.

La verità scientifica — elevata nel nostro tempo a unica verità — a questo punto diventa afasica, muta, inessenziale. Tutti i meravigliosi e straordinari studi sugli intensissimi rapporti che intercorrono in quei nove mesi tra la madre e il suo bambino diventano carta straccia. Nel tempo della fattibilità, il piccolo è ridotto a cosa, viene assemblato in un luogo indifferente ma il suo esistere ridiviene reale soltanto nel momento in cui viene onorato il contratto e consegnato nelle mani dei felicissimi committenti. D’altronde, come dar loro torto? Ogni bambino è un miracolo davanti a cui rimaniamo tutti a bocca aperta! Però, questo miracolo ha un piccolo difetto. È un essere umano e, in quanto tale, probabilmente prima o poi comincerà a farsi domande.

Già perché, assieme agli studi scientifici, sono finiti nel cassonetto decine di capolavori della letteratura con protagonisti giovani orfani o figli illegittimi alla ricerca perenne del volto della madre, un paio di secoli di studi psicologici, l’intera psicanalisi. Il bambino Gpa è un bambino tabula rasa, nasce senza alcun passato e vive — e sappiamo già che sarà felice perché è stato desideratissimo — in un mondo che gli promette un amore incondizionato. Ma quando, un giorno, si guarderà allo specchio e capirà che non potrà mai risalire all’origine di una parte del suo volto, l’amore basterà? E basterà quando si renderà conto che sua madre, per un compenso, ha venduto l’ovulo che l’ha generato, cioè la sua vita?
Se penso alla mia famiglia, la parola «amore» è forse la trentesima che mi viene in mente e la maggior parte delle parole che la precedono non hanno certo una connotazione di positività, eppure io sono quella che sono perché ho avuto quei genitori. Genitori a loro volta generati da altri genitori. Il fondamento della vita umana dunque è la genealogia, non l’amore. Si può nascere anche da uno stupro, si può crescere in un lager. Ciò che fa di un essere umano una persona è prima di ogni altra cosa la storia di chi ci ha preceduto. In nome di che cosa mi chiedo allora, una persona, per esercitare il suo diritto alla felicità, può coscientemente privare un altro essere della sua genealogia? In nome dell’amore? Ma un amore che priva programmaticamente, per principio, qualcun altro di un ben più fondante diritto, che amore è?

E qui va smascherato il secondo passo del bio business. Dato che non esiste la maternità, non esiste neppure il destino. Nessuna unicità appartiene all’uomo. Non è importante sognare, pensare, combattere, danzare. Il corpo a corpo karmico non ci riguarda più. L’esteso campo del mistero — quel campo che ci rende davvero umani — è stato conquistato dalla tecnica ed è lei a preparare per noi delle vite indolori, immerse dall’inizio alla fine nella rilassata piacevolezza del suo Amore.
Le energie messe in moto per propagandare questa nuova visione dell’umano sono potenti, sempre pronte a esaltare con tutti i mezzi un singolo caso, capace di mettere in ombra, con la sua forza emotiva, i principi etici che da migliaia di anni governano la vita degli uomini. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso è il cardine principale su cui si fonda ogni civiltà degna di questo nome. Faccio outing: non vorrei mai essere nata da una Gpa. Nonostante mia madre non sia stata un esempio di amore materno, dalla sua morte in poi c’è un grande vuoto nella mia vita.
Per difendersi da questa aberrante visione del mondo, si dovrebbe prima di tutto cominciare a smantellare il grande ombrello dell’Amore Incondizionato, riportando questo importantissimo sentimento a due categorie fondamentali — l’amore generativo e l’amore oblativo — per ricordarsi che non poter generare non vuol dire non potere amare, anzi l’amore oblativo è spesso più grande e più libero di quello generativo.

E allora perché non lavorare strenuamente nel campo degli affidi e delle adozioni? I tre, quattro anni abituali di attesa, ad esempio, ridotti a nove mesi, il tempo di una gravidanza? Perché non pensare a Incentivi economici, apertura ai single e alle coppie omosessuali quando sia manifesta una stabilità affettiva? Togliere la maggior parte dei bambini dalle situazioni di anaffettività dell’abbandono dovrebbe essere il primo pensiero di una società umanamente degna. Perché, come dice il Talmud, «chi salva una vita salva il mondo intero», e questa salvezza — che nasce dall’amore oblativo — è l’unico vero e umile antidoto che possiamo opporre alla Gpa e allo strapotere del bio business sulla vita.


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Però sbugiardiamo la retorica del dono nell’utero in affitto


di Marina Terragni (Panorama, 29 giugno 2016)


– Anche Nichi Vendola celebra il mito della donna che «regala la maternità surrogata» alla coppia gay. Ma è solo ipocrisia. Perché in realtà i soldi girano. 

Non basta l’accusa di omofobia contro chi si oppone all’utero in affitto, accusa che non risparmia nemmeno le oltre lesbiche resistenti. A ostacolare il confronto tra pro e contro è anche l’insopportabile retorica del «dono», supportata da studi come quello del Center for family research dell’Università di Cambridge, per il quale (altro che soldi!) le «madri surrogate» si offrono soprattutto per la gioia di aiutare gli altri. Una colossale «vocazione al dono» femminile viene celebrata anche da Nichi Vendola, neo-padre via surrogacy intervistato da Francesco Merlo sulla Repubblica, che dalle tariffe sposta l’attenzione sulla generosità della Donatrice (maiuscolo), detta anche «zia… una bella ragazza di 26 anni». E della «Portatrice con il bel faccione allegro… la nostra Grande Madre».

Sul quanto si sorvola. Ma in California, «all inclusive», si spendono in media 130-150 mila dollari: se poi scegli una «mère porteuse premium», ovvio, ti costa di più. Il Talento femminile per il dono è un classico del marketing delle agenzie di surrogacy: «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividono lo stesso obiettivo: donare la vita» (agenzia Artparenting, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri figli il puro atto di gentilezza» (agenzia Extraordinary conceptions, California).

È una distrazione di massa dallo scambio figlio-denaro. Denaro che in ogni caso va immediatamente «ripulito», spostando l’attenzione sulla nobiltà dei fini. Perché è scontato che quei soldi guadagnati per il servizio riproduttivo, in forma di rimborso o di tariffa commerciale, le temporary mother li investiranno «per aiutare i figli a pagarsi gli studi» (Umberto Veronesi) o per aggiustare il tetto di casa. Salvo eccezioni pressoché inesistenti (un atto d’amore tra madre e figlia, tra sorelle tra amiche: è capitato anche in Italia, su autorizzazione dei tribunali) una « surrogacy» non è mai gratis, ma è assolutamente necessario che lo sembri. Come se si volesse eliminare il fantasma produttivo, altrimenti si rovinerebbe il prodotto.

Il compito affidato alla madre portatrice è quindi duplice: non solo la fatica della gestazione, ma anche l’impegno a testimoniare un mondo migliore, in cui la solidarietà umana può spingersi a livelli inimmaginabili. «Un incantesimo d’amore» lo chiama Nichi. Ebbene, questa infinita oblatività delle donne non una novità: il patriarcato ci ha sempre fatto un gran conto. Lo dice anche la fmminista americana Janice G. Richmond: «Nella tradizione patriarcale le donne non sono solo donatrici, ma dono esse stesse». Chi insiste sul «dono» si allinea a pieno titolo a questa tradizione. E allora verrebbe voglia di dire a queste donne: amiche, se proprio dovete, fatevi pagare molto di più. Qualche milione di dollari. E quei soldi spendeteli per voi.

Marina Terragni è giornalista e blogger femminista, autrice di Temporary Mother (Vanda publishing, 100 pagine, 10 euro, in ebook 5,99 euro).


 

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Marina Terragni. Temporary Mother


(Il Foglio, 29 giugno 2016)


– Sul valore sociale della maternità c’è ancora da discutere. Sul suo valore economico non ci sono più dubbi: dai 120-150 mila dollari all inclusive della California – la gestante premium costa un po’ di più – ai 20-30 mila per una docile surrogata indiana.

Esordisce così il pamphlet che la giornalista e blogger Marina Terragni dedica al tema “utero in affitto e mercato dei figli” (anche ebook a 5,90 euro), e che smaschera, spesso ridicolizzandola, la neo-lingua orwelliana con la quale per “altruismo” e “dono solidale” si intende il loro esatto contrario. Era difficile condensare in cento pagine una mole tanto notevole di informazioni e di considerazioni, ma l’autrice è un’osservatrice attenta del fenomeno della tecnoscienza applicata alla generazione umana almeno dalla metà degli anni Ottanta. Ad assisterla c’è anche uno sguardo sulle cose abbastanza libero da non trovare imbarazzante, per una femminista come lei, “il fatto di trovarsi dalla stessa parte della Chiesa nella resistenza all’utero in affitto”. Che “i figli non si pagano” non diventa meno vero, infatti, se lo dicono i cattolici. La produzione di bambini tramite forza lavoro femminile pagata per coprire il ruolo di “madre temporanea” tenuta a consegnare il figlio non è più una realtà edulcorabile. Nemmeno da parte di chi, per esempio la giurista israeliana Carmel Shalev, un tempo elogiava la “gestazione per altri” come mezzo di liberazione dalla “tirannia della procreazione”. Anche lei deve oggi “convenire sul fatto che la maternità per contratto ha dato luogo a un esteso mercato dei bambini in cui le donne non si liberano affatto e non sono altro che mezzi di produzione”. Alla base di tutto c’è, scrive Marina Terragni, “un grandioso piano patriarcale”, che rendendo merce tra le altre la gestazione e il parto, azzera la relazione tra madre e figlio, il “protagonista muto della vicenda”, le cui ragioni “andrebbero tenute per prime” e che invece diventa a sua volta merce. La cancellazione della madre è pianificata attraverso clausole contrattuali che negano al nato da utero in affitto quello che dovrebbe venir meno solo per motivi gravissimi, quando non tragici: malattia o morte della madre, gravidanza non desiderata. “La surrogazione è l’estremo acting out dell’invidia dell’utero. E’ il sogno maschile radicale – cancellare il fatto di essere nati da una donna – che prende corpo con l’ausilio della tecnoscienza e del bio-business”. Per questo, “oggi si riconosce che quello che molte donne stanno dicendo sull’utero in affitto lo stanno dicendo per il bene di tutti. Che quel tenere sempre al centro la relazione è per la felicità di tutti”.


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Madri in affitto: un libro e una polemica


di Maurizio Tortorella, (Panorama, 9 giugno 2016)


– Temporary mother: il saggio di Marina Terragni, giornalista e femminista, contraria al mercato dell’utero.

L’American society for reproductive medicine stima che ogni anno, attraverso la pratica di un utero in affitto, nel mondo nascano molte migliaia di bambini: almeno 2 mila soltanto negli Stati Uniti, con un tasso d’incremento capace di triplicare ogni anno.

A livello globale, invece, per l’ovvia reticenza degli operatori del settore mancano numeri attendibili. Si sa, però, che in India sono attive almeno 3 mila cliniche in grado di produrre 1.500 maternità surrogate l’anno. E in Ucraina, nel 2011, sarebbero state portate a termine 120 gravidanze a pagamento, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto.

Quanto all’Italia, s’ipotizza che almeno 100 bambini nascano ogni anno grazie a un utero in affitto: ovviamente all’estero e clandestinamente visto che da noi la pratica è proibita.

Quel che è certo è che si tratta di un giro d’affari colossale (le stime vanno da 3 a 10 miliardi di dollari, se si considera il business della fecondazione assistita nel suo complesso). È certo anche che il mercato sia molto… “promettente”: tant’è vero che la prossima sponda è l’Africa, sicuramente un paradiso low-cost per le tecnologie riproduttive.

Di e su tutto questo, con piglio estremamente critico, scrive Marina Terragni in Temporary mother: utero in affitto e mercato dei figli, un saggio in libreria da giovedì 16 giugno (Vanda publishing, 100 pagine, 10 euro: l’e-book è già disponibile a 5,99 euro su Amazon).

Scrive Terragni: “Quello che ti viene tolto, la libertà di fare i figli quando c’è il desiderio e il corpo è naturalmente fecondo, ti viene riproposto confezionato in forma di neodesideri e neo-diritti: diritto a un bambino anche quando non arriva, diritto alla “genitorialità”, diritto a riprodursi senza contatti con l’altro sesso. Basta che paghi“.

A parte qualche eccesso ideologico e qualche critica di troppo alle libertà economiche (non tutto il mercato è sfruttamento), la tesi di Terragni è pienamente condivisibile. Soprattutto là dove critica l’ipocrisia di certa sinistra: “Le battaglie antiliberiste e per un consumo critico” scrive Terragni “si fermano imbarazzate sulla soglia dell’utero in affitto e della fecondazione medicalmente assistita: se sei contro gli Ogm stai lottando per l’ambiente e la biodiversità, per salvaguardare la sopravvivenza delle specie e dell’intero ecosistema dall’onnivoracità del profitto e dei desideri indotti nei singoli. Ma se chiedi uno stop alla Gpa, la Gestazione per altri, sei un conservatore, preferibilmente omofobico“.

In realtà, non bisogna affatto essere omofobi per nutrire qualche seria perplessità nei confronti dell’utero in affitto (così come, peraltro, non occorre affatto essere ultraliberisti per essere a favore). È del tutto evidente che la commercializzazione di una gravidanza espone la donna alla possibilità di uno sfruttamento. Anche quando la Gpa, la Gestazione per altri viene compiuta a titolo gratuito.

Correttamente, infatti, Terragni ricorda che in Canada la legge riconosce alle gestanti per altri un’indennità comprensiva del rimborso delle spese mediche, che in realtà è un compenso a
tutti gli effetti: “E in Canada le donne” scrive l’autrice “si offrono per avere quei soldi”.

Ed è vero che in Italia una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana”, cioè la possibilità di donare un rene a una persona sconosciuta. Quella legge in realtà è stata applicata molto raramente, in genere ricorrendo a donatori molto particolari: per esempio persone detenute, “il cui gesto” scrive Terragni “va letto in una chiave di riscatto morale e di risignificazione della propria esistenza”.

Ma anche qui l’autrice ha ragioni da vendere: l’analogia tra dono d’organo e utero in affitto si ferma qui. “Perché se la donazione d’organo è un fatto tra due, il donatore e il ricevente, nel caso dell’utero c’è un terzo, il nascituro, le cui ragioni andrebbero tenute per prime“.

Insomma, un libro interessante e informato, provocatorio e ben scritto.

Giornalista, milanesissima, Terragni ha scritto fino allo scorso febbraio per il periodico Io Donna. Ora fa la blogger, ovviamente impegnata a sinistra. Ai primi di giugno il suo profilo Facebook è stato bloccato perché qualcuno aveva segnalato come “omofoba” questa sua frase: “Se una donna è una “cosa” che si può affittare, tutta o in tranci, la si può anche bruciare, vetriolare, uccidere”.

La frase, è evidente, giocava sul paradosso, ma era logicamente ineccepibile: se s’impone la cultura del possesso, e un essere umano può trasformarsi in oggetto da vendere e comprare, le conseguenze estreme possono coerentemente arrivare agli estremi criminali della cronaca nera.

Purtroppo è bastato gridare all’omofobia perché cadesse la mannaia della censura. E non è afftto un bel segno.


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«Soldi e tecnica per cancellare la madre»


di Umberto Folena (Avvenire, 9 giugno 2016)


– La denuncia al femminile nel libro di Marina Terragni: la maternità surrogata conduce a una «nuova forma di patriarcato» e nasce dall’«invidia dell’utero».

La maternità surrogata altro non è che il più recente colpo grosso del neoliberismo. Ma soprattutto è una nuova forma di patriarcato, l’ultima offensiva contro la donna e il suo corpo, diretta a ciò che rende unica la donna: la maternità e la relazione con il figlio. A sostenerlo è una firma illustre del giornalismo e del femminismo, Marina Terragni, nel suo ebook Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli (Vanda epublishing, pagine 99, euro 5,99), un brillante pamphlet che non risparmia colpi nemmeno all’universo Lgbt e non nasconde la frattura in corso tra Arcilesbica, (quasi) compatta contro il mercato degli uteri, e le donne Arcobaleno, in larga parte schierate con gli uomini e il loro “diritto” al figlio. Nessun concetto davvero nuovo per chi in tanti anni ha seguito Avvenire. Ma interessante è la prospettiva decisamente non cattolica che, pur muovendo da altre premesse, finisce per convergere su tantissimi punti proprio con i cattolici. La critica all’onnipresenza e onnipotenza del mercato, ad esempio, ricorda analoghi affondo della Dottrina sociale, con le parole scomode (chi denuncia limiti e errori del capitalismo sfrenato, o del liberal-liberismo per dirla con Zamagni, da alcuni viene immediatamente sospettato di “comunismo”, sic) in particolare di Giovanni Paolo II e Francesco. Ricorda anche un altro autore non cattolico ma molto letto, ascoltato e stimato da numerosi cattolici come Zygmunt Bauman. «Il mercato neoliberista – scrive Terragni – si prende le sementi e ce le rivende, si prende l’acqua e ce la rivende, si prende anche i nostri corpi e ce li rivende, trasformandoci in consumatori di noi stessi» (qui l’eco della consumerist society baumaniana, contrapposta alla società di produttori, è palese). Nel pamphlet di Marina Terragni le parole chiave sono due: relazioni e patriarcato, ossia ciò che nella Gpa – la gestazione per altri, sigla con cui da qui in poi ci riferiremo alla maternità surrogata – viene negato e chi cerca di trarne profitto. Le relazioni sono «il vero nemico del comunismo e del mercato». Bauman parlerebbe di legami, quelli che il mercato ha la necessità di rendere friabili. L’essere umano è tale perché in relazione; e senza relazioni è sempre meno umano. Così – qui a parlare è la voce giustamente orgogliosa di una femminista – «oggi si riconosce che quello che molte donne stanno dicendo sull’utero in affitto lo stanno dicendo per il bene di tutti. Che quel tenere sempre al centro la relazione è per la felicità di tutti». Invece, pagando una donna affinché diventi madre di un bambino che non dovrà mai neppure vedere, «si compra il diritto di rompere la relazione». Il denaro surroga quella relazione, e la misura della relazione viene sostituita con quella del denaro. Terragni cita la femminista svedese Kajsa Ekis Ekman: «La maternità surrogata è un fenomeno capitalistico che aliena l’essere umano dalla sua stessa progenie». Il cuore femminista palpita. Maschi e femmine non sono uguali, ma disuguali. Le donne possono mettere al mondo, gli uomini no. Di qui «l’invidia dell’utero»: «Gli uomini hanno compreso di non essere pari alle donne quanto a potenza creativa, e contro quella disparità e quella potenza hanno escogitato il dispositivo del potere. Si son presi i corpi delle donne, hanno dato vita al grandioso piano patriarcale». Come scrive l’eco-teologa femminista Mary Daly: «Quei figli (della Gpa, ndr) sono figli dei maschi, dei loro laboratori, del loro ordine simbolico».

È la posizione di una femminista, per questo invisa a ex compagne e soprattutto compagni di lotta, così come oggi il confronto tra Arcilesbica e Famiglie Arcobaleno è perfino aspro. I toni di Marina Terragni sono senza mezze misure: il piano che si nasconde dietro la Gpa, voluta e organizzata soprattuttto da maschi, è «far sparire la madre» per «una nuova forma, moderna, di patriarcato». La surrogazione è l’estremo acting out dell’invidia dell’utero. È il sogno maschile radicale – cancellare il fatto di essere nati da una donna – che prende corpo con l’ausilio della tecnoscienza e del bio-business». Sì, la Gpa è faccenda da neo-patriarchi. Che alla madre surrogata chiedono l’impossibile: sottrarsi alla relazione con il bambino, «la relazione più intensa che ci sia dato sperimentare». È la scomparsa della madre per contratto con il nascituro, «protagonista muto della vicenda», il tutto nel nome «dell’individualismo proprietario». La celebre frase, anzi il claimfemminista «il corpo è mio», viene manipolato e ridotto al «mio» di una proprietà privata di cui si può e si deve fare commercio: «Il corpo è del mercato». La conclusione ha toni drammatici, perfino apocalittici: «Se lasciamo entrare il mercato nella relazione tra madre e figlio, se gli lasciamo slegare anche questo legame, il mondo muore».

A questo punto entra in gioco Antigone. A lei, e alla sua resistenza al re di Tebe, Creonte, si appella Marina Terragni. L’eroina di Sofocle, decisa a contravvenire alla legge e a seppellire comunque il fratello, dichiara: «Non temo di mostrare alla città questo mio atto di anarchia». Non è l’anarchia come possiamo pensarla oggi d’acchito. È an-arché, “senza principio”, ossia da sempre. Antigone alla legge storica del re di Tebe, e alle odierne leggi del mercato, oppone le leggi cosmologiche innate, che esistono da sempre, a cominciare dalla pietas nel caso di Antigone, fino al «primato della relazione vivente, custodito dal madre-figlio/a, e di quelle leggi che esistono da sempre, a cui anche gli dei devono obbedire».

Che in questa “battaglia” tante femministe si trovino schierate con la Chiesa può essere imbarazzante? Terragni taglia corto e ricorda come «tante volte la Chiesa è stata ed è ancora oggi dalla parte delle donne, più di quanto il laicismo diffuso (dico laicismo, non laicità) consenta di riconoscere». È la Chiesa, oggi, «l’unico argine contro l’onnipotenza del neoliberismo». E tanto basti.

Analisi brillante, resistenza combattuta dalla trincea del femminismo meno ideologizzato, posizione chiara. Ma come può agire, nel concreto, questa «anarché femminile che vuole sottrarsi all’onnipotenza delle leggi di mercato e alla fretta del profitto»? Può e deve «agire sul limite», un limite interiore. Poiché scienza e tecnologia sono difficilmente contenibili, occorre agire sulle coscienza: parola che Marina Terragni non usa, ma di cui si sente distintamente il profumo.


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Utero in affitto, guerra tra gay e donne, lesbiche e non. Terragni «omofoba»: e Facebook la oscura


di Umberto Folena, (Avvenire, 3 giugno 2016)


– ​Le donne, anche lesbiche, non possono pronunciarsi contro l’utero in affitto senza subire attacchi, anche pesanti, degli omosessuali maschi. Una guerra sotto lo stesso tetto Lgbt.

«Se una donna è una “cosa” che si può affittare, tutta o in tranci, la si può anche bruciare, vetriolare, uccidere». Una frase forte dai toni paradossali, ma dalla logica ineccepibile: se si impone la cultura del possesso, e un essere umano è un oggetto da vendere e comprare, possedere e gettare, le conseguenze estreme possono essere anche certi agghiaccianti fatti di cronaca. Ebbene, per questa frase pubblicata sulla sua bacheca, Marina Terragni, giornalista e scrittrice, a lungo nota firma di «Io donna» e del «Corriere della sera», dopo una sequela di insulti, è stata segnalata come “omofoba” e si è vista cancellare il post da Facebook e bloccare per 24 ore il profilo. Marina Terragni non esclude che si tratti di una forma di ritorsione per il suo ultimo libro, «Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli» (VandA epubblishing), che denuncia come le donne diventino mezzi di produzione e le creature umane oggetti in vendita: «Se perdiamo il nostro statuto di esseri umani – spiega – può essere meno drammatico dar fuoco a una donna o somministrarle acido muriatico». «Violenza maschile», conclude Marina Terragni. E ricorda il caso recentissimo della sociologa milanese Daniela Danna, dichiaratamente lesbica. Sabato scorso doveva parlare a Udine del suo libro «Contract Children: questioning surrogacy» («Bambini su commissione: domande sulla maternità surrogata»), ma Arcilesbica, che organizzava l’evento, ha disdetto all’ultimo minuto su pressione, pare, di altre componenti del movimento Lgbt. Gran parte delle lesbiche sono infatti contrarie alla Gpa (Gestazione per altri), i gay invece sono a favore; e per qualcuno è guerra: «Sarebbe orribile se ci scannassimo tra donne sulle pretese maschili», è l’amaro commento di Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica Milano. Intanto l’appuntamento di Udine è rinviato a data da destinarsi.


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Fumo, bevi e mangio molta carne di P. Dacrema


di Valeria Merlini (Panorama, 10 maggio 2016)


– Per mezzo  di argomentazioni approfondite e convincenti, Pierangelo Dacrema mette sul banco degli imputati talebani della salute, ciarlatani dell’ambientalismo e animalisti demagoghi e, nel contempo, offre nuovi spunti di riflessione sul tema del vizio.

Per mezzo di argomentazioni approfondite e convincenti, Pierangelo Dacrema mette sul banco degli imputati talebani della salute, ciarlatani dell’ambientalismo e animalisti demagoghi e, nel contempo, offre nuovi spunti di riflessione sul tema del vizio.

Il suo è un libro provocatorio, dall’aspetto deliberatamente controcorrente, in cui vuole affermare con certezza che certi piaceri corrispondono a un’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. In un mondo che continua a ripeterci la necessità di vivere sano, l’autore lancia un grido di protesta a nome di chi desidera mangiare, bere e fumare quando gli pare, rimettendo in gioco il concetto di etica tanto quanto quello di tolleranza: “Il problema è che fumo e bevo, di brutto, e offro spesso uno spettacolo indecente di me stesso. Per di più mangio altri animali, e dimostro con questo la mia natura di uomo prepotente, arrogante, forse anche poco intelligente. Mi sembra che esistano gli estremi per trattare la questione come un problema etico. Una volta affrontato il quale avrò qualche elemento in più per capire se devo considerarmi un individuo immarale o più o meno normale”.

Fumo, bevo e mangio molta carne

di Pierangelio Dacrema

VandA.ePublishing, 2016


 

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Carnivori vs vegani, due titoli sul tema


di Micol Borzatta (Liberi di scrivere, 19 aprile 2016)


Mangiare o non mangiare carne è un tema molto attuale, e soprattutto molto dibattuto. I motivi per una scelta o per l’altra sono vari e spesso non troppo consapevoli. Per alcuni è solo una moda, magari passeggiera, un modo per essere in, per altri è una scelta di vita con implicazioni morali e etiche, o per motivi di salute. Nei mesi scorsi si è parlato del fatto che la carne rossa possa essere cancerogena, tra ammissioni e ritrattazioni. La confusione è tanta insomma. A fare chiarezza ci prova un’ iniziativa di VandA ePublishing, la pubblicazione di due libri che partono da presupposti opposti. A metterli a confronto ci penserà la nostra Micol Borzatta. Buona lettura.

Contro la caccia e il mangiar carneLev Tolstoj

Partendo dai tempi della lotta tra paganesimo e cristianesimo, passando per i pitagorici, gli agnostici, i cristiani, i bramini, i buddisti, i filosofi greci, Lev Tolstoj spiega come dovrebbe essere il percorso che l’uomo dovrebbe affrontare se vuole veramente condurre una vita morale.
Come in tutte le cose, anche per condurre una vita morale bisogna rispettare un preciso ordine nell’acquisizione delle virtù necessarie. Per procedere correttamente bisogna iniziare dal primo gradino e salire, gradino dopo gradino, passo dopo passo.
Il primo gradino è l’astinenza. Astinenza vista nel senso più materiale e carnale del termine. Come per lo spirito è l’astinenza al piacere, all’istinto carnale e animale, per il fisico e la salute è l’astinenza dal mangiare carne.
Il digiuno viene infatti visto come un processo di purificazione. Un essere umano che mangia carne sarà per sempre debole, debolezza che lo porterà a ricaderci ancora e a non avere le forze necessarie per usare la forza di volontà e resistere a queste tentazioni, non per niente, secondo Tolstoj, la storia dimostra ampiamente che la maggior parte degli uomini forti, snelli, in salute e attivi si nutra esclusivamente di pane nero, riso e cereali.
Un saggio molto forte che anticipa di parecchio la moda odierna al vegetarianesimo e al veganesimo.
Tolstoj perora la sua causa di ex cacciatore convertito portando esempi di smembramento di capi di bestiame da parte dei macellai, a battute di caccia e alla preparazione del pollame. Tutte descrizioni forti, raccontate nei minimi particolari, senza mezze parole, con scene che possono anche turbare quei lettori un po’ deboli di stomaco, ma necessari, sempre secondo Tolstoj, per far capire ai carnivori la realtà dei fatti.
Un saggio che invece di essere solo un’esposizione del proprio pensiero, sembra più un discorso politico, un trattato per convincere chi non lo è ad abbracciare lo stile di vita vegetariano, o meglio ancora vegano.
Un saggio che si legge velocemente vista la sua brevità, ma che fa riflettere, sia allora come oggi, su quello che potrebbe veramente essere necessario per la nostra salute e quello che non lo è.

Lev Nikolaeviv Tolstoj nasce nel 1828 a Jàsnaja Poljana e morto nel 1910 a Astàpovo. Scrittore, filosofo, educatore, attivista sociale russo, pedagogo e studiosi di testi sacri occidentali e orientali, agli inizi degli anni ottanta si converte, sviluppa un’etica basata sul principio della non-violenza, adotta uno stile di vita ispirato al Vangelo e diventa vegetariano.

Fumo, bevo e mangio molta carne! di Pierangelo Dacrema

Chi non è più tra i giovanissimi si ricorda i vecchi tempi in cui si poteva fumare nei locali, al cinema, in classe senza nessun problema. Tempi che per chi è ancora un fumatore rimpiange, mentre per i non fumatori è una vittoria. Finalmente i demoni sono stati esorcizzati, i fumatori sono stati esiliati fuori.
Siamo arrivati in un’epoca dove solo i salutisti hanno voce in capitolo, dove se non sei vegano, se non rispetti l’ambiente, se non usi i pannolini del tipo giusto per ogni bambino gli rovini la vita, ma nessuno si ricorda, salutisti in primis, che fino a oggi siamo cresciuti tutti con genitori che fumavano in casa, con il fumo passivo nei locali, con un solo tipo di pannolino o di omogeneizzato e nessuno è morto, anzi siamo cresciuti bene e ci siamo fatti gli anticorpi.
Questo romanzo è un po’ un romanzo propaganda, anche se con toni molto leggeri e ironici. Dacrema vuole far capire come gli eccessi sono sempre negativi, sia quelli troppo liberali che quelli troppo restrittivi, e lo fa con questo libro, raccontando il passato e la vita di chi fuma, di chi beve e di chi mangia troppo, spesso ingigantendo le cose di proposito, ma solo per far vedere come sono ridicole tutti gli eccessi.
Un romanzo che si legge volentieri e che in molte pagine fa anche ridere, romanzo in cui spesso ci si rivede se facenti parte di fumatori o ex fumatori. Un romanzo che fa davvero pensare senza, per una volta, voler far cambiare la vita al lettore.

Pierangelo Dacrema è docente ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Ha insegnato all’Università di Bergamo, di Siena, alla Cattolica, alla Bocconi e alla Nuova Accademia delle Belle Arti di Milano. Ha già pubblicato La crisi della fiducia. Le colpe del rating nel crollo della finanza globale nel 2008, Il miracolo dei soldi. Come nascono, dove vanno, come si moltiplicano nel 2010, La dittatura del PIL nel 2013, Lettera aperta a uno studente universitario nel 2013, Marx & Keynes: un romanzo economico nel 2014, La morte del denaro nel 2014, Trattato di economia in breve nel 2015.

Source: ebook inviati dall’editore, ringraziamo Fabia dell’Ufficio Stampa VandA ePublishing.


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L’agnello a Pasqua? Tolstoj non lo avrebbe mai mangiato


di C. S. (Mentelocale, 24 marzo 2016)


– Un dibattito sempre più attuale è quello che mette a confronto vegani e carnivori. Modelli esistenziali differenti, da un lato tra chi sostiene uno stile di vita sostenibile, salutistico e che rispetti gli animali, dall’altro tra chi preferisce cedere ai piaceri della tavola e godersi senza pensare un hamburger e una bistecca.

 

Un dibattito sempre più attuale è quello che mette a confronto vegani e carnivori. Modelli esistenziali differenti, da un lato tra chi sostiene uno stile di vita sostenibile, salutistico e che rispetti gli animali, dall’altro tra chi preferisce cedere ai piaceri della tavola e godersi senza pensare un hamburger e una bistecca.

L’eterna diatriba che si scatena sempre più non solo a parole, ma anche a colpi di post e tweet sui social network, si accende maggiormente nei periodi delle festività, per esempio in tempo di Pasqua, quando la tradizione vuole che sulle tavole si trovi l’agnello.

Proprio in occasione di Pasqua Vanda e-publishing ha deciso di pubblicare due volumi di segno opporto: da un lato proponendo un celebre testo inedito di Tolsoj, Contro la caccia e il mangiar carne, dall’altro il libro di Pierangelo Dacrema, Fumo, bevo e mangio molta carne.

Il celebre scrittore e filosofo russo fu uno dei primi a trattare l’argomento, esponendo nel volume idee contenenti già, in nuce, gran parte degli argomenti portati avanti da vegetariani e vegani un secolo più tardi. Ripercorrendo un filo millenario, che va dai pitagorici agli agnostici, dalle basi del cristianesimo a quelle del protestantesimo, Tolstoj dimostra la necessità, per l’uomo che vuole perseguire una vita davvero morale, della riscoperta di quel senso di pietà che, per natura, gli appartiene. In questo intenso e letterario pamphlet, di forte precocità rispetto alla sua epoca, lo scrittore intende dimostrare come l’astensione dal mangiare carne sia primo il gradino da cui iniziare questo cammino, alla volta di una vita più giusta con se stessi e con gli altri.

Di tutto altro avviso è Pierangelo Dacrema, professore di economia e grande sostenitore di piaceri della vita, nel suo Fumo, bevo e mangio molta carne. In questo volume, dal titolo provocatorio e dall’aspetto deliberatamente controcorrente, Dacrema vuole affermare con certezza, e come primo dato imprescindibile, che certi piaceri corrispondono a un’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. In un mondo che continua a ripeterci la necessità di vivere sano, l’autore lancia un grido di protesta a nome di chi desidera mangiare, bere e fumare quando gli pare, rimettendo in gioco il concetto di etica tanto quanto quello di tolleranza.


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L’agnello a Pasqua? Tolstoj non lo avrebbe mai mangiato


(Mentelocale, 24 marzo 2016)


Un dibattito sempre più attuale è quello che mette a confronto vegani e carnivori. Modelli esistenziali differenti, da un lato tra chi sostiene uno stile di vita sostenibile, salutistico e che rispetti gli animali, dall’altro tra chi preferisce cedere ai piaceri della tavola e godersi senza pensare un hamburger e una bistecca.

L’eterna diatriba che si scatena sempre più non solo a parole, ma anche a colpi di post e tweet sui social network, si accende maggiormente nei periodi delle festività, per esempio in tempo di Pasqua, quando la tradizione vuole che sulle tavole si trovi l’agnello.

Proprio in occasione di Pasqua Vanda e-publishing ha deciso di pubblicare due volumi di segno opporto: da un lato proponendo un celebre testo inedito di Tolsoj, Contro la caccia e il mangiar carne, dall’altro il libro di Pierangelo Dacrema, Fumo, bevo e mangio molta carne.

Il celebre scrittore e filosofo russo fu uno dei primi a trattare l’argomento, esponendo nel volume idee contenenti già, in nuce, gran parte degli argomenti portati avanti da vegetariani e vegani un secolo più tardi. Ripercorrendo un filo millenario, che va dai pitagorici agli agnostici, dalle basi del cristianesimo a quelle del protestantesimo, Tolstoj dimostra la necessità, per l’uomo che vuole perseguire una vita davvero morale, della riscoperta di quel senso di pietà che, per natura, gli appartiene. In questo intenso e letterario pamphlet, di forte precocità rispetto alla sua epoca, lo scrittore intende dimostrare come l’astensione dal mangiare carne sia primo il gradino da cui iniziare questo cammino, alla volta di una vita più giusta con se stessi e con gli altri.

Di tutto altro avviso è Pierangelo Dacrema, professore di economia e grande sostenitore di piaceri della vita, nel suo Fumo, bevo e mangio molta carne. In questo volume, dal titolo provocatorio e dall’aspetto deliberatamente controcorrente, Dacrema vuole affermare con certezza, e come primo dato imprescindibile, che certi piaceri corrispondono a un’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. In un mondo che continua a ripeterci la necessità di vivere sano, l’autore lancia un grido di protesta a nome di chi desidera mangiare, bere e fumare quando gli pare, rimettendo in gioco il concetto di etica tanto quanto quello di tolleranza.


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Nonostante il velo


di Gabriella Grasso (Q Code Magazine, 2 marzo 2016)


– Intervista alla scrittrice Michela Fontana su Arabia Saudita e donne.

Di come vivono le donne in Arabia Saudita qualcosa si sa, ma poco. Sappiamo, per esempio, che non hanno il diritto di guidare e che negli ultimi 25 anni piccole rappresentanze femminili hanno fatto qualche tentativo (il primo nel 1990, l’ultimo nel 2014) per superare un divieto che, pur non essendo scritto, viene considerato assoluto. Quando la giornalista Michela Fontana si è trasferita nel Paese a seguito del marito diplomatico, ha quindi pensato che si trattasse di un’occasione unica per indagare l’universo femminile saudita. Durante due anni e mezzo (dal luglio 2010 al dicembre 2012) la giornalista ha incontrato, intervistato, ascoltato molte saudite, alcune delle quali sono diventate sue amiche. Ne è venuto fuori il libro Nonostante il velo (Vanda Publishing, euro 15) che è un documento prezioso anche per il tono con cui è scritto, che non quello dell’occidentale che giudica o compatisce o disprezza chi vive in maniera diversa. Ma quello di una giornalista – e donna – che ascolta, cerca di comprendere e dà voce.

Innanzitutto, com’è stata per te questa esperienza dal punto di vista umano? Sei ancora in contatto con le donne che hai conosciuto?
«È stata un’esperienza che mi ha arricchito molto: con quasi tutte le donne che ho incontrato si è creato un bel rapporto umano e con qualcuna siamo diventate amiche. Ma a riprova della chiusura del Paese, da quando sono tornata in Italia ogni tentativo di mantenere i rapporti via mail è stato frustrato dal silenzio. Mi hanno risposto in poche e, chi lo ha fatto, ha adottato toni formali, per paura».

Tra gli incontri di cui racconti mi ha colpito quello con Zinah, una donna con il viso gonfiato dal botulino che ti accoglie nel suo sontuoso giardino barcollando su scarpe con la suola rossa e i tacchi altissimi e che poi, durante il vostro colloquio, stigmatizza la libertà delle occidentali e difende il modo di vivere delle saudite.
«Zinah, che però ho incontrato solo una volta, esprime le contraddizioni del Paese: nonostante sia ricca e abbia mandato i figli a studiare all’estero, parlando con me si è subito messa in una posizione di difesa della sua cultura e di attacco alla nostra. Sono molte le donne che, pur viaggiando e godendo delle libertà dell’Occidente, giudicano negativamente i nostri costumi e difendono aspetti della loro cultura che per noi sono inconcepibili».

Come la poligamia. Tu dici che, davanti all’argomento, lo sguardo di ogni donna si riempie di sgomento…
«Sì, tutte quelle che ho intervistato a lungo, con cui ho instaurato un rapporto di fiducia, persino le più religiose, davanti alla parola poligamia hanno mostrato paura e gelosia nei confronti delle altre mogli. A riprova del fatto che i sentimenti delle donne sono identici in tutto il mondo. Ricordo che una di loro, che poi è diventata un’amica, quando abbiamo iniziato a parlare mi ha subito detto, con sofferenza: “Sono la seconda moglie. Non perché lui è divorziato, sono proprio la numero due”. Tutte, alla domanda: “Cosa faresti se tuo marito prendesse un’altra moglie” hanno tradito panico. Una mi ha risposto, mesta: “Mi domanderei dove ho sbagliato”. Certo, ho anche incontrato una professoressa di studi coranici che, insieme a due sue allieve, ha difeso l’istituto della poligamia e del guardiano (in Arabia Saudita le donne hanno bisogno dell’autorizzazione di un wali, un guardiano di sesso maschile, per qualunque decisione legalmente rilevante, per iscriversi a scuola, lavorare, uscire dal Paese, ndr): ma si capiva che recitava a memoria una lezione. Era propaganda. D’altra parte, le saudite sono sottoposte a un lavaggio del cervello sin da bambine».

E per fartelo capire Afifah ti mostra i testi scolastici della figlia e ne traduce per te alcuni passaggi: le donne sono paragonate a gioielli, torte o pistacchi, che devono essere tenuti nascosti per non “ingolosire” i maschi che altrimenti potrebbero volerli “leccare”. Oppure sono descritte come agnelli indifesi e gli uomini come “lupi pronti a divorarle”. Per paragonare la condizione femminile in Occidente e in Arabia Saudita vengono usati due disegni: nel primo c’è una caramella scartata e coperta di mosche e, sullo sfondo, una ragazza in jeans; nell’altra una caramella intatta, avvolta in una bella carta stagnola e, sullo sfondo, una donna velata con il capo chinato…
«Gli argomenti religiosi sono oggetto di studio per cinque ore al giorno fino all’università. La religione viene affrontata in tutti gli aspetti: il Corano, gli Hadith del Profeta, la legislazione, la moralità. In libreria ho trovato un volume dal titolo Fatwas che riguardano le donne che mi ha sconvolto: vi era elencato nei dettagli tutto ciò che si può e non si può fare durante il ciclo mestruale (non si può toccare il Corano, per esempio, ma si può recitarlo) e c’era un capitolo intero intitolato: “Regole riguardo alle secrezioni”. Insomma: esistono norme per tutto, per ogni gesto da compiere e in ogni momento del mese. Sin da bambine le saudite vivono in un mondo di divieti e prescrizioni religiose che non possono trasgredire. La blogger EMAN che è una giovane molto sveglia e brava che ha vissuto in Gran Bretagna mi ha detto chiaramente: “Voi occidentali non lo capite, ma noi veniamo educate così, non possiamo cambiare la nostra mentalità facilmente”. Imparano che l’uomo è predatore e che l’unico modo per difendersi è coprirsi. E in effetti nel Paese quando gli uomini si trovano nei pressi di una donna sembrano davvero dei lupi affamati: ma è la conseguenza della separazione dei sessi. I giovani sauditi sono disposti a fare delle gimcane pazzesche con l’auto pur di intravedere di sfuggita una donna. C’è un’enfatizzazione degli aspetti sessuali che da noi non esiste perché siamo abituati alla mescolanza dei sessi sin da bambini».

Mi ha stupito che anche molte delle giovanissime che hai incontrato – quelle della “generazione Twitter” – difendano certi aspetti della loro cultura come l’istituto del guardiano.
«È vero, parecchie sono convinte che il guardiano sia una protezione. Per certi versi è vero, ma occorre essere molto fortunate. Se hai un padre illuminato che ti concede di studiare e di viaggiare (in compagnia di tua madre) e poi trovi un marito altrettanto aperto che ti consente di lavorare (nel caso tu trovi un impiego, cosa non facile) o di prendere il tè con le amiche, la sensazione di protezione è reale, perché secondo le regole vigenti nel Paese l’uomo deve provvedere alla donna in tutto, lei non deve occuparsi di nulla. Ma il confine è sottile e basta che il guardiano cambi idea o prenda un’altra moglie, perché ogni libertà svanisca. Le donne in Arabia Saudita sono delle eterne adolescenti, non persone con gli stessi diritti civili di un uomo. Ma ora internet sta mostrando ai giovani un modo diverso di vivere: in rete maschi e femmine si parlano e questa è già una vera rivoluzione. Certo, non basta per modificare un’intera società, e internet non è sempre un luogo sicuro, perché si può essere messi in prigione per un Tweet. Però il cambiamento è in atto. Ho conosciuto una giovane che, quando si è tolta il velo, ha scoperto capelli cortissimi e decine di orecchini, oltre a essere essere piena di entusiasmo e idee. Sapendo che non è mai uscita dal Paese e appartiene a una famiglia conservatrice le ho chiesto da dove venissero le sue idee: dal web, mi ha risposto».

Leggendo il tuo libro sembra di capire che molte donne saudite siano convinte che le occidentali vivano nel pericolo.

«Una frase che mi sono sentita ripetere molto spesso – anche da chi ha viaggiato – è questa: “Da voi le donne vengono violentate per strada”. La propaganda antioccidentale è forte: nelle moschee si parla dell’Occidente come luogo di ogni peccato, dove le donne sono tutte prostitute. Ma non è solo questo. Un uomo, parlando con mio marito della possibilità di trasferirsi all’estero con la moglie per un periodo lungo, gli ha detto: “Se sarà costretta a togliere il velo, per lei sarà traumatizzante: ne sarà terrorizzata”. È normale che sia così: se sei abituata a vivere velata, senza velo ti senti nuda. Inoltre, se io in Italia vedo per strada una giovane con una minigonna inguinale, può anche darmi fastidio, ma sono in grado di contestualizzare. Una saudita no, e sarà quindi portata a pensare che da noi non esistano regole morali. Non voglio giustificare i loro pregiudizi, che sono pesanti, ma comprenderli. Per gli uomini sauditi, anche quelli abituati ad andare all’estero, le occidentali sono facili: nel libro racconto di una diplomatica alla quale un tizio, in aereo, si è sentito autorizzato a mostrare delle immagini porno, perché lei viaggiava sola».

Come ti spieghi il massiccio ricorso alla chirurgia estetica da parte delle saudite?
«Ammetto di non aver affrontato con loro l’argomento, che comunque riguarda solo le classi medio-alte, ma ho rilevato che le donne sono interessate a tutti gli interventi estetici che si possono realizzare sotto il velo: non a caso sono le maggiori consumatrici di make-up del mondo arabo e, quando possono, si vestono in maniera estremamente sexy. Sotto l’abaya (un leggero soprabito nero che copre il corpo fino ai piedi, ndr) c’è molto sesso, o meglio molta rappresentazione del sesso. Le donne hanno un rapporto poco sereno, esasperato con la femminilità, perché per loro è tutto: essere donna vuol dire riuscire ad attrarre un uomo, sposarlo, tenerselo. Per molte l’essenza della vita è quella: sposarsi e avere dei figli, specialmente un maschio. Questi sono valori ancora fortissimi».

Qamar era una vera amica, per te. Ma i vostri rapporti si sono incrinati quando ti ha raccontato di aver esultato durante l’attacco alle Torri Gemelle…
«Qamar è la donna più occidentalizzata che abbia conosciuto lì: diventare amiche è stato facile perché avevamo codici comuni, molti argomenti di cui parlare. Lei è l’unica che mi abbia confessato di essere atea (in Arabia Saudita l’apostasia è un reato, ndr). Sono rimasta molto male quando mi ha rivelato la sua gioia in occasione dell’11 settembre: ma dopo ho capito che, probabilmente, nel suo rapporto con me aveva sempre mantenuto un’ambiguità di fondo. Una donna mi ha spiegato che per i sauditi l’ambivalenza nei confronti degli occidentali è normale: mentire agli infedeli non è considerato un peccato, anzi. La parola che è stata impiegata per spiegarmi questo fenomeno è: dissimulazione. Mi ha colpito perché ricordo che era la stessa che avevo incontrato studiando il periodo dell’Inquisizione, quando se avevi idee diverse da quelle della Chiesa dovevi dissimulare per sopravvivere. Evidentemente pure Qamar nel rapportarsi con me ha dissimulato tenendo nascosta da qualche parte, dentro di sé, l’idea che gli occidentali sono nemici. E, in quanto nemici, si può gioire se vengono sterminati in un attacco aereo».

In un capitolo affronti il caso delle donne maggiormente in difficoltà: quelle più povere.
«Sono venuta a contatto con una realtà terrificante e, purtroppo, ho compreso che si tratta solo della punta dell’iceberg. Le donne che vengono arrestate dai mutaween (i membri della polizia religiosa) perché hanno fatto anche un minimo gesto contro la morale – come rivolgere la parola a un uomo – sono considerate disonorate e spesso vengono rinnegate dalla famiglia. Finiscono quindi in centri di accoglienza gestiti da attiviste o da società di carità della Casa Reale. Lì ricevono aiuto, ma essendo senza onore, senza famiglia e senza guardiano, la loro vita è praticamente finita. Sono abbandonate, in povertà, non escono nemmeno più dagli istituti. In generale le donne povere sono nelle situazioni più critiche perché sono anche le più conservatrici: non hanno strumenti per aprire la mente, non hanno studiato, non hanno il computer e  spesso nemmeno la televisione. Rispetto a loro, Wadha, la ragazza di cui racconto nell’ultimo capitolo, che vive una situazione pesantissima di abusi familiari, è comunque una privilegiata, perché parla inglese, ha studiato, lavora…».

Ecco, parliamo di lei. La contraddizione maggiore in quella storia è che il padre, che la picchia e la tiene reclusa in casa per mesi, vuole però che lei studi, perché senza cultura non troverà marito…
«Più in un Paese ci sono limiti –  imposti dalla religione e da regole tribali – più le contraddizioni emergono numerose. Il padre di Wadha, che pure è un violento, all’inizio quando portava le figlie all’estero non le costringeva a velarsi: finché qualche parente non le ha viste e lo ha giudicato male. Il controllo sociale è serrante e provoca grandi angosce. E più il rigore è estremo, più le contraddizioni scappano fuori, è impossibile che sia altrimenti».

Nel libro riporti questa frase del poeta e attivista Hamza Kashgari: «Nessuna donna saudita finirà all’inferno, perché non si può essere condannate all’inferno due volte». Ecco: io, nonostante abbia molto apprezzato il distacco con cui tu racconti ciò che hai visto e sentito, ho pensato che avesse ragione.
«Mentre vivi lì ti abitui a tutto: a infilarti l’abaya con gesti rapidi prima di uscire in strada, a entrare solo nei posti riservati alle donne altrimenti vieni cacciata… Poi prendi un aereo e quando, atterrata da un’altra parte, vedi donne e uomini che interagiscono tranquillamente, ti stropicci gli occhi e ci metti un attimo a ricordare: ah, è vero, questo è il mondo normale. Non dimentichiamo però che l’Arabia Saudita è un Paese importante nello scenario internazionale, che riesce a conciliare principi rigidi – che poi sono gli stessi di Daesh – con il fatto, per esempio, che ci siano donne che vanno a laurearsi all’estero e poi tornano per mettersi sotto la tutela di un guardiano. Insomma, è troppo facile dire: è l’inferno. Se fosse così, sapremmo che prima o poi è destinato a finire. Invece quello che voglio far capire con questo libro è che ci sono inferni che possono stare in piedi a lungo. Inferni che, in qualche modo, funzionano. Però occorre dire che il cambiamento sta avvenendo. Per i nostri ritmi è lentissimo, ma è indubbio. Molte saudite ottimiste mi hanno detto: “Tu non hai idea dei passi avanti che sono stati fatti rispetto a qualche anno fa; ora ci sono argomenti di cui si inizia a parlare”. Anche il fatto di concedere il voto alle donne e di inserire membri femminili negli Shura Council, seppure siano atti più che altro simbolici, sono comunque significativi in un Paese così chiuso e refrattario ai mutamenti. C’è ovviamente da augurarsi che il progresso continui, perché con quello che sta avvenendo in Medio Oriente, si potrebbe anche tornare indietro».


 

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#ioquestamelasposo: il libro di Agata Baronello


Alessandro Rizzo (Pianeta gay)


– #ioquestamelasposo, vanda epublishing edizioni, è un libro scritto da un’autrice che si presenta ai lettori con il none en plume di Agata Baronello: storia vera, reale, autobiografica di una single che cerca per due anni in chat la compagna, aprendo inattesi scenari e intrecci fatti di eros, passioni, “incontri voluti, cercati, sperati”.

#ioquestamelasposo, vanda epublishing edizioni, è un libro scritto da un’autrice che si presenta ai lettori con il none en plume di Agata Baronello: storia vera, reale, autobiografica di una single che cerca per due anni in chat la compagna, aprendo inattesi scenari e intrecci fatti di eros, passioni, “incontri voluti, cercati, sperati”.

L’universo femminile si esplica e propone un’idea diversa dagli stereotipi preesistenti e discriminanti: il piacere e la sua ricerca sono i motori letterari di una narrazione viva e diretta, la storia di una vita, “la mia storia, i miei amori”, assicura l’autrice e conferma che tutto sia successo a lei.

Abbiamo intervistato Agata che ci anticipa che non avesse mai pensato di scrivere un libro e di pubblicarlo, ma è stato naturale rendere la sua storia, “una girandola di umanità coloratissima e saporitissima”, iniziata con la fine e l’elaborazione di un dolore dovuto al termine di una relazione affettiva, il soggetto del libro.

Da dove nasce l’idea del libro?

Non pensavo di scrivere un libro e neanche di pubblicarlo. Sono stata mollata da una donna che ho amato tantissimo. Ci abbiamo provato per due volte a stare insieme, dopo 10 anni dalla prima edizione ci siamo reincontrate. Sembrava un miracolo, ma si è trasformato in un incubo. Dopo aver torturato gli amici, la mia strizza, e tutti i conoscenti con il mio dolore ho cominciato a chattare su una chat di incontri lesbici. Tanti incontri, tante donne, tante storie! Una girandola di umanità coloratissima e saporitissima! Che non poteva restare nascosta tra le lenzuola!

Come è avvenuta la fase di scrittura?

Da queste storie improbabili, strampalate e dolcissime ne è nato un blog, che ha avuto un grande successo!
A quel punto è arrivata la casa editrice VandA epublishing. Ed ecco #ioquestamelasposo! Un ebook da leggere ridendo, sorridendo, e se vuoi anche pensando!

Parliamo della storia della protagonista: come si è instaurato il rapporto umano e di narrazione tra chi ha scritto il libro e la stessa donna?

Agata e Anne Marie sono super amiche! Si piacciono! Ma non si fidanzano! Meglio essere amiche! Almeno non ti perdi di vista!

Possiamo parlare di documentario o a quale genere ascrivere l’opera?

Non è un documentario! E io non sono un entomologo, non ho fatto studi di laboratorio! Io ci sono in prima persona. E’ la mia vita! Sono Io! Mi piace la definizione di Massimo Scotti un autore di VanDA, sostiene che ci sia un nuovo genere letterario il WEBNOVEL o CHATROMANCE. Un romanzo d’amore nato dai Social!

Il libro cosa vuole dimostrare?

Non voglio dimostrare nulla. E’ un pezzo della mia vita! E’ la ricerca di amore! Di compagnia! E forse, anche di senso! E’ un libro ironico, molto! Non ho tesi, c’è solo da leggere, sotto l’ombrellone, magari!

A chi si riferisce il libro come target?

Sono lesbica. E gli incontri sono tra donne! Ma è un libro che non ha genere, liquido nella sua ossessione e nella sua verità! E’ un libro per tutti e per tutte, per chi ha, a prescindere dal genere, la curiosità di intraprendere un viaggio che racconta un modo contemporaneo di cercarsi!

I vari amori e le affettività omosessuali: cosa si evince dalla storia?

Che ognuno di noi cerca qualcuno/qualcuna e che ci si trova con difficoltà! Che è difficile piacersi, parlarsi, amarsi!
Ma che non è impossibile! Il libro riserva sorprese! L’amore c’è! e non si vede, e non si sente! Arriva non cercato! Libero! Come è giusto che sia.

Letteratura e temi lgbt: quanto ancora può fare questa arte per abbattere pregiudizi e per un cambiamento culturale?

Non mi fare parlare serio! La letteratura è una cosa importante! Il mio libro racconta un mondo, forse non troppo conosciuto! Il mondo delle chat! Dell’amore e del sesso che si fa oltre i sentimenti, delle vite che si incrociano perchè per icona hai lady oscar! Ma il pane è politica come si diceva negli anni 70. E questo libro racconta senza veli, e senza filosofie le lesbiche, i loro desideri, i loro corpi, il loro sesso! Aiuta la causa? Spero proprio di si.


 

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Le ragazze di Riad, presentazione a Milano il 25 ottobre


(GiuliaGiornaliste – Globalist, 17 ottobre 2015)


– A BookCity Milano la presentazione del reportage “Nonostante il velo” di Michela Fontana.

Domenica 25 ottobre, alle ore 13, BookCity Milano (Mudec – via Tortona, 56) ospita La condizione femminile in Arabia Saudita, dalle “Ragazze di Riad” all’attivismo 2.0 con Marina Calloni, Michela Fontana, Sumaya Abdel Qader, Viviana Mazza. Modera Marta Boneschi.

L’ipotesi (ormai abbandonata) della possibile partecipazione dell’Arabia Saudita – dove la produzione letteraria consiste per lo più in testi religiosi, mentre la maggior parte dei romanzi viene messa all’indice – alla prossima edizione del Salone del Libro di Torino ha sollevato un gran polverone. Ma se è vero che la condizione femminile è il metro che consente di capire quale sia il livello di evoluzione delle società, nel paese dove vige la più rigida segregazione sessuale al mondo, sono proprio le donne ad esprimere le più forti istanze di rinnovamento.

La giornalista e saggista Michela Fontana, autrice del volume Nonostante il velo (VandA ePublishing, 2015), vivendo e lavorando per due anni e mezzo a Riad, è riuscita a penetrare la cortina di ferro e avere accesso a un mondo femminile del tutto precluso a molte occidentali di passaggio e a qualsiasi uomo, esplorando la società saudita dall’interno e raccontandola per la prima volta attraverso gli occhi delle donne che ne fanno parte. Il risultato è una straordinaria polifonia di voci che mostra paradossi e ambiguità, fornendo nel contempo una chiave di lettura per interpretare un mondo che fatichiamo a comprendere, semplicemente perché non lo conosciamo.


 

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Vanda editrice trasforma l’ebook in carta con l’Espresso Book Machine


di Lorenzo Andolfatto (Finzioni Magazine, 24 settembre 2015)


– Dal primo ottobre infatti chi avrà l’occasione per passare da uno dei circa 600 megastore della Mondadori potrà cogliere l’occasione per stamparsi in proprio il libro Il macellaio di Damasco, volume interessante che tratta della vita scellerata di Bashar Al-Assad, il presidente baffuto dal penchant dittatoriale da cui la Siria purtroppo dipende.

A me questa cosa dell’Espresso Book Machine sa tanto di quelle invenzioni alla Archimede Pitagorico, tipo l’albero autorastrellante, per dire. Il punto è che quest’affare esiste davvero, e permette di fare una cosa molto bella, ovvero permette al lettore di stamparsi libri personalizzati e a poco prezzo nei posti più impensati, come dal barbiere e dal pizzicagnolo, oppure (un po’ a malincuore) nei Mondadori Megastore.

Tutto questo per dire che io — da lettore all’antica — nemmeno sapevo dell’esistenza di questi macchinari, e la notizia della loro esistenza mi giunge nuova e (soprattutto) benvenuta grazie alla buona gente di Vanda Epublishing. Dal primo ottobre infatti chi avrà l’occasione per passare da uno dei circa 600 megastore della Mondadori potrà cogliere l’occasione per stamparsi in proprio il libro Il macellaio di Damasco, volume interessante che tratta della vita scellerata di Bashar Al-Assad, il presidente baffuto dal penchant dittatoriale da cui la Siria purtroppo dipende.

Il libro, firmato da Anna Momigliano (antropologa e caporedattrice della rivista Studio), era stato pubblicato in formato ebook appunto da Vanda Epublishing, ad integrare un già vivace catalogo che spazia dalle graphic novel al romanzo erotico. E certamente, visto il recente parlare di Siria delle ultime settimane, la pubblicazione “do it yourself” del saggio di Anna Momigliano rappresenta certamente una lodevole iniziativa, nonché un interessante approccio alla questione carta vs. ebook, che puntualmente ritorna a far discutere lettori ed editori. Senza nulla togliere alla comodità dell’ebook, e vero che questo manca di una certa tangibilità che forse, a qualche livello della mente, può contribuire all’esperienza della lettura, all’assorbimento dell’inchiostro dalla carta ai neuroni (cosa da non trascurare soprattutto per quanto riguarda un libro come Il macellaio di Damasco).

Se prima la mancanza dell’edizione cartacea vi tratteneva dal mettere le mani sui libri di Vanda Epublishing, adesso non ci sono più scuse! Buona lettura…


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Michela Fontana. Non è un paese per donne


di Ornella Ferrarini (Gioia, 17 settembre 2015)


– Dopo due anni in Arabia Saudita, l’autrice ha scritto un reportage sul paese, molto condizionato dalla legge religiosa. Che penalizza soprattutto la popolazione femminile.

Michela Fontana ha vissuto due anni a Riad con il marito, diplomatico italiano. Ha intervistato oltre cinquanta donne, di ogni estrazione sociale e di ogni parte del paese. Ha scritto un ritratto composito di una nazione all’apparenza internazionale, ma profondamente condizionata dagli insegnamenti della Sharia, la legge religiosa.

I sauditi che vivono all’estero sono più liberi ed emancipati? Sia uomini che donne approfittano della libertà, ma restano legati alla loro cultura e molto critici verso la vita occidentale. E si controllano tra loro. Gli uomini sembrano più liberali, non lo diventano.

Anche le attiviste non si oppongono alla dipendenza dal maschio. La tradizione tribale e la religione hanno un peso enorme. Per il Corano la donna è moglie e madre. È l’uomo che deve provvedere ai bisogni materiali della donna, che rimane un’eterna minorenne. In fondo era così anche nelle nostre società, quando la religione aveva il suo peso.

Cosa significa essere “libera” per una donna saudita? Nessuna saudita mi ha detto che vorrebbe essere più “libera”, caso mai più autonoma: poter viaggiare, guidare l’automobile e scegliere studio e lavoro, senza il consenso del guardino (il maschio di famiglia). La parola libertà, in senso occidentale, è sinonimo di mancanza di morale e principi.

Esiste una via saudita al progresso femminile? Per le saudite studiare all’estero e nelle università femminili del pese è un progresso. Poter lavorare, avere uno stipendio, sposarsi più tardi. Nei Paesi arabi si è diffuso fra le intellettuali il cosiddetto “femminismo islamico”, una rilettura del Corano più favorevole alla donna.

Ma le donne hanno voglia di cambiare? La maggioranza delle saudite ha paura del cambiamento, preferisce non guidare, si sente protetta dal guardiano, anche se le giovani che usano Internet e Twitter sono sempre più curiose. Salvo poche eccezioni comunque le donne non sono ancora pronte a mettersi in gioco e rischiare. I cambiamenti sono così lenti da sembrare impercettibili. E tutto potrebbe regredire all’improvviso se ci dovessero essere sconvolgimenti politici.


 

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#VivaSheherazade – L’Arabia Saudita, il paese delle eterne minorenni. L’intervista a Michela Fontana


di Martina Pagano (CriticaLetteraria, 6 settembre 2015)


 – Ad Aisha non piace il nero. Gira senza il velo, ma tiene l’abaya sul sedile dell’auto nel caso dovesse affrettarsi a indossarla.

Ad Aisha non piace il nero. Gira senza il velo, ma tiene l’abaya sul sedile dell’auto nel caso dovesse affrettarsi a indossarla. Vive a Dammam perché è stata allontanata dalla capitale, Riad.
Siamo in Arabia Saudita, il paese dei paradossi in cui lusso e ricchezza fanno da contrasto a norme religiose severissime che riguardano in particolar modo le donne. Le donne non possono guidare, non possono andare in bici, sono separate dagli uomini nei luoghi pubblici, ogni decisione dipende da un guardiano che sindaca sulle loro vite.
Ed è un paese di paradossi perché la sovrapposizione tra Stato e religione è pressoché totale e capire quali siano i confini tra le due istituzioni appare molto difficile. L’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo in cui a ogni donna, anche straniera, è proibito utilizzare l’auto, un divieto non di certo indicato nel Corano.
Si tratta di una delle tante norme non scritte che, tuttavia, viene fatta applicare con estremo rigore da parte dei religiosi. Su questo e altre restrizioni vigila una polizia, anch’essa religiosa, che rimanda ogni infrazione ai giudici il cui compito è far rispettare la legge islamica, la Sharia, letteralmente ‘strada battuta’. Niente di più chiaro.

Michela Fontana, saggista e giornalista, conosce bene l’Arabia Saudita. Ha vissuto a Riad insieme al marito dal luglio 2010 al dicembre 2012 per ragioni lavorative. Durante il suo soggiorno, non solo ha sperimentato che cosa significhi essere una straniera nel paese più intransigente tra quelli islamici, ha voluto conoscere coloro che ogni giorno, per una questione di genere, si imbattono in obblighi e limitazioni,. Le donne.
Il suo libro Nonostante il velo, pubblicato quest’anno da VandA.epublishing, è una galleria di ritratti tutta al femminile attraverso cui capire che cosa voglia dire nascere donne in Arabia Saudita.
Al telefono Michela mi ha raccontato la sua esperienza, gli incontri, le impressioni e quello che vivere a Riad le ha lasciato.

Hai avuto subito l’idea di raccogliere le testimonianze delle donne saudite di Nonostante il velo?
Mi era stato detto che la condizione femminile in Arabia Saudita fosse varia e interessante. Ho voluto approfondire. Non è stato semplice mettere insieme le storie, soprattutto perché dovevo capire se le protagoniste fossero disponibili a raccontarsi. Si trattava di trovare il ‘tono giusto’ con cui avvicinarle e conoscerle.

Come sei riuscita a raccogliere le storie del libro?
Era stato uno scrittore inglese a parlarmi della celebre manifestazione per il diritto alla guida del 6 novembre 1990, quando a Riad una cinquantina di donne si misero al volante per protestare contro il divieto a usare l’automobile. Essendo uomo, per lui non era stato possibile intervistare quelle donne coraggiose che avevano compiuto un gesto così provocatorio e destinato a essere ricordato.
Sono partita conoscendo le donne più aperte, quelle di ceto elevato, che avevano studiato all’estero, molto spesso attiviste impegnate per i diritti delle altre saudite. Ma ho voluto incontrare anche le donne comuni, quelle che conducevano una vita ordinaria e senza privilegi.
Tuttavia, per nessuna è stato semplice: riuscire a entrare in contatto con le donne saudite richiede molto impegno.

Molte delle donne che hai incontrato sono emancipate, istruite, si ribellano contro l’establishment del loro paese, viaggiano e ricoprono ruoli professionali importanti. Possono permettersi di fare tutto questo a che prezzo?
In Arabia Saudita la famiglia di appartenenza rappresenta un privilegio. Avere le spalle coperte da un parentado facoltoso consente di esporsi. Certamente queste donne sono malviste dal governo e dai religiosi. Le attiviste esistono, ma non devono superare la linea rossa se vogliono continuare a vivere in Arabia Saudita e non essere perseguitate o addirittura minacciate di morte. L’alternativa è il carcere o iniziare una nuova vita altrove.
Aisha, la fautrice della manifestazione del 1990, proviene da una famiglia benestante, ma dopo quell’episodio fu interrogata e costretta a lasciare Riad per sempre. Le persecuzioni nei suoi confronti continuarono obbligandola a trasferirsi all’estero per un periodo.
Nel 2011 la lotta per il diritto alla guida venne ripresa da una nuova generazione di attiviste, in particolare dalla combattiva Manal al-Sharif, dipendente della Saudi Aramco (ndr la più grande azienda petrolifera mondiale con sede a Dhahran nella Provincia Orientale del paese) che diffuse in rete un video che la ritraeva alla guida.
Non è difficile immaginare come andarono le cose: Manal venne stata arrestata e costretta a scusarsi. Non finì qui perché, quando l’anno successivo la sua notorietà la portò a Oslo a ricevere un premio per l’impegno civile, i sauditi la minacciarono di morte facendole perdere il posto di lavoro all’Aramco. Oggi vive fuori dal paese.

Come vive, invece, una donna comune in Arabia Saudita?
Ogni donna, a prescindere dalla discendenza, ha un guardiano (wali amr) che, a seconda dei casi, può essere il padre, il marito o il maggiore dei figli maschi.
Ancora una volta le tradizioni contano molto. In base alle consuetudini familiari le donne devono indossare un’abaya più o meno lunga (il tradizionale soprabito nero fino ai piedi), coprirsi il volto con il niqab (una mascherina che lascia scoperti solo gli occhi) o anche le mani con guanti neri. Le abitudini possono variare, ma le donne in Arabia Saudita hanno l’obbligo di velare sempre il capo con l’hijab.
La segregazione di genere è particolarmente rigida: la maggior parte dei luoghi pubblici ha entrate separate per uomini e donne e nei ristoranti le donne possono sedersi con il marito o un parente stretto oppure con le amiche in un’area dedicata.
E poi c’è la questione della guida. L’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo in cui le donne non possono guidare, nemmeno le straniere. Questo costituisce un problema non da poco perché si ritrovano nella necessità di dover essere accompagnate ovunque. È possibile ricorrere a un autista tramite le agenzie addette, ma molte non possono permetterselo. Una ragazza mi raccontava che nessun parente fosse in grado di darle un passaggio al lavoro, l’unico uomo era il nonno novantenne. Dovette rinunciare all’incarico.
Il punto è che non esistono nemmeno i mezzi pubblici. Niente autobus, niente tram perché i passeggeri maschi e femmine sarebbero costretti a mescolarsi. Di recente a Riad hanno iniziato i lavori di costruzione della metropolitana che, naturalmente, avrà ingressi separati.
A tutti i divieti e imposizioni si aggiunge il controllo severissimo della polizia religiosa, i mutaween.
Non è un caso se secondo un detto ‘in Arabia Saudita è tutto proibito tranne quello che è permesso’. Facendo due conti, praticamente niente.

Ci sono donne che, però, vivono bene le loro tradizioni…
In Arabia Saudita il culto ufficiale è il wahhabismo, un’interpretazione dell’Islam molto rigorosa. Il ruolo della religione è pervasivo, nelle scuole ci si dedica allo studio del Corano per cinque ore al giorno.
Cinque sono anche le volte in cui i musulmani pregano quotidianamente, ma in Arabia Saudita durante i momenti della preghiera (salat) tutto si ferma: per circa venti o trenta minuti si smette di lavorare, si interrompe qualsiasi attività. È la normalità.
E anche per le donne è così. Non provano fastidio a indossare il velo, non si meravigliano della segregazione sessuale e accettano la poligamia. C’è una sorta di naturale rassegnazione. Direi che le donne saudite amano il quieto vivere.

Potresti spiegarmi la differenza tra l’applicazione del Corano e dei principi della Sharia, la legge islamica?
L’Arabia Saudita è forse l’unico paese al mondo in cui la legge del posto corrisponde alla Sharia che si basa sul Corano e sugli hadith, cioè gli atti e i detti del profeta Maometto.
Nonostante il governo abbia emanato delle leggi su materie specifiche, la Sharia regola moltissimi aspetti della società, in particolar modo in merito al diritto di famiglia. Un esempio è, come si diceva, la poligamia.
La Sharia è presente in tutti i paesi di religione islamica, tuttavia la sua interpretazione può variare da un’applicazione più rigida a una più soft. È certo che la poca tolleranza possa essere molto rischiosa e un fenomeno come l’Isis ne è la prova.

In Nonostante il velo racconti di molte donne scrittrici. Quanto conta per le saudite la letteratura?
Oggi per le donne il romanzo è un potente mezzo di espressione. Naturalmente, a causa della censura, pubblicano le loro opere fuori dal paese, ma il governo e i religiosi trovano il modo per leggerle.
Scrivere non permette solo di denunciare la condizione femminile del paese, è anche uno strumento attraverso il quale mostrare la propria personalità non potendolo fare nella vita quotidiana.
L’esempio più interessante è stato Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea. Pubblicato in Libano nel 2005, è il romanzo di un’allora ventitreenne sulla vita delle coetanee in Arabia Saudita, un messaggio per raccontare, da un lato, la normalità delle aspettative delle ragazze saudite, ma dall’altro, per far luce sui limiti a cui esse sono costrette dalla società.
In generale, sono molte le intellettuali che si servono della scrittura per poter modificare certi aspetti del loro paese, sono donne che hanno scelto di vivere in Arabia Saudita o in nazioni islamiche perché, malgrado tutto, hanno a cuore le proprie radici.

Durante la tua permanenza in Arabia Saudita hai conosciuto le storie di tante donne diverse tra loro, ma hai anche visto con i tuoi occhi una società opposta alla nostra. Che cosa ti sei limitata a osservare e cosa, invece, ti sei sentita di giudicare?
Nonostante il velo non è nato per dare giudizi perché quello che interessava a me era capire. Malgrado ciò, è doveroso avere una propria opinione. Un’abaya non è un metro di valutazione, ma un credo per cui le donne rimangono delle ‘eterne minorenni’, quello sì che va giudicato. Perché una donna saudita non può guidare? Perché rischia il carcere se pretende dei diritti?
Se facciamo un paragone con l’Occidente, allora perché una donna saudita in Europa può vestirsi come desidera (anche se quasi tutte portano almeno il velo per non far parlare di sé una volta rientrate a casa), mentre una straniera nel loro paese deve indossare l’abaya? Perché una donna saudita all’estero può prendere la patente e guidare, ma in patria l’auto è negata anche alle straniere? Perché noi offriamo libertà di culto e per i sauditi esiste solo l’Islam?
È giusto andare nel profondo di faccende come queste però dichiaro con fermezza che le culture si debbano rispettare reciprocamente. Nel mio paese esiste la libertà di espressione ed esiste la sacrosanta separazione tra stato e religione. Tutto questo va difeso agli occhi altrui.
Luoghi come l’Arabia Saudita devono necessariamente arrivare a un’apertura maggiore.

Cosa ti sentiresti di consigliare a una donna che dovesse trovarsi a vivere in Arabia Saudita?
Le direi di non avere pregiudizi e di non pensare subito sia un paese oppressivo. Le suggerirei di cercare il contatto con le altre donne perché sono incontri che l’arricchiranno, come è stato per me.
Ho vissuto in tante parti del mondo e ho imparato quanto si possa apprendere da una cultura diversa senza giudicare. Bisogna saper coglier il bello persino in un paese complesso come quello di cui racconto nel libro, con paesaggi meravigliosi e persone che sanno essere anche molto ospitali.
Per me è stata un’esperienza unica. Sono ritornata dopo circa un anno grazie alla conoscenza con una coppia di amici stranieri, ma si è trattata di un’occasione difficilmente ripetibile perché il turismo in Arabia Saudita, come molto altro, non è concesso.

L’autrice
Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese e in inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

La casa editrice
VandA.epublishing è una casa editrice digitale e indipendente fondata a Milano nel 2013 da Vicki Satlow, Angela Di Luciano e Silvia Brena, professioniste del settore editoriale.
Oltre a pubblicare una grande varietà di proposte letterarie, l’interesse di VandA è, sin dall’inizio, quello di dare spazio ad autori emergenti o del passato puntando su approfondimento e originalità. Inoltre, grazie alla sostenibilità del formato digitale dà la possibilità di rimettere in circolazione libri altrimenti tagliati fuori dal mercato.


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Nonostante il velo, il réportage di Michela Fontana sulle donne dell’Arabia Saudita


(GiuliaGiornaliste – Globalist, 15 agosto 2015)


– L’autrice ha vissuto due anni e mezzo a Riad, durante i quali ha esplorato dall’interno la società saudita e le sue donne.

Evvai!! L’immagine è sgranata, ma trasmette tutta la gioia che viene a questa donna dal gesto liberatorio con cui si disfa del nero sudario. Liberatorio del corpo, e dell”anima. Una gioia non soltanto personale, ma civile cioè collettiva, che coinvolge la famiglia della giovane siriana in fuga ed il futuro in cui abiterà il loro bambino. Quest’immagine è tecnicamente figlia del nostro tempo, scattata al volo, sovraesposta, ma con la stessa forza epocale del “repubblicano che cade” di Robert Capa.
Per capire come ci si attrezza a vivere dentro un carcere senza sbarre, fatto di tela ma anche di divieti e guardiani, e quali contraddizioni agitino le stesse “prigioniere”, ma anche quali connivenze ahinoi, conviene leggere il bel réportage sulle donne dell’Arabia Saudita di Michela Fontana Nonostante il velo.
Michela, giornalista, storica, matematica: tre vite in una (e siamo ancora a metà del suo viaggio esistenziale…), già autrice del tradottissimo saggio Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming è amica di Giulia e Giulia le sta dando una mano per promuoverlo contro le resistenze, passive per lo più ma anche attive, di chi non vorrebbe disturbare una nazione che molti euro sta investendo in questo Paese…
Il libro è già in vendita e verrà presentato ufficialmente entro Book City, ad ottobre a Milano. Ma noi ne parleremo prima. Ne sarebbe felice anche la giovane donna siriana delle immagini qui sopra.


 

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Erotismo al femminile: le italiane sanno fare anche da sole


di Francesca Amè (Io donna, 31 luglio 2015)


– Oggi 31 luglio è la giornata internazionale dell’orgasmo. E, dati alla mano, le donne italiane si stanno dimostrando sempre più emancipate nel campo dell’eros e capaci di ricercare da sole il piacere. Anche con sex toys e pornografia al femminile.

L’erotismo? Sostantivo femminile plurale. Declinato come le donne di oggi: mature, indipendenti, libere. C’è una nuova rinascita del piacere, tra le italiane – qualcuna parla addirittura di ‘rivincita’, dopo anni di sottomissione – e per ogni Anastasia Steel di carta, c’è una donna in carne e ossa che si mette davanti al computer per comprare accessori, gustarsi film o leggersi libri ad alto tasso erotico. Il tasso giusto però, ovvero un cocktail ben dosato di sesso, seduzione, intelligenza, realismo.

Il nuovo erotismo delle donne italiane è fatto di una ricerca del piacere che rifugge modelli stereotipati e maschili, che accarezza narrazioni complesse e pretende verità nella rappresentazione delle storie e dei corpi. In questa bollente estate 2015, le donne italiane hanno imparato a cercare da sole gli spazi appaganti per il proprio eros. Lo dimostrano anche i dati che Sexalia.it fornisce a iodonna.it in anteprima. La piattaforma italiana di e-commerce specializzata nella vendita di sex toys, lingerie e accessori erotici e gestita da Alessandro Fabiani, il ceo, che è laureato in fisica, con DarIo Ferretti e Maurizio Ruffo, e che si è data come obiettivo quello di sdrammatizzare il settore, ha appena lanciato un sondaggio tra i suoi utenti sui prodotti più appetibili.

I sex toys più venduti in rete sono quelli per il piacere femminile: vibratori e dildo, preferibilmente realistici. Diciamolo subito: non è roba da ragazzine. La fascia di età delle clienti è compresa tra i 35 e i 50 anni: sono donne disposte a spendere in media 51 euro a testa per soddisfare i propri desideri e pronte ad acquistare accessori e toys anche su canali di larga fruizione, ad esempio con campagne su gruppi di acquisto on line. Segno evidente – questo – che la soglia del pudore femminile in Italia si è abbassata, specie nelle grandi città (Roma, Milano, Torino, Brescia sono i centri di maggiore acquisto nel settore).

Si sono alzate invece le esigenze delle donne, eccome. In questa nostra inchiesta sul piacere femminile, ci siamo fatte guidare da Erika Lust, pluripremiata regista e scrittrice svedese, classe ’77, natali a Stoccolma e ora di casa a Barcellona dove da una decina d’anni realizza con successo film “erotici e femministi” (parole sue). Noi diamo i dati: la sua casa di produzione, che vive di autofinanziamento ed opera al di fuori delle logiche delle major del settore, ha un team quasi esclusivamente femminile e un pubblico fedele che ha permesso a Erika Lust di accreditarsi anche tra i critici come autrice intelligente ed innovativa del genere erotico.

«L’erotismo ha sofferto molto negli ultimi anni. Tutta colpa del porno mainstream che ha confuso le persone, trasformando l’eros in qualcosa di volgare, facile ed economico. Per fare film erotici servono invece immaginazione, capacità seduttiva, stimolazione sessuale», racconta Erika. L’occasione è la presentazione, in anteprima per iodonna.it, del suo nuovo progetto cinematografico. Si chiama «Xconfessions» ed è una serie di cortometraggi erotici dall’animo social. L’idea è semplice: perché non sfruttare i reali desideri del pubblico per costruire sceneggiature realistiche? Ogni mese gli utenti del sito xconfessions.com inviano in forma anonima le loro fantasie sessuali e la regista svedese sceglie le due storie più stuzzicanti e le trasforma in cortometraggi che poi riversa on line.

È la prima volta che il settore dell’intrattenimento per adulti si apre ai social in questo modo: un altro segno, l’ennesimo, che l’erotismo sta maturando. Che gli utenti cercano una partecipazione attiva, non una fruizione veloce e banale dei prodotti. Cercano un’esperienza del piacere. Per Erika Lust si tratta in fondo di un ritorno al porno d’autore: «Pensiamo ai registi degli Anni 70, persone come Bob Chinn e Bud Townsend, che giravano pellicole in cui l’eros era il simbolo e l’affermazione del potere delle donne: il porno mainstream ha trasformato tutto questo in un erotismo triviale, teso a degradare le donne e i loro corpi.

Un danno enorme, specie per le giovani generazioni che non conoscono le vecchie produzioni e on line cercano solo gratificazione immediata: vogliono un piacere veloce, gesti rapidi, senza prendersi il tempo giusto per indagare a fondo i loro desideri. Ma ora la sensualità si sta prendendo la rivincita: le donne vogliono mostrare a tutti che non sono strumenti nelle mani del piacere maschile ma persone seduttive e desiderose, a loro volta, di essere sedotte». Secondo la regista svedese, si può parlare di un nuovo femminismo nel settore.

«Registe come Jennifer Lyon Bell, Tristan Taormino, Ovidie, Vex Ashley, solo per citarne alcune che stanno rivoluzionando e ridefinendo il genere, non mostrano più donne in attesa di cavalieri pronti a iniziarle ai piaceri del sesso – spiega -. Tutte noi cerchiamo donne sicure di sé, femminili, piene di curiosità senza essere volgari: questo nuovo modo di pensare all’erotismo femminile nasce dal desiderio di mettere sullo schermo la parità tra i sessi, anche sotto le lenzuola, e si batte per una valida rappresentazione delle donne, dei loro desideri e dei loro corpi».

Ma che cosa cercano le donne nel porno d’autore? «Un sesso veramentale piacevole. Cercano storie con una buona sceneggiatura e narrazione, una scrittura e un’interpretzione capace di accendere la loro immaginazione e i loro sensi. Cercano vere donne e veri uomini che si danno piacere, amano che si indugi su dettagli quali l’espressione facciale. Le donne apprezzano una buona regia, la scelta delle location, dialoghi non approssimativi. Attenzione: non sto dicendo che le donne vogliono un porno ‘epurato’, fatto di petali di rosa e lenzuola di seta. Vogliono un sesso “sporco” come spesso piace anche agli uomini ma girato meglio, in modo più convincente e – diciamolo – senza che il membro maschile sia il solo oggetto di attenzione. Vogliono il corpo degli uomini si mostri in tutta la sua bellezza e complessità: il volto, le mani, il busto, così come accade per quello delle donne».

Una declinazione particolare dell’erotismo al femminile sta venendo timidamente allo scoperto anche nelle librerie italiane. Parliamo del mondo lesbo. Lo dimostra l’ebook, disponibile da questi giorni per vanda.epublishing (al costo di 5,99 euro), #ioquestamelasposo, inedito, divertente ma non poco sofferto viaggio nel piacere declinato tutto al femminile. A guidare le lettrici è Agata Baronello, nom de plume dell’autrice, professionista single, che ha vissuto sulla sua pelle «la fine di un amore, il dolore, l’elaborazione del dolore, l’iscrizione ad un’app di incontri lesbici, gli incontri voluti, cercati, sperati». Si tratta del racconto, quasi il report, di due anni di chat suddivisi in dieci incontri che si aprono su un universo femminile a tratti inaspettato: dietro il nick, ci sono donne sposate e infelici, donne spavalde, donne che cercano attraverso il sesso un ruolo che non hanno, donne buone e donne truci, donne fedele e donne fedifraghe.


 

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Donne con il velo a #CasaCorriere


di Ida Bozzi (ViviMilano, 22 luglio 2015)


 Cosa si nasconde dietro al velo di una donna saudita? Sottomissione, religione, volontà di libertà?

Cosa si nasconde dietro al velo di una donna saudita? Sottomissione, religione, volontà di libertà? La milanese Michela Fontana ha vissuto due anni in Arabia Saudita per cercare di capirlo e di entrare in contatto con una cultura per molti versi distantissima dalla nostra. Racconta la sua esperienza venerdì 24 luglio a #CasaCorriere nell’incontro “Una matematica milanese in Arabia Saudita” (ore 18.30). Partendo dal suo libro “Nonostante il velo”, intervistata da Viviana Mazza, propone uno sguardo femminile e occidentale sulle donne con il velo.


 

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Nonostante il velo, l’Arabia Saudita delle donne


di Marta Traverso (Mentelocale, 18 luglio 2015)


– Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente?

Se dico Arabia Saudita, quali sono le prime parole che ti vengono in mente? Tento un’ipotesi: petrolio, Islam, La Mecca, re, Osama Bin Laden, Raif Badawi. Se dico Arabia Saudita dopo aver letto Nonostante il velo e parlato con l’autrice Michela Fontana, queste le prime parole che vengono in mente a me: abayahijabniqabhalalharamShuramahrammutaween. Immersa nella melodia dei termini più pronunciati tra le donne in quel Paese, scopro ancora una volta che ogni luogo e ogni comunità di questa terra non è un unicum – sebbene spesso lo percepiamo come tale – ma una complessa varietà di sfaccettature e sfumature.

Nonostante il velo racconta storie di saudite dirigenti d’azienda, avvocate, ingegnere, dottoresse, persino una viceministra. Saudite che si truccano e ricorrono alla chirurgia estetica, pur coprendosi il viso con il niqab ove sono tenute a farlo. Saudite che hanno studiato in Egitto, Europa e Stati Uniti, e hanno poi fatto ritorno a casa, perché è la loro casa, appunto. Saudite che scaricano film da Internet, leggono clandestinamente i romanzi haram (proibiti), cercano l’amore nelle chat e si informano su Twitter. Saudite che piangono la morte di Osama Bin Laden e si scandalizzano all’idea che una recente legge consenta loro di lavorare come commesse nei negozi di abbigliamento e biancheria intima femminile.

Scelgo di parlare con Michela perché queste storie, le loro sfaccettature e sfumature, meritano rispetto. Il rispetto che lei per prima, mi spiega, ha accordato loro durante la sua permanenza: «Devo premettere che quanto descrivo è solo uno spicchio della società saudita: le donne che hanno accettato di parlare con me, perché non tutte sono disposte o interessate a conoscere un’occidentale, e che hanno avuto il permesso dai rispettivi guardianiConfesso di aver avuto difficoltà, all’inizio, nel trovare il tono più giusto per parlare, porre domande, creare un legame di reciproca fiducia. L’altra persona lo sente, quando ti rivolgi a lei con pregiudizio: solo sgombrando del tutto la mente mi sono potuta avvicinare a persone con una cultura così lontana dalla mia».

Le saudite non possono fare nulla senza l’approvazione del guardiano (mahram), il parente maschio più prossimo: né lasciare il Paese, né prelevare dal bancomat, né iscriversi all’Università o cercare un lavoro. La condizione femminile ha conosciuto una recente evoluzione quando il re Abdullah, deceduto da pochi mesi, ha accordato loro il diritto di voto e la possibilità di candidarsi ai consigli municipali e di entrare nella Shura, l’organo consultivo della monarchia. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto, se non per mano di un uomo. «La rivendicazione dei diritti delle saudite si può definire femminismo di Stato, precisa Michela. ­Donne che ottengono privilegi grazie a famiglie benestanti e di aperte vedute, che consentono loro di studiare all’estero e trovare poi lavoro in una delle grandi aziende saudite, talvolta quella di famiglia. Donne che vengono poi esibite, a cui è consentito incontrare persone straniere e andare all’estero, a rappresentare e raccontare il proprio Paese. Un ulteriore privilegio che si ottiene per concessione del re, Padre gentile e illuminato, e non un diritto che spetta loro tout court».

Una cosa alle saudite non è ancora permessa: guidare. Chi deve spostarsi per necessità quotidiane, per andare all’Università oppure al lavoro, deve essere accompagnata ogni giorno da un parente maschio o da un autista. Il diritto alla guida, che nel Paese con una segregazione sessuale tra le più rigide al mondo non è certo una priorità, ha acquisito nel tempo un forte valore simbolico. Michela ha incontrato alcune donne che nel 1990 hanno partecipato alla prima manifestazione della storia saudita, guidando nel centro della capitale Riad. «La guida è emblematica nel dare l’idea di quante limitazioni vivano le saudite, prosegue Michela. Una rivendicazione simbolica ma efficace, tanto che le ultime due donne che hanno guidato in pubblico, verso la fine del 2014, sono state arrestate con l’accusa di terrorismo. Molte di loro mi hanno confidato che guidare non è poi così importante, sia tra chi sostiene è così comodo avere l’autista, ma anche tra chi l’autista non può permetterselo. Il vero obiettivo, più difficile da affrontare apertamente, punta dritto al cuore della segregazione: non vogliamo più essere solo donne, ma esseri umani, mi hanno detto. La figura del guardiano ricorda – se mi si concede il paragone – quella dei/delle minorenni occidentali, che hanno bisogno dell’autorizzazione dei genitori quasi per ogni cosa che fanno: la condizione delle saudite è di essere minorenni a vita».

Ciò che tuttavia emerge, dalla lettura di Nonostante il velo, è che molte non cambierebbero la loro condizione. Il loro destino è radicato fin dalla primissima infanzia attraverso una rigida educazione wahhabita (la corrente dell’Islam praticata in Arabia Saudita), e anche chi ha vissuto all’estero vede l’Occidente come un luogo senza morale e pericoloso. Mi domando quanto sia stata reciproca la curiosità, quante e quali domande siano state poste a Michela, non solo sulla condizione femminile in Occidente ma anche su argomenti più leggeri come la cucina italiana. «Ho percepito di rado una simile curiosità da parte loro, non sono state in molte a pormi domande, e qualora avvenisse era sempre restando sulla difensiva. Come noi occidentali abbiamo preconcetti sull’Islam duri da sfatare, loro ne hanno di analoghi nei nostri confronti, e non sembravano interessate a ottenere chiarificazioni a riguardo. Il trovarsi nella stessa stanza con un’occidentale e parlare con lei esauriva già la loro curiosità. Anche le più giovani, le attiviste, mi chiedevano di essere un mezzo per far sentire la loro voce al di fuori del Paese, ma nulla di più».

Michela è tornata in Italia da circa due anni. Le donne che ha incontrato sanno che le loro conversazioni sono divenute un libro, ma non lo possono leggere. Nonostante il velo è haram (proibito) in Arabia Saudita. Chiedo a Michela cosa le manca di più di quel Paese: «Vivere in Arabia Saudita mi ha arricchita moltissimo, sotto diversi aspetti: io stessa, nonostante fossi straniera, ho dovuto sottostare alle stesse regole imposte alle donne saudite. In un Paese occidentale sarebbe impensabile vivere così immersa in ambienti esclusivamente femminili, e ho compreso che le dinamiche emotive e molti argomenti di conversazione fra donne sono identici in ogni luogo del mondo. Non sarebbe giusto andare da queste donne a impartire lezioni, a trasmettere i nostri valori come i più giusti o gli unici giusti. Il solo risultato che si ottiene è un atteggiamento di difesa e ostilità da parte delle donne. L’Arabia Saudita è un Paese dove tutto procede molto lentamente, e dove i principi della cultura e della religione sono radicatissimi in ogni persona. Ho incontrato ragazze molto giovani, la cui mentalità è assai diversa da quella delle loro madri: chattano con i ragazzi per scegliere da sé il futuro marito, in un Paese dove donne e uomini non imparentati non possono stare nella stessa stanza. I desideri di cambiamento devono maturare dall’interno, nessuno glieli può imporre».

Vero. L’istinto di liberare le oppresse viene meno, proseguendo nella lettura, quando ci si rende conto che poche fra loro vogliono o ritengono di poter essere liberateSolo chi vive situazioni di estrema violenza, come la ragazza dell’ultima storia raccontata nel libro, che scappa non da una cultura o da una religione ma dal pericolo per la sua stessa vita. Tutte le altre – ripeto, donne benestanti e con un guardiano aperto, in una società dove la povertà è presente ma tenuta nascosta – sanno dalla nascita che la loro vita è quella, e la scelgono di buon grado anche dopo aver conosciuto il modo di vivere occidentale. Come una donna ha fatto notare a Michela, anche da voi le donne guadagnano meno degli uomini, no? Non siamo poi così diverse.