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Bilancio e Recovery Plan: non è una ripresa per donne – Feministpost.it

Oggi, 3 febbraio 2021, su Feministpost.it è uscito un importante articolo di Veronica Tamborini e Marina Terragni sulla preoccupante situazione dell’occupazione femminile.

Ecco l’articolo:

La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli”.

Carla Lonzi, Carla Accardi, Elvira Banotti Manifesto di Rivolta Femminile – Roma 1970.

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Numeri impietosi per l’occupazione femminile: in dicembre l’Istat registra una flessione dei posti di lavoro dello 0,4% rispetto a novembre, 101 mila occupati in meno. Di quei 101 mila 99 mila sono donne (il 98%) e 2 mila gli uomini. Su base annua sono stati persi 444 mila posti di lavoro e 312 mila nuove disoccupate sono donne. Una débâcle senza precedenti a fronte della quale le misure previste dalla legge di bilancio 2021 si confermano ampiamente insufficienti. La cosiddetta “parità” è pura ideologia.

Tra le misure, l’istituzione di un fondo per promuovere la parità salariale (2 milioni di euro all’anno dal 2022); un fondo di dotazione per l’imprenditoria femminile (20 milioni di euro annui per 2021 e 2022) e un fondo contro le discriminazioni e la violenza di genere (2 milioni di euro annui dal 2021 al 2023) destinato ad associazioni del terzo settore per interventi di promozione della libertà femminile e contro le discriminazioni basate su “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità”. Si ripete cioè il gravissimo errore simbolico e politico della proposta di legge Zan contro l’omobitransfobia che non indica le donne come la metà abbondante del genere umano ma come una tra le minoranze svantaggiate. Sono previsti inoltre sgravi contributivi per l’impiego di donne disoccupate da più di sei mesi. In ogni caso si tratta di cifre molto basse se confrontate con il totale della manovra, pari a quasi 40 miliardi di euro.

Se guardiamo invece l’ultima bozza di Recovery Plan o Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) approvata il 12 gennaio scorso dal Consiglio dei Ministri (bozza con ogni probabilità tutt’altrio che definitiva) donne, giovani e Sud sono i tre assi prioritari trasversali, ma manca una chiara indicazione degli obiettivi previsti e degli strumenti per realizzarli. In particolare, le politiche per le donne sarebbero incluse nell’asse strategico “inclusione e coesione” a cui sono destinati 17,2 miliardi di euro, suddivisi tra politiche per il lavoro (5,85 miliardi di euro); infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore (7,15 miliardi di euro); interventi speciali di coesione territoriale (4,19 miliardi di euro).

Le principali misure rivolte alle donne sarebbero orientate a favorire l’occupazione femminile attraverso politiche attive del lavoro, decontribuzione fiscale e investimento in settori dove le lavoratrici sono la maggior parte (cura, cultura, turismo). Sono inoltre stati stanziati 400 milioni di euro per l’imprenditoria femminile. 

Anche questo piano risulta molto generico e – al di fuori dell’importo destinato a favorire l’imprenditoria femminile – non risulta chiara l’allocazione di risorse specifiche per le donne nemmeno nelle politiche per l’occupazione, come afferma Fiorella Kostoris sul Sole 24 Ore, parlando di “scomparsa della parità di genere” e chiedendo che ogni Missione e ogni Componente del PNRR indichi i fondi precisamente allocati per le politiche per le donne insieme a una valutazione di impatto di genere con un controllo ex-ante e da verificare ex-post.

Ma anche se le donne nel piano vengono indicate come priorità, mancano del tutto la presenza, lo sguardo e la radicalita’ della differenza femminile, pensata e trattata come marginalità da includere “paritariamente” riperpetuando quindi le logiche di esclusione.

Per settori come il “Green” e il “Digitale” – a cui sono destinate la massima parte delle risorse del piano – si rileva una fortissima presenza maschile a scapito di quella femminile sia in termini di capitale sia di forza lavoro, e questo benché la cosiddetta “economia circolare” si fondi sul talento femminile a non sprecare, e moltissime imprese femminili siano nate in questo ambito. Se ci pensate sono le logiche dell’economia domestica che vanno in giro per il mondo, è quello che sappiamo fare da sempre. Impresa femminile è anche questo, portare le logiche di casa nel mondo, portarle nello spazio pubblico dal quale sono state estromesse per confinarle nel privato. E riportare l’economia a casa, nell’oikosstrapparla alla finanziarizzazione senza tetto né legge. Ma nel Piano il Green resta soprattutto affare degli uomini.

Per rendere evidente il problema, la valutazione sul cosiddetto “impatto di genere” potrebbe essere un primo passo, purché non si riduca a un esercizio tecnico fine a se stesso -e a ulteriori organismi di controllo- e possa avere ricadute immediate in termini di politiche e di risultati per bambine, ragazze e donne. Ma di sicuro non si tratta della strada principale.

Lo scorso 23 gennaio, Giusto Mezzo ha organizzato un flash mob con lo slogan “Non ci basta!” per evidenziare che le previsioni del piano non risultano sufficienti per le donne e per chiedere maggiori fondi per asili nido, servizi di cura per non autosufficienti, tutele di maternità per lavoratrici autonome. L’iniziativa prende spunto dalla petizione “Half of it” di Alexandra Geese, eurodeputata dei Verdi e responsabile del Gender Budgeting presso la Commissione bilancio del Parlamento europeo che richiede che la metà dei fondi del Next Generation EU sia dedicata alle donne. Un’iniziativa per molti aspetti efficace in termini di risposta delle istituzioni e di alcune aree politiche: molte donne e molte professioniste sono impegnate in modo concentrato e “verticale” sul piano e sull’utilizzo dei fondi del Ricovery Plan. La Commissione Europea ha confermato che la parità di genere è uno dei i criteri con cui giudicherà i piani nazionali Next Generation EU, che dovranno anche indicare le debolezze nazionali esistenti in proposito, l’aggravamento a causa della crisi e gli strumenti per affrontare il problema nei vari capitoli di investimento.

Il 31 gennaio e’ stato presentato in Italia il manifesto “Donne per la salvezza – Half of it – Idee per una ripartenza alla pari” da presentare al Governo e che si articola in cinque aree principali e in alcune politiche di lunga durata

a) governance e valutazione di impatto di genere 

b) incremento degli investimenti in infrastrutture sociali; voucher di cura come strumento transitorio (5 anni) per accompagnare la messa a regime dei nuovi servizi

c) strategie formative, STEM e contrasto agli stereotipi di genere 

d) sviluppo imprenditoria femminile 

e) gender procurement e investimenti in parità 

Vari punti del documento sono condivisibili, come la richiesta di potenziamento delle infrastrutture sociali e dei servizi e le agevolazioni e il sostegno all’imprenditoria femminile. Tuttavia, a parte l’idea secondo la quale le donne dovrebbero essere destinatarie della meta’ dei fondi, sembra mancare la metà della visione.

Per cominciare, continua a non essere chiaro come le donne potranno accedere alle risorse a loro destinate che, come si è visto nell’era pre-pandemica, spesso restavano inutilizzate per un fallimento della mediazione -generalmente da parte dei partiti e di corpi intermedi governati da uomini- e per l’estrema farraginosità burocratica che ha continuato a ostacolare l’accesso. Tante imprenditrici raccontano che per accedere ai fondi destinati hanno dovuto coinvolgere un uomo, una testa di paglia maschile a garanzia.

Tra l’altro è verosimile che la grande parte di quei tanti soldi dell’Europa li abbiamo prodotti noi, consapevolezza che dobbiamo acquisire: accettando di essere pagate meno sul lavoro (gender pay gap in aumento costante a livello globale, intorno al 25 per cento: il più grande furto della storia, lo ha definito una consigliera economica dell’Onu). L’Institute for women’s policy research quantifica il mancato guadagno globale per le donne in 482 miliardi di dollari l’anno. In Italia sono in media 3 mila euro in meno l’anno, un paio di mesi non retribuiti, e quando sei madre il divario si accentua. Per non parlare del carico quasi esclusivo del lavoro di cura, che significa mancati guadagni per le donne e risparmio per le famiglie. E lo stesso risparmio privato è realizzato in gran parte dalle donne che gestiscono i bilanci familiari. Ma di tutte queste risorse prodotte dalle donne, alle donne torna poco o niente. Queste due risorse, la marea del desiderio femminile e la marea di soldi, non si incontrano. A volte c’è da sospettare che ci tengano impegnate a difenderci sui minimi -la violenza, la discriminazione, la Pas, l’utero in affitto, il transcult che ci cancella- anche per distrarci da questa faccenda. Quindi una prima cosa da ottenere sarebbe lo snellimento delle procedure oltre a luoghi di mediazione, di accompagnamento, di tutoring autogestiti dalle donne e non da organismi maschili “per conto di”.

Ma la cosa importante è che la differenza femminile è cancellata. Le donne avranno tante più chance quanto più sapranno uniformarsi al modello maschile, adottando il medesimo sguardo sul mondo e rinunciando a qualunque approccio trasformativo che disturbi l’idea corrente di lavoro: che non può più essere un inferno separato dalla vita-; di economia: che non può più essere la ricchezza di pochissimi ai danni delle moltissime e dei moltissimi-; di cura: che va intesa come centrale per la convivenza umana e non più marginale e nascosta sotto il tappeto del profitto e del Pil. Si perpetua quindi la stessa logica che continua a espellere le donne dal lavoro e dalla scena pubblica.

Esemplare il ragionamento sulle facoltà STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): oggi in Italia le ragazze che si iscrivono a queste facoltà sono più o meno il 20 per cento, e anche Half of It propone una campagna per allargare la platea femminile. Ma uno studio ha dimostrato che dove le donne hanno più libertà di scelta sono meno propense a scegliere le STEM. In Algeria il 41 per cento delle studentesse si laurea in STEM, numeri simili in Giordania, Qatar, Emirati Arabi. Molte meno quelle che scelgono STEM in Svezia, Finlandia e Islanda. Lo studio parla di paradosso. In sostanza dove le ragazze sono più libere scelgono di studiare quello che gli piace davvero e a quanto pare non gli troppo piacciono le STEM.

“Half of it” potrebbe e dovrebbe significare liberare le forze e le energie femminili, i talenti ignorati, non riconosciuti e svalorizzati. Di nuovo invece corriamo il rischio di continuare a non poter essere noi stesse, libere di seguire i nostri desideri, patrimonio ancora intatto ispirato da un’altra idea di crescita, di ricchezza e di economia, da un’altra idea di politica e di giustizia, del tempo e delle relazioni.

https://feministpost.it/magazine/primo-piano/bilancio-e-recovery-plan-non-e-una-ripresa-per-donne/

Novità Marzo/Aprile 2021

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Le motivazioni del Premio Letterario Femminile Plurale a Michela Fontana per Nonostante il velo


Nonostante il Velo: Donne dell’Arabia Saudita
di Michela Fontana, Vanda-epublishing, giugno 2018

Nonostante il velo di Michela Fontana è un lungo, affascinante viaggio in una società e in una cultura, quella dell’Arabia Saudita, di cui sappiamo ben poco, nonostante il paese rivesta un ruolo fondamentale e delicatissimo nello scenario geopolitico contemporaneo. Tra i tanti divieti imposti alle donne nei paesi islamici c’è anche quello di guidare. Un’azione che molte di noi compiono quotidianamente senza pensare che sia un diritto, un’azione negata ad altre donne come noi per cui la repressione di genere è talmente alta da impedirne addirittura la mobilità. Il 6 novembre 1990 a Riad viene organizzata una manifestazione per il diritto alla guida per le donne. Aisha, una delle promotrici della protesta, viene allontanata dalla capitale saudita. Nel 2011 la ribellione si riaccende grazie a una nuova generazione di attiviste che sfruttano anche i mezzi di comunicazione globale di cui disponiamo oggi grazie all’evoluzione di internet. Michela Fontana, attraverso la voce di undici donne dell’Arabia Saudita racconta la loro lotta e le loro paure, la loro storia, il loro quotidiano e la straordinarietà di una disubbidienza che è appannaggio soprattutto delle donne più abbienti di Riad che possono contare sulla copertura della famiglia, donne ritenute eversive dal governo e spesso allontanate.

Motivazione
Nominare, rinominare le cose per farle esistere: questo dovrebbe essere uno dei compiti della letteratura. Sottrarre all’oblio volti, storie, i nomi che nessuno pronuncia, per riconsegnarli infine al presente, con la forza della narrativa e dell’inventiva. Oppure con l’inchiesta, con la scrittura giornalistica. Michela Fontana, attraverso la testimonianza diretta di alcune donne saudite – l’Arabia Saudita resta un paese sconosciuto, anche perché impenetrabile, un vero e proprio inghiottitoio per le donne che devono confrontarsi con la proibizione, la vessazione, la sottoposizione a un guardiano che non si distrae mai – ci racconta da una prospettiva che ha a che fare con la quotidianità (una quotidianità che talvolta diviene intima) come proprio le donne si siano fatte portatrici di una clamorosa istanza di rinnovamento, sfidando con coraggio il proprio tempo e uscendone sì segnate, ma non sconfitte. Come richiede una scrittura di testimonianza, la lingua che sceglie l’autrice per raccontare di queste donne è schietta e sincera. A questa chiarezza di fondo contribuisce un utile glossario di servizio che spiega i tanti termini arabi che costellano il racconto-reportage. Michela Fontana ha anche uno spiccato interesse per l’onomastica araba, come spiega fin dalle prime pagine, e si preoccupa di tradurre sistematicamente il significato dei nomi delle donne che costituiscono il coro di voci di Nonostante il velo. Aisha, Nura, Hessa e le altre donne saudite, con le loro testimonianze, ci restituiscono un quadro sfaccettato e autentico della condizione della donna in uno dei Paesi islamici più repressivo, invitandoci a riflettere anche sulla condizione della donna in Italia, in una prospettiva femminile e plurale. Un grande paradosso aleggia intorno a questo libro: le donne che con i loro racconti hanno dato vita a Nonostante il velo non possono leggerlo, perché in Arabia Saudita è haram, cioè proibito. Il taglio di questa opera è veramente femminile e plurale : una donna che guarda, interroga, racconta da vicino altre donne, diverse da lei e fra loro per classe sociale, temperamento, esperienze di vita. Il calore del racconto in prima persona e la vividezza del reportage si alternano alla chiarezza del resoconto storico; seguiamo le vicende politiche di un intero paese, ma entriamo anche nelle case e negli ambienti di lavoro di chi lo abita, e soprattutto vediamo e ascoltiamo le protagoniste: donne più o meno giovani, più o meno ribelli, più o meno privilegiate. Mescolando con mano sicura memoir e giornalismo, Michela Fontana ha saputo creare un ritratto collettivo delle donne saudite pieno di dettagli e sfaccettature, lontano dai cliché e dalle generalizzazioni: in un’epoca in cui sembra sempre più difficile trovare chi guarda l’Altro da Sé con reale curiosità, il suo sguardo attento e rispettoso – ma anche lucidamente critico – e la sua scrittura precisa e mai banale sono strumenti preziosi di indagine e comprensione del mondo. Un lavoro meticoloso, empatico a tratti, condotto entrando nelle case, sedendo alle tavole, raccogliendo gli umori di professioniste, studentesse, attiviste, islamiste, scrittrici, mogli, madri – che ci aiuta a far luce su una delle tante prove a cui le donne sono costrette nella loro storia universale, e che faremmo bene a recuperare al nostro immaginario, perché il medioevo dei diritti non è mai scongiurato una volta per tutte.

Motivazione Primo Classificato 2018 – Premio Letterario Allumiere