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Un buon auspicio! Basta lacrime!

Articolo di Maria Concetta Sala originariamente apparso qui.

Nel contesto sconquassato e sgangherato in cui ci troviamo a vivere la lettura dell’ultimo libro di Alessandra Bocchetti Basta lacrime (VandA.edizioni, 2022) offre a donne e uomini, a ragazze e ragazzi – interessati a leggere il risvolto meno noto delle origini dello scardinamento in atto e delle aperture su idee e visioni in un orizzonte di autentica libertà grazie alla potenza di un’idea sovvertitrice dell’ordine millenario del patriarcato – la possibilità di ripercorrere, se non di scoprire, la storia politica dell’Italia nel venticinquennio 1995-2020 attraverso lo sguardo di una donna impegnata insieme ad altre donne nell’edificazione di una civiltà che metta al primo posto un nuovo senso dell’umano rivolto alla cura del vivente, all’attenzione materna, alla tensione verso la giustizia.

Si tratta di una storia politica che continua ad alimentare « principi ordinatori della società » totalmente diversi da quelli dominanti –  quali il potere, il denaro, la violenza –  e che contribuisce a diffondere « una cultura meno eroica, meno violenta, più radicata nel mondo » (p. 287), perché ancorata alla conoscenza e all’accettazione della fragilità umana e della condizione di interdipendenza alla quale tutti, donne e uomini, siamo sottoposti. Si tratta di una straordinaria reinvenzione dello stare al mondo e nel mondo a partire dal « lavoro oscuro » delle donne, « insomma, l’invisibile della storia », che è « oggi, un tesoro da spendere accumulato nel corso di secoli, che è il loro sapere materiale generato dall’aver visto l’umanità sempre da molto vicino, nel suo splendore e nella sua miseria, nei profumi e nelle puzze » (p. 78).

Alla femminista della differenza Alessandra Bocchetti, figura di spicco del  Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fondato nel 1979 insieme ad altre amiche, alla donna da sempre in dialogo con le istituzioni ma distante dal femminismo istituzionale o di Stato dobbiamo questa raccolta di scritti politici che pur precisamente datati in quel ventennio ruotano intorno a questioni ancor oggi decisive per il futuro dell’umanità tutta e sollecitano a un ulteriore dibattito – ne elenco alcune: violenza e identità, corpo e maternità, violenza e giustizia, diritti e desideri, libertà e liberazione, femminismo e femminismi, soggettività e governo delle donne… Questioni complesse che i documenti, le lettere, gli articoli di Bocchetti hanno il pregio di porgere con grande pacatezza e di formulare in un registro piano, scorrevole e chiaro.

Mi soffermo su alcuni aspetti in una certa misura sorprendenti e che più hanno destato la mia curiosità e suscitato interesse, primo fra tutti il riaffiorare in diversi scritti di un vocabolo quale « dignità umana », che vorrei reinterrogare tenendo presente la possibilità di stabilire dei nessi con la ricerca della felicità da parte di una donna.

Dignità è una parolina che ha una lunga storia: riguarda il valore unico e irripetibile che ogni individuo maschio o femmina possiede di per sé in quanto essere umano esistente su questa terra, nella sua qualità di essere umano, nel suo essere partecipe alla comune umanità. Simone Weil, molto amata da Alessandra Bocchetti, e il cui pensiero ricorre spesso in questa raccolta,  è la prima a fare dell’affermazione della dignità umana un obbligo incondizionato, l’obbligo primario, agganciandola ai bisogni umani, al nutrimento del corpo e dell’anima di ogni essere umano:

L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno.

Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo.

Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare (1) .

Si tratta, continua Simone Weil, di un obbligo fondamentale, eterno, incondizionato, che « non ha un fondamento, bensì una verifica nell’accordo della coscienza universale » (2) e che si trova espresso nei più antichi testi a partire dall’antico Egitto.

Per Alessandra Bocchetti dignità è una grande parola: « A pensarci bene, da sola basterebbe a fare un buon programma di governo. Se si pensasse alla dignità che a ciascun essere umano si deve in questa terra, che meravigliosi programmi si farebbero per il lavoro, per l’istruzione, per la salute! Sì, dignità è una parola che ci aiuta a fare bene » (p. 224). Gli esseri umani, donne e uomini, sostiene giustamente Bocchetti, sono uguali unicamente nella dignità, che « non è un bene da conquistare ma che ciascuno ha, malgrado se stesso, per il solo fatto di essere nato, per il solo fatto di condividere la condizione umana. Mi piacerebbe leggere nelle aule dei tribunali la scritta in bella vista: “La dignità è in ciascuno di noi”, sarebbe forse una frase profondamente più vera de “La giustizia è uguale per tutti”» (p. 245).

Il riconoscimento della dignità umana, lo sappiamo,  è un pilastro della civiltà giuridica e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e sappiamo anche quali e quante lotte le donne hanno dovuto sostenere perché questo principio si traducesse in realtà di fatto, ma, sottolinea con vigore Bocchetti, tutto quello che le donne hanno conquistato sulla carta, nei diritti, « può restare lettera morta se non viene animato da un soffio […] che dà energia» e questo soffio « è appunto un’idea nuova e forte, capace di cambiare le regole del gioco. […] È l’idea di diritto-aspettativa di felicità. Vedete, ho usato una doppia parola, “diritto-aspettativa”, in realtà né l’una né l’altra vanno bene, la parola diritto è troppo arrogante, la parola aspettativa è troppo debole. Ce ne vorrebbe una terza…» (p. 81).

Saggiamente viene sottolineato in un altro scritto che si tratta di un’idea nuova, di uno straordinario e rivoluzionario risultato, perché ha innescato un mutamento nell’ordine del discorso e nell’ordine dei fatti, ma qua e là affiora l’impazienza del “tutto e subito” che è a mio parere un errore, perché la rivoluzione delle donne è una rivoluzione simbolica, nella quale rientrano azione e contemplazione, e necessita di tempi lunghissimi E del resto lo ammette la stessa Bocchetti nel suo intervento nel corso di  un convegno sugli anni Settanta svoltosi a Cinisi nel 2018: « La felicità di una donna ha dato sempre un certo scandalo nell’ordine dei padri, risultava sempre un po’ fuori posto, il dolore era il sentimento che più si addiceva alla donna, la sua icona. Adesso invece questa felicità possibile è nella testa di tutte noi » (p. 239); e questo «è stato un grandioso passo avanti verso la libertà » (p. 247), lo ribadisce in un discorso tenuto durante il convegno “Stereotipi e pregiudizi sulla violenza di genere” organizzato dall’ Area Democratica per la Giustizia in Senato nel 2019.

Un altro aspetto importante di questo libro è il rilievo dato al lavoro delle donne, quello in casa, quello fuori di casa, fino alla presa di posizione giustamente intransigente nei confronti di quel terribile contratto che regola la  maternità per altri. Bocchetti è consapevole della visione statica della libertà delle donne che la politica tradizionale ha fatto propria e denuncia le armi a doppio taglio quali, ad esempio i congedi parentali e il part time, che mantengono le donne prigioniere e protette in gabbia; e si pronuncia contro le politiche di genere che hanno rafforzato e non eroso la miseria e la debolezza femminili in una sincera autocritica che è qualcosa di raro e di esemplare nella storia del movimento delle donne: « Abbiamo dato credito solo alla miseria delle donne, alla loro debolezza e abbiamo cercato di mettere a punto politiche di tutela, di riparo, di consolazione, non rendendoci conto che, così facendo, contribuiamo alla nostra imperfetta cittadinanza. […] La nostra cittadinanza diventa piena solo quando la nostra attenzione e tensione modificatrice va alla società intesa nella sua complessità », perché le donne sono « parte costituente della società stessa» (pp. 152-53). La sua riflessione sulla formula “forza-lavoro” è fondamentale ancora oggi : «Un padrone di fabbrica non compera l’operaio, compera la sua “forza-lavoro”. L’operaio non vende il suo corpo, vende la sua “forza-lavoro”. Simone Weil e altri ci hanno spiegato questo puro imbroglio. Weil, che ha voluto sperimentare la catena di montaggio alla Renault, ci racconta che è l’intera vita che se ne va, se ne va il poter pensare, il poter immaginare, la voglia di parlare, la salute, l’eros…» (pp. 217-18).

Alessandra Bocchetti fa bene a sottolineare l’importanza che potrebbe avere oggi una riflessione delle donne sul lavoro: « Nessuno ha mai difeso veramente il lavoro delle donne, né i partiti, né i sindacati. Il lavoro delle donne è stato sempre considerato aggiuntivo. […] È importante che il femminismo si assuma questo tema in questo momento, è un tema allo stesso tempo materiale e profondamente simbolico » (articolo apparso il 20 luglio 2020 sul supplemento La 27esima ora del «Corriere della Sera»). Sono d’accordo, bisogna riprendere le fila del discorso a partire dal «Sottosopra» del 2009, Immagina che il lavoro, un manifesto ben sintetizzato nella formula Primum vivere, che significa mettere al centro la vita ma non subordinando l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o viceversa, bensì attribuendo valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, a ciò che è vitale e non mortifero (3).

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1) Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di Franco Fortini, SE, Milano, 1990, p. 14.

2) Ibid., p. 15.

3) A questo proposito si  vedano ulteriori considerazioni nell’articolo redatto per «pressenza. International Press Agency, redazione di Palermo:  https://www.pressenza.com/it/2020/11/tutto-il-lavoro-indispensabile-alla-vita/

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Syl Ko

Ha studiato filosofia alla San Francisco State University e alla University of North Carolina. Appassionata di studi sociali, attualmente lavora a un libro che esplora le forme di vita di Wittgenstein in cui considera la razzializzazione dell’animale.

Con la sorella Aph Ko è autrice di AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero (VandA 2020).

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Marta Correggia

Marta Correggia è magistrato dal 2002, vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste letterarie (Perrone, Storie, Tina la rivistina) e ha curato pubblicazioni di carattere giuridico (Guida al diritto – Sole 24 ore, Giuffré, Simone editore) “Il mio nome è Aoise” è il suo primo romanzo.

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Recensione “Carne da macello” di Carol J. Adams

Il 10 aprile 2022, sul suo blog “Diario di ErreBi”, Romina Braggion ha recensito Carne da macello. La politica sessuale della carne di Carol J. Adams.

“In Carne da macello, con una  rara visione di insieme, Adams sviscera il concetto del referente assente e lo connette a una serie di aspetti relativi al femminismo e al veganismo. […] Adams analizza il dispositivo della violenza. […] Adams include una pletora di immagini tratte da pubblicità becere, tutte a tema creofago. […] Al termine della lettura del saggio di Adams, la riflessione maturata riguarda l’urgenza di affiancare a femminismo, veganismo e antispecismo, il tema dell’ambientalismo”.

Per leggere l’articolo completo clicca QUI.

 

 

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Rassegna stampa Carne da macello di Carol J. Adams

Carne da macello di Carol J. Adams è un libro che ha fatto molto discutere, scatenando un’incredibile reazione mediatica e provocando gli insulti della stampa conservatrice.

Ecco la rassegna stampa relativa a questo importante volume:

Il Manifesto

PhilosophyKitchen.com

Culturafemminile.com

La mano sinistra

La casa delle donne di Milano

Vocisinistre

Leggere Donna

Filosofemme

Radio Radicale

Amoreaquattrozampe.it

Corriere.it

Diario di ErreBi

L’Internazionale

 

 

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Quarant’anni dalla comune di Greenham: “Arrivammo contro la guerra. Siamo rimaste per il femminismo.”

Nel 1982 Julie Bindel si unì alle 30mila donne attorno alla base in protesta contro le armi nucleari. Qui racconta il punto di svolta che quella protesta rappresentò per le loro vite.

Di Julie Bindel
(della stessa autrice, Il Mito Pretty Woman)


Nel settembre 1981 trentadue donne, quattro uomini e molti bambini marciarono da Cardiff fino a Berkshire per protestare contro l’installazione di armi nucleari alla base aeronautica inglese di Greenham.

L’anno seguente, le fondatrici dichiararono l’accampamento “per sole donne”, e il campo di pace femminile comune di Greenham divenne uno degli esempi più noti e duraturi di proteste femministe degli ultimi tempi.

Il campo fu costruito attorno alla base RAF per protestare contro il posizionamento di armi nucleari americane su suolo britannico. Affrontando la polizia e i soldati, le donne gridavano: “State dalla parte del suicidio? State dalla parte dell’omicidio? State dalla parte del genocidio? Da che parte state?”

Rebecca Mordan, al tempo una bambina, fu portata a Greenham da sua madre. “Era profondamente catturata dal femminismo radicale,” dice Mordan. “Stava sul palo del telefono, di notte, e faceva la guardia al campo, così che le donne potessero dormire. Era all”Università del Femminismo’.”

Nell’agosto 2021, per nove giorni, Mordan ha ripercorso con decine di donne il cammino che nel 1981 la portò da Cardiff alla comune di Greenham, per concludere il viaggio con un weekend di celebrazioni culminate con l’anniversario della marcia.

“Non vogliamo che le donne muoiano e portino con sé le testimonianze di Greenham”, dice Mordan, che ha lanciato il sito Greenham Women Everywhere (Donne di Greenham Ovunque), e ha curato il libro Out of the Darkness, basato sulle storie del campo.

Tra il 1981 e il 2000, quando il campo fu restituito ai residenti, più di 70.000 donne manifestarono, ballarono, cantarono e agirono in prima persona, tagliando le recinzioni e facendo irruzione nelle torri di guardia. Fu la più numerosa protesta di donne dai tempi del Movimento per il suffragio femminile.

“I missili da crociera furono rimossi, le leggi internazionali cambiarono, la base aeronautica fu restituita al popolo. La base costò agli americani milioni di sterline, e intanto queste donne parlavano alle Nazioni Unite. Migliaia di donne aderirono al femminismo radicale, anche se restavano al campo soltanto una settimana. L’esperienza mostrò loro l’oppressione, fece avvicinare le donne borghesi alle donne operaie. Fu vero femminismo intersezionale,” dice Mordan.

La comune di Greenham e i suoi slogan presto divennero fonte di imbarazzo per il governo britannico e americano.

“Nel 1982, quando mi unii a 30mila donne in cammino per Greenham per ‘abbracciare la base’, l’unico mezzo pubblicitario erano le lettere a catena inviate tramite gruppi di donne. La gente sente parlare di Greenham e pensa subito a donne di mezz’età e si chiude,” dice Mordan.  E invece erano donne di tutte le età, di ogni estrazione sociale che si unirono a Greenham.

“Dobbiamo portare avanti l’eredità delle donne di Greenham. I ragazzi e i giovani chiedono sempre ‘Perché non ci hanno parlato di questo? È un furto culturale’”, dice Stephanie Davies, donna di Greenham e autrice di Other Girls Like Me.

“Quando si parla di Extinction Rebellion, si fa spesso riferimento alle Suffragette, ma non si parla mai delle donne di Greenham,” spiega Davies. “Il campo mi offrì un riparo dalla violenza maschile, lo trovai lì in altre donne, specialmente quelle in fuga da relazioni abusive.”

Ricordo che frequentavo un club per sole donne ad Islington il venerdì sera. Da un van scendevano le donne di Greenham, per rinfrescarsi al bagno prima di ballare senza sosta e bersi una pinta. Si riconoscevano da subito per i loro tagli alla moicana colorati e i loro vestiti sporchi, che sapevano di legna bruciata.

Con la vita al campo, molte donne eterosessuali sposate si resero conto che potevano non aver a che fare con gli uomini e instaurarono relazioni con altre donne. Molti giornali avevano dei pregiudizi e descrivevano le donne di Greenham come “sporche, sozze lesbiche”. Con quella singola espressione di odio diveniva facile condannare il femminismo di sinistra e l’attivismo pacifista in un colpo solo.

Scegliere Greenham non fu facile. Combattevo contro stupro e violenza domestica al tempo, e gli obiettivi di affetto e cura delle donne che protestavano per la pace rientravano negli stereotipi sessisti sulle donne. Vivere al campo, al gelo, e mangiare stufato di lenticchie in continuazione erano un ulteriore deterrente.

Eppure io ero attratta dall’idea di Greenham per due motivi: primo, perché le relazioni lesbiche e i legami stretti tra donne venivano normalizzati, e si apriva la possibilità di rapporti alternativi anche a donne che non li avevano mai presi in considerazione: erano tempi in cui l’omofobia la faceva da padrone, prima della Section 28, e molte donne lesbiche perdevano la custodia dei propri figli contro mariti violenti.

Un altro motivo di fascinazione era il modo in cui le attiviste collegavano le forze dell’ordine, il militarismo, la guerra e le quotidiane forme di violenza maschile contro le donne.

Nonostante il campo, il primo missile di crociera arrivò a Greenham nel 1983, ma le proteste continuarono per tutti gli anni ’80: molte donne furono condotte a processo, sanzionate o persino incarcerate.

Il trattato sulle forze nucleari a medio raggio firmato da Stati Uniti e Russia nel 1987 spianò la strada alla rimozione dei missili di crociera da Greenham tra il 1989 e il 1991. Nel 1992 l’aeronautica americana lasciò la base, poco dopo le forze britanniche fecero lo stesso. Al campo di pace le proteste contro le armi nucleari continuarono fino al 2000.

Oggi, parte di Greenham è un’area produttiva, mentre il resto è divenuto suolo pubblico.

Rebecca Johnson arrivò al campo nel 1981 e visse lì per cinque anni. È direttrice e fondatrice dell’Acronym Insitute for Disarmament Diplomacy, che promuove l’uso della diplomazia per il disarmo nucleare, nonché co-fondatrice della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, e vicepresidente del Centro per il disarmo nucleare.

“Molte di noi si unirono contro le armi nucleari e rimasero per il femminismo. Dopo quarant’anni, sembra che si continuino a combattere le stesse lotte. Abbiamo creato connessioni con le donne che in tutto il mondo vivono guerre e conflitti,” dice Johnson.

Forse la nostalgia contribuisce alla gioia che quel campo donò alle donne che non avevano potuto vivere al di fuori di nuclei familiari eterosessuali, o lontane dal controllo degli uomini. Quelle donne che vivevano in comune su una scala così larga sono probabilmente il più brillante gruppo di autocoscienza femminista in tutta la storia del movimento.

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“La produzione letteraria femminista nella seconda ondata”. Intervista a Deborah Ardilli su Global project

Il 2 aprile 2022 Global project ha pubblicato l’intervista a Deborah Ardilli tenutasi a Book Pride durante il panel “Editoria femminista: l’importanza di mettersi in rete”.

Per leggere l’intervista clicca QUI

 

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Christine Delphy

Una delle più grandi teoriche del femminismo mondiale, è la maggiore rappresentante in Francia del femminismo materialista. Dopo aver studiato sociologia alla Sorbona, si è trasferita a Chicago e poi a Berkeley negli Stati Uniti, dove ha preso parte al movimento per i diritti civili e al Washington Urban League (organizzazione in difesa dei diritti dei neri).

Tornata in Francia, entra nel CNRS nel 1966 e nel 1968, partecipa alla fondazione del Movimento di Liberazione della Donna (MLF), con il gruppo FMA – “Féminin, masculin, avenir” – che diventa, nel 1969, “Féminisme, marxisme, action”.

È stata fra le otto femministe (tra cui Monique Wittig) che il 26 agosto 1970 deposero una corona di fiori all’Arc de Triomphe per la moglie del milite ignoto, “scandalo” che segnò la nascita del Movimento di Liberazione della Donna nei media europei. Co-fondatrice di Questions féministes con Simone de Beauvoir nel 1977 e poi di “Nouvelles questions féministes” (1981), ha introdotto in Francia le idee del femminismo materialista e il concetto di genere. Ha sviluppato il concetto di economia del patriarcato e ha descritto il lavoro domestico come la base di un modo di produzione distinto dal modo capitalista. Negli ultimi anni, è stata particolarmente attiva nella difesa dei diritti delle donne musulmane stigmatizzate per la questione del velo, la cui messa al bando Delphy collega ad antiche radici coloniali ma anche sessiste.

Le sue pubblicazioni più importanti sono Il nemico principale (vol.1). Economia politica del patriarcato (1998, 2009) e Il nemico principale (vol. 2). Pensare il genere (2001, 2009), Classificare, dominare. Chi sono gli altri? (2008), questi ultimi in uscita per VandA edizioni fra il 2022 e il 2023.

Per saperne di più leggi anche:

E guarda su Youtube:

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“Libri femministi: 5 titoli che spiegano cos’è il femminismo” su Elle.com

Il 24 febbraio 2022 Elle magazine ha stilato una lista di cinque libri che spiegano il femminismo: tra questi spicca Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di Deborah Ardilli.

Di seguito riportiamo un estratto:

Manifesti femministi a cura di Deborah Ardilli è un libro dedicato sia a chi fa attivismo che a chi si sta avvicinando adesso alla causa femminista. Risponde alla domanda cos’è il femminismo radicale, spesso associato ad una forma di estremismo, facendo un viaggio nei movimenti femministi della seconda ondata, dagli anni Sessanta fino alla fine degli anni Settanta. Attraverso i brani del libro si ripercorre la vita del movimento del femminismo radicale, che dalla sua nascita ha analizzato le cause della disparità di genere, trovandole nella società patriarcale e nel capitalismo. 

Trovi l’articolo completo QUI

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“Cani marroni tra lotte e rivolte dei senza nome” su ilmanifesto.it

Il 12 febbraio 2022 è stato pubblicato su ilmanifesto.it “Cani marroni tra lotte e rivolte dei senza nome”, un’importante recensione di Massimo Filippi di Il caso del cane marrone di Peter Mason.

Ecco un estratto:

Il caso del cane marrone, saggio di Peter Mason del 1997, è stato reso disponibile al
pubblico italiano grazie al lavoro collettivo di un gruppo di attivist* coordinato da Barbara Balsamo e Silvia Molé (VandA, pp. 189, euro 15). Come recita il titolo, il libro racconta la storia della vita offesa di un cane in carne e ossa che diventa simbolo di rivolta sociale. Il «primo» cane, vivo ma già morto, entra in scena nel tardo pomeriggio del 2 febbraio 1903 nel teatro anatomico dello University College di Londra, per essere «sezionato al collo» al fine di illustrare il funzionamento delle ghiandole salivari. In aula vi sono Louise Lind-af-Hageby e Leisa Schartau, che denunciano l’accaduto a Stephen Coleridge: dopo «mezz’ora di ordalia», in cui si contorce per il dolore, il cane, che aveva sull’addome i segni di precedenti esperimenti e che non era stato adeguatamente anestetizzato, viene allontanato dall’aula per essere abbattuto. Coleridge, avvocato della National Anti-Vivisection Society, non esita a portare la vicenda alla conoscenza del grande pubblico ed è così trascinato in tribunale dal docente di fisiologia di cui aveva denunciato l’operato.

Per leggere l’articolo completo clicca QUI

 

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“Il valore simbolico dei monumenti: dall’effigie del cane marrone alla statua di Margherita Hack” su rewriters.it

Il 4 febbraio 2022 Gianluca Felicetti ha citato Il caso del cane marrone di Peter Mason all’interno di un interessante articolo pubblicato su ReWriters.it, testata giornalistica digitale.

A seguire un estratto:

I monumenti sono simboli, nel bene e nel male: celebrazioni di potenti o ex tali, in genere, che hanno visto non tanto tempo fa, sulla scia del Black Lives Matter, manifestazioni e abbattimenti, per andare indietro con il tempo e ricordare il picconamento di statue di dittatori defenestrati in Europa o miti che si volevano cancellare. […] E’ uscita infatti l’edizione italiana de “Il caso del cane marrone. La storia di un monumento che ha diviso un Paese” per VandAedizioni. Lotte convergenti fra femministe, classe operaia e antivivisezionisti, portarono il Consiglio distrettuale, a stragrande maggioranza progressista, a far erigere un monumento a un cane usato qualche anno prima per efferati esperimenti nell’Università, contestati da due studentesse femministe svedesi e dibattuti in un causa legale per diffamazione con relativo processo. Si susseguirono manifestazioni con migliaia di persone a Trafalgar Square, tentativi di sabotaggio, riunioni pubbliche sciolte per intemperanze, giornali dell’era edoardiana schierati da una parte e dall’altra e piantonamenti della polizia a difesa della contestata opera.

Per leggere l’articolo completo clicca QUI.

 

 

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Recensione “Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna” su ilmanifesto.it

Copertina Se la felicità...

Il 16 gennaio 2022 è stata pubblicata su ilmanifesto.it un’interessante recensione sul libro “Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna” scritta da Laura Fortini.

Riportiamo un estratto:

Per leggere l’articolo completo clicca QUI.

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Vita Sackville-West

Vita Sackville-West (1892-1962), nata da famiglia aristocratica e sposata al diplomatico Harold Nicolson, da cui ebbe due figli, condusse una vita audace e fuori dagli schemi. Grande viaggiatrice e apprezzata scrittrice, fece parte del circolo di Bloomsbury. È nota la sua relazione amorosa con Virginia Woolf, che a lei si ispirò per il romanzo “Orlando”, trasfigurazione letteraria del loro amore. Altri suoi scritti pubblicati in Italia sono “Ogni passione spenta”, “La signora scostumata” e il carteggio con Virginia Woolf, “Adorata creatura”.

Con Aphra Behn ci racconta la storia della prima scrittrice professionista della letteratura inglese: Vita Sackville-West fu la prima a riscattare Aphra Behn dal disprezzo della critica misogina, con questa biografia pubblicata nel 1927.

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Monica Lanfranco

Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice e formatrice, ha insegnato “Teoria e Tecnica dei nuovi” media all’Università  di Parma e conduce corsi di formazione sulla comunicazione e il linguaggio non sessista, sulla storia e il pensiero del movimento delle donne, sulla risoluzione non violenta dei conflitti nel lavoro e nelle dinamiche collettive. Ha pubblicato “Uomini che odiano le donne”, “Virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi”, “Parole madri”. Dal 1994 dirige il trimestrale femminista “Marea”.

Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo racconta a vent’anni dalle manifestazioni del G8 di Genova il punto di vista delle donne che c’erano e che le hanno vissute sulla loro pelle.

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Erella Shadmi

Erella Shadmi è una femminista radicale, attivista pacifista, antirazzista e studiosa. Ha co-fondato il Kol Ha’Isha (Centro femminista di Gerusalemme) e il Fifth Mother (Movimento per la pace delle donne). Già a capo del Women’s and Gender Studies Program, è lettrice senior di Criminologia e di Applicazione della legge presso il Beit Berl College in Israele.

Il sentiero della madre supporta da plurimi punti di vista una reale e saggia alternativa per l’evoluzione dell’umanità: un nuovo modello materno e matriarcale al posto di quello patriarcale e capitalista.

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Mariam Irene Tazi-Preve

Docente femminista, si occupa di politica e riproduzione, insegna all’Università  negli Stati Uniti e in Austria. Ha pubblicato “Motherhood in Patriarchy” (2013), in Italia “Contro la maternità patriarcale” (VandA edizioni, 2020).

Il suo ultimo libro è “Il fallimento della famiglia nucleare” (VandA 2021).

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Carol Gilligan

Carol Gilligan è un’attivista femminista fra le più celebri al mondo, docente della New York University e autrice di “Con voce di donna” (1982) e “La nascita del piacere” (2002), fra i libri femministi più influenti di tutti i tempi.

Con Naomi Snider ha scritto Perché il patriarcato persiste? (VandA 2021).

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Christa Wolf

Scrittrice tedesca celebre in tutto il mondo. Fra le più amate dalle donne, autrice di libri divenuti “cult” come Cassandra (1983) e Medea (1996). Anche per lei la politica aveva avuto una parte molto importante nella sua vita, fermamente convinta della missione politica della letteratura.

VandA ha edito un suo importantissimo intervento con Alessandra Bocchetti e Rossana Rossanda in Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna (2021).