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“Mio figlio è femminista” su Aosta Sera

La scrittrice e formatrice Monica Lanfranco: “Insegnate ai vostri figli maschi che no significa no”.
In “Mio figlio è femminista” l’educazione diventa uno strumento per dire no alla violenza contro le donne. Sabato 25 novembre l’autrice femminista Monica Lanfranco presenterà il suo “manuale di istruzioni” per arginare la cultura misogina.

“Se vi state chiedendo, essendo madre, padre o comunque punto di riferimento educativo di un bimbo o un ragazzo, se sia possibile trasferire le idee del femminismo in un giovane maschio d’oggi la mia risposta è decisamente sì”. Lo afferma la giornalista Monica Lanfranco, autrice del libro “Mio figlio è femminista”.

In questi giorni in cui il dibattito si è acceso su femminicidi e patriarcato, considerato causa della violenza di genere, il libro, che sabato 25 novembre alle ore 17 sarà presentato ad Aosta, risulta più attuale che mai.

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Cristina Pietrantonio alla libreria Lato D

PARLIAMO DI FIC@ | 12.10.23 ore 19:00

30 Settembre 2023 

giovedì 12 ottobre ore 19:00
con Cristina Pietrantonio

In questo viaggio di (ri)scoperta parleremo di:
PIACERE (come diritto, fonte di benessere e preziosa competenza evolutiva);
CREATIVITÀ (che fluisce naturalmente uscendo dalla vergogna di esistere in quanto donne);
SOSTENIBILITÀ (il ciclo mensile ha molto da insegnarci su noi stesse, le relazioni, il management dei processi);
MULTIPOTENZIALE (attivato dalle nostre iniziazioni biologiche, dal Menarca alla Menopausa).

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Recensione di “Mio figlio è femminista” su Pink Magazine Italia

Mio figlio è femminista – Pink Magazine Italia

A GIUGNO VANDA EDIZIONI HA PUBBLICATO UN MANUALE PER “CRESCERE UOMINI DISERTORI DEL PATRIARCATO”

“Mio figlio è femminista” è un libro della giornalista, scrittrice e formatrice Monica Lanfranco, madre, tra l’altro, di due figli maschi, ormai giovani uomini.

È un libro del quale il sottotitolo cattura l’attenzione forse ancor più del titolo stesso.

“Crescere maschi disertori del patriarcato”, dove le parole “disertori” e “patriarcato” rendono immediata la necessità di questa battaglia culturale ed educativa che dovrebbe iniziare nella famiglia e continuare a scuola.

A tal proposito, interessanti (spesso tristemente) le esperienze personali dell’autrice nelle nostre scuole italiane, dove la povertà dei ragazzi (non tutti, naturalmente e per fortuna) è ben descritta perfino nel loro (non) modo di vivere il loro ingombrante corpo di adolescenti. Non sanno muoversi se non colpendo, spostando, facendo cadere. La violenza verbale e fisica riempie dei vuoti di crescita evidenti. Nessuno ha saputo parlare, spiegare, rassicurare, mostrare anche con l’esempio che con le mani si può costruire, abbracciare, accarezzare.

La maggior parte di loro indossa e possiede oggetti all’avanguardia e molto costosi, ma ben pochi sanno esprimere un pensiero gentile, fare un discorso civile, avere consapevolezza del proprio corpo, dei sentimenti e delle emozioni (e le sa gestire e controllare).

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Recensione di “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco su Letterate Magazine

Le vacanze, ahinoi, sono quasi giunte al termine.

In dirittura d’arrivo Silvia Neonato consiglia “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco edito VandA Edizioni.

Folgorante e sincero, un libro snello e profondo che mai come in questi tempi andrebbe letto, per incamerare nel cervello e nel cuore ciò che l’autrice illustra. Parlo di “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato”, VandA edizioni, 2023 di Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice, formatrice femminista di lunga esperienza e, anche questo conta, madre di due maschi ora adulti. Lanfranco – che è stata una delle ideatrici di Punto G, il progetto femminista del G8 di Genova nel 2001 e che dirige la rivista Marea – spiega, senza far lezione, come educare un bimbo fin da piccolo a rispettare le donne, dandogli esempi concreti del proprio valore di donna e combattendo con fermezza gli stereotipi anche con i/le docenti dell’asilo e delle superiori. C’è un capitolo dedicato alle parole e un altro ai giocattoli e ai colori: fondamentali per contrastare il machismo e lui deve imparare, accettando la frustrazione, che “no” significa no e che può essere un’occasione. Nei capitoli a seguire ci incita a insegnare ai cuccioli i lavori domestici e la cura di piante, persone e animali, a parlare con loro di violenza maschile sulle donne, spiega come è importante che faccia amicizia con le bambine e che impari a cucinare e a presentare bene i piatti, quando è adolescente, perché la seduzione comincia dalla gola. E infine, ma ci sarebbe tanto da dire, Monica è convinta che il patriarcato si può smontare, che la non violenza si può insegnare, che la sessualità dei genitori va raccontata perché è da quel gesto d’amore che loro, i figli, nascono. Altrimenti resta solo la scuola violenta e senza gioia dei filmati porno che, scrive l’autrice, bimbi e bimbe consumano già a 8/9 anni.

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Incontro con Marta Correggia autrice del libro “Il mio nome è Aoise”, da Mondadori

Data: 23/06/2023
Ora: 18:30
Luogo: Mondadori Bookstore, Santa Maria Capua Vetere
Evento:

MARTA CORREGGIA, Il mio nome è Aoise” (Vanda Edizioni)
L’autrice conversa con DRUSILLA DE NICOLA e FRANCESCO CAROZZA

«Così facendo diventò una puttana più brava, perché quelle cose non stavano accadendo a Erabon ma al suo corpo che, in quegli istanti, diventava qualcosa che non le apparteneva: un ammennicolo, una scatola di latta impolverata sulla mensola di una cucina.»

Aoise ha diciassette anni quando parte dal suo villaggio in Nigeria per raggiungere l’Italia, certa di fare la parrucchiera e di andare incontro a una vita migliore per sé e i suoi cari. Prima di lasciare la sua famiglia viene sottoposta al giuramento ju-ju, impegnandosi a ripagare un debito che lì per lì non sembra impossibile, stringendo di fatto un patto col diavolo.

Una volta giunta scoprirà di essere destinata al mercato della prostituzione a Castel Volturno all’interno di una Connection House, dove avrà un “battesimo” di violenza. Da quel momento non le resterà più nulla, neanche il suo nome.

Ma in quell’inferno, inaspettatamente, troverà l’amore e nasceranno affetti profondi, sentimenti di amicizia e complicità fra donne. Donne come lei, ognuna con un nome e una storia da raccontare.

Un romanzo sull’orrore della prostituzione e sullo sfruttamento degli esseri umani, sul coraggio, sul potere della resilienza e la forza dell’amicizia, perché “pretty woman” resta una favola, mentre la realtà è sporca e crudele.

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Il corpo lesbico – Articolo su Dinamo Press

Per leggere la recensione su Dinamo Press clicca qui

Uscito nel 1973 per le Éditions de Minuit, ed oggi riproposto in una traduzione di Deborah Ardilli per i tipi di VandA, “Il corpo lesbico” è uno dei testi in cui Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale e dove il lesbismo diventa qualsiasi soggetto che pratica la sovversione dell’ordine eterosessista e patriarcale. Attraverso un’opera di sabotaggio dei codici ideologici e linguistici che hanno dominato secoli di letteratura sull’amore, Wittig incarica la scrittura e il linguaggio di reinventare un mondo libero dal giogo della norma eterosessuale e maschile

Se per il primo femminismo la questione della liberazione era incentrata sulla lotta all’oggettivazione della donna da parte dell’ordine patriarcale, per Monique Wittig la donna non esiste se non come corpo lesbico. Vista l’importanza che negli anni Settanta del secolo scorso, nel pieno della conflittualità che animava tutti i movimenti di liberazione, rivestiva l’orientamento sessuale all’interno delle Questions Féministes, l’oggetto, o meglio, il soggetto del contendere è proprio il lesbismo come pratica di sovversione dei rapporti di forza materiali e simbolici che strutturano la norma eterosessuale capitalista. Per Wittig parlare della “donna” esclusivamente nei termini di differenza sessuale è fuorviante in quanto, seppur inconsapevolmente, va a rinforzare la lingua dell’economico – l’obbligo per la donna di riprodurre e prendersi cura della forza-lavoro – e a legittimare la lingua del Significante Fallo – la Donna esiste in quanto non-tutto castrato e assoggettato.

Per il movimento delle donne di allora era quindi poco percepita la «possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni» (Ardilli, p.12), come sostiene nella sua sapiente prefazione Deborah Ardilli, curatrice e traduttrice della nuova edizione di Il corpo lesbico per i tipi di VandA, che segue e “restaura” quella del 1976 curata da Christine Bazzin e Elisabetta Rasy per le Edizioni delle Donne. Per questa ragione, prosegue Ardilli, il lesbismo politico teorizzato e vissuto in prima persona da Wittig era visto come rischioso: nel migliore dei casi, il rapporto di sessaggio denunciato dalla scrittrice francese – lo stato di soggezione al potere dell’uomo e di assoggettamento alle dinamiche sociali del patriarcato –  era  considerato velleitario rispetto alla forza primaria e “trascendentale” della Legge (di Natura). Proprio per questo Psychanalyse et Politique, il gruppo che ruotava intorno alla figura carismatica di Antoinette Fouque, stigmatizzava il pensiero lesbico di Wittig come grottesca imitazione del modello maschile, tanto che Il corpo lesbico è stato più volte, e sconsideratamente, definito il frutto dell’“allucinazione onirica” di un’omosessuale in preda a deliri erotici vergati sotto l’egida di Saffo. Per il femminismo storico, insomma, il riconoscimento della libido femminile si riduceva a mera valorizzazione simbolica in grado di ripristinare un’equa e sana relazione eterosessuale, in cui libertà e amore costituivano i poli su cui far convergere le aspirazioni di emancipazione delle donne. La radicalità politica del lesbismo non può pertanto che essere invisibilizzata in nome di una critica dei rapporti di forza tra uomo e donna basata esclusivamente sulla sovversione delle norme e non dei rapporti sociali che tali norme giustificano e realizzano, consentendo la materializzazione del «rapporto di appropriazione generalizzata della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (Ardilli, p. 19).

Quando Il corpo lesbico venne pubblicato nel 1973 dalle Éditions de Minuit, Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale, autorevole esponente dell’avanguardia letteraria dei nouveaux romanciers, in cui militavano figure di spicco del dissenso narrativo quali Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor, Claude Simon e Nathalie Sarraute. Alcuni anni prima Wittig aveva pubblicato L’Opoponax, il primo volume della silloge pronominale successivamente integrata da Le guerrigliere e, appunto, da Il corpo lesbico.L’Opoponax, creatura anti-mitica – inscritta cioè in quella fenditura, in quel margine, che turba e interrompe la solida permanenza assiomatica dell’immagine del mondo cristallizzata dal realismo etero-capitalista –, ibrido né animale né vegetale, che irrompe saltuariamente anche tra le pagine di Il corpo lesbico,anticipa gli attuali grafemi con cui si sta smantellando il falso mito dell’identità di genere. Inoltre, il ricorso straniante ad aggroviglianti ed aggrovigliati neologismi e l’uso ossessivo del pronome io lesbica, che confligge con quello io donna, costituiscono il corpo politico di un’espressività che si batte contro la tradizione del romanzo, con le sue trame, le sue psicologie, le sue logiche narrative e i suoi segretucci edipici, aggiungerebbero Deleuze e Guattari.

Ma, infine, che cosa è Il corpo lesbico, e come si legge? Il nodo da cui partire, non per interpretare la creatura mostruosa di Wittig ma, semmai, per misinterpretarla (o disinterpetrarla), aderendo così all’alternativo mondo amazzone della scrittrice è prendere le mosse, come sottolinea Ardilli, dalla celebre affermazione di Simone de Beauvoir secondo cui donna non si nasce. Questo enunciato miliare non solo è assunto da Wittig in tutta la sua dirompenza, ma la scrittrice sviluppa anche un suo completamento e una sua deriva, portando in scena una realtà ancor più oscena: se donna non si nasce sicuramente donna si muore. Questo è, in sintesi, quello che “succede” nei suoi scritti di finzione, come pure Il corpo lesbico testimonia. L’isola abitata, più che descritta, da Wittig, questo Eden anfibio, al contempo e indissolubilmente paradisiaco e infernale, in cui vivono solo “femmine” e dove tutto è declinato in grammatica lesbica – animal(e), cos(e), uman(e), personagg(e) mitich(e) –, è la libido femminile stessa, la cui scrittura è già di per sé lettura. Scrittura e lettura sono femmine e lesbiche, in quanto corpi testuali da eviscerare nella diffrazione soggettiva/possessiva di un’autrice che dà del tu alla lettrice amante. Il pronome personale e possessivo in prima persona è barrato graficamente e pertanto i/o è un attante relazionale, affettivo e sessuale più che il personaggio di un racconto erotico omosessuale. Inoltre i/o tu, «le due istanze di enunciazione che nel testo danno corpo alla passione lesbica» (Ardilli, p. 34), sono i pronomi che pongono la questione ideologica e storica dei soggetti femminili, come sottolinea la stessa Wittig in un suo intervento del 1975.

In fondo, quindi, Il corpo lesbico è un romancenient’altro – si fa per dire – che una storia d’amore tra l’i/o della scrittrice e il tu della lettrice. È tra queste due polarità che prende forma il divenire lesbico del mondo-tutto. Ma a chi si rivolge Wittig con quel tu? Certo non alla donna, categoria conosciuta e, per questo, vittima del discorso e della letteratura, bensì alla m/ia più sconosciuta, all’amante complice – in tutte le accezioni del termine – all’apice della raffigurazione dell’amore lesbico, a partire dalla sua posizione privilegiata di intellettuale che dispone del plus/valore delle parole: «I/o sono colei che muggisce con i suoi tre corni, i/o sono la tripla, io sono la benevola infernale, i/o sono la nera la rossa la bianca, i/o sono la grandissima l’altissima la potentissima colei il cui alito deleterio ha intossicato migliaia di generazioni e così sia, i/o siedo nell’alto dei cieli nel cerchio stellare dove sta Saffo dalle guance viola […], ma tu vieni subito m/ia più adorabile i/o abbandono la m/ia posizione indubitabilmente gerarchica […] mi getto ai tuoi piedi di cui la m/ia lingua lecca la polvere, i/o ti dico benedetta fra le donne tu che per prima sei venuta a sollevarm/i dal m/io posto di guardia situazione quanto mai eclatante tuttavia triste a causa della m/ia grande solitudine» (p. 191).

Con questo solo brano già si evince la maestria poetica di una scrittrice pienamente a proprio agio con i riferimenti della “grande” letteratura – da Saffo ai libri fondativi dell’onto-teologia occidentale, passando per le sue e i suoi contemporane* –, nonché la parentela per contagio e alleanza – non per filiazione ri/produttiva – con il pensiero deleuziano. Il divenire lesbica/animala – tutte le animali che convivono con le amazzoni dell’isola sono sempre declinate al femminile (la cangura, la serpa, la giumenta…) – significa tessere relazioni nonumane – ossia, come afferma Deleuze nella videointervista rilasciata nel 1988 a Claire Parnet, avere un rapporto animale con l’animale. Analogamente, la lettrice deve intrattenere un rapporto lesbico con la scrittrice lesbica. E ancora: quello che affascina Deleuze è che tutti gli animali hanno un mondo che gli umani non considerano o si limitano a descrivere e analizzare dall’alto della loro supposta posizione privilegiata. Allo stesso modo, Wittig crea un mondo lesbico, dove i corpi lesbici sono anatomie rovesciate, decostruzioni de-evolute, processi invertiti da un corpo a un altro corpo, corpi con così tanti organi, esposti e descritti in maniera talmente minuziosa, da divenire insostenibili per l’Eteronormatività, il Patriarcato, la Storia, il Capitale, la Razza e l’Umano.

Il teriomorfismo, l’ibrido femmina/animale è allora da considerarsi non solo oltre l’umano ma più in profondità oltre la specie: «Tocco le tue mammelle dure, le stringo nella m/ia mano. Tu ti reggi ritta sulle zampe con una di loro a momenti raspi il suolo. La tua testa sulla m/ia nuca pesa, i tuoi canini m/i incidono la carne nella parte più sensibile, m/i tieni tra le zampe […], m/i strappi la pelle con gli artigli delle tue quattro zampe […], m/i aggrappo alla tua pelliccia […], a un tratto tutta febbrile m/i prendi sulla tua schiena m/ia lupa […] le m/ie gambe serrandoti i fianchi il m/io sesso sussultante contro i tuoi lombi, ti metti a galoppare» (pp. 67-68). Correndo sensualmente con questo ibrido, in un processo di perenne ibridazione, Wittig descrive con inusitata potenza una sessualità in cui i corpi lesbici vengono sottratti al genere etero-pornografico: corpi letteralmente fatti a pezzi per essere poi ricomposti in un divenire in cui il piacere/dolore, la carnefice/vittima, la predatrice/preda sono ecceità magnetiche e cortocircuitanti che strappano visioni alla misera realtà dell’erotismo omologato: «I/o sono da te montata a pelo. Le tue cosce m/i stringono i fianchi. […] La m/ia testa è scossa tirata per tutta la criniera dalle tue mani. […] Tu armi i tuoi talloni allora e le tue gambe. Premi su di m/e con tutta la tua forza voce stridente, m/i laceri i fianchi con le tue numerose punte d’acciaio, li scortichi, ne fai uscire la carne viva […]. Allora così tormentata in tutte le m/ie parti i/o m/i slancio in una galoppata furiosa, i m/iei zoccoli martellano la terra con violenza, nitrisco senza fine, urlo con tutte le m/ie setole rizzate, ti porto via» (pp. 102-103).

Wittig, che nel 1976 abbandona la Francia per gli Stati Uniti, sembra così anticipare il post-porno americano, che reifica le posizioni del femminismo storico per poi riappropriarsene nella ricomposizione di soggettività eterodosse, sia rispetto alla categoria “eterosessualità” sia rispetto alla categoria “donna”, soggettività che diventano immediatamente soggett* rivoluzionar*. È proprio in questo frangente storico, infatti, che assistiamo all’emergere di soggettività politiche – nere e latine, migranti e precarie, prostitute e queer – relegate ai margini delle elaborazioni teoriche del femminismo bianco, soggettività rivoluzionarie che aprono inedite questioni sul sesso e pro-sesso, fino ad allora ignorate, invisibilizzate o del tutto trascurate. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla decostruzione pansessuale di Annie Sprinkle che materializza, come afferma Preciado, «uno spazio di azione politica attraverso il quale le donne e le minoranze sessuali possono ridefinire il loro corpo e inventare nuove forme di produzione del piacere che resistano alla normalizzazione pornografica dominante».

Wittig scrive il suo romance, la sua storia d’amore con la lettrice – su/a molto tormentata, amante impaziente, esultante, interdetta, solare, celestiale, amante sovrana  come se fosse già morta e vagasse nei meandri di uno spazio-altrove, dove ad esprimersi non è più il soggetto-oggetto donna, ma il corpo lesbico in quanto cadavere squisito. La confidenza con cui la scrittrice gioca con il proprio corpo vivo/morto è la stessa con cui dispone, sovvertendola, la relazione impossibile dell’amore con la morte. Se il mito, incluso quello di Eros e Thanatos, «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze […] organizza un mondo senza contraddizioni […], dispiegato nell’evidenza» (Roland Barthes, Miti d’oggi, p. 223-224), al mito eterosessuale che performa uomini e donne come gruppi naturali, Wittig contrappone l’anti-mito dell’al-di-là, una cosmologia dei desideri che si consumano su un’isola in/umana (postuma e postumana), cioè letteralmente priva di uomini e donne: «Di tanto in tanto le m/ie braccia gialle e putrefatte da cui escono lunghi vermi ti sfiorano, qualcuno di loro ti striscia sulla schiena, tu fremi […]. Lungo gallerie sottosuoli minati cripte grotte catacombe ci muoviamo mentre canti con voce vittoriosa la gioia di ritrovarm/i» (p. 65).

Come sottolinea Marcuse in L’uomo a una dimensione a proposito della letteratura d’avanguardia succeduta alla produzione artistica dell’alta cultura che, pur sostenuta dalle classi privilegiate, già conteneva in nuce la contraddizione tra il potere che concede e l’artista che sublima la propria alienazione da un mondo che rifiuta, la nuova dimensione dell’arte nelle società tecnologicamente avanzate è contrassegnata dalla rottura della comunicazione. È questa dimensione a connotare la scrittura di Wittig che proprio sulla distruzione del linguaggio a favore delle parole – isolate dal mare della comunicazione – fonda il proprio discorso poetico. Aderendo alle semiotiche di Barthes e rinunciando alle regole della proposizione, Wittig «designa un universo intollerabile, autodistruttivo, privo di continuità» (Marcuse, p. 88), crea un mondo che sovverte l’esperienza prestabilita della natura che homo (sapiens, hetero, pater)si è storicamente dato. Le parole di Wittig, per riprendere Il grado zero della scrittura di Barthes, sono segni «senza legami, forti della violenza del loro prorompere in luce […] queste parole poetiche escludono gli uomini» (p. 72).

L’opera di politicizzazione del lesbismo di Wittig sta suscitando sempre più interesse non solo in ambito accademico. L’horror femministaper esempio, sembra incarnare la visione della scrittrice francese, che situa nell’occhio – globo oculare, retina, nervo ottico – e non nello sguardo – in cui si annida il potere vivisettorio del regista – le lacrime amare della messa in scena. Quello che registe come Julia Ducournau – autrice di Raw Titane, due dei più emblematici film del filone cinematografico de-genere de-generato – vogliono esplicitare è proprio la dimensione sublime del corpo come nuova poetica della carne, profetizzata a suo tempo dal maschilismo esasperato di Cronenberg. Come nella scrittura di Wittig, in questi film il corpo lesbico è una macchina da guerra che affronta polisemicamente il corpo sociale, il corpo testuale e il corpo fisico come proiezioni del mito eterosessuale da distruggere.

Ma, allora, cosa può un corpo lesbico? Può senz’altro afferire a un altro corpo, a un corpo altro. La relazione tra due corpi, lo stato di affezione descritto da Spinoza, è una forma di conoscenza che Wittig descrive minuziosamente, immaginandola come una serie di infiniti processi di composizione e di decomposizione. Le lezioni deleuziane su Spinoza ritraggono il male come un cattivo incontro tra due corpi, una cattiva combinazione tra un corpo che disgrega, taglia e smembra e un altro che subisce questa alienazione dell’agire. In questo senso, l’isola delle lesbiche diventa il luogo dove è possibile comprendere di che cosa sia capace un corpo. Le personagge teriomorfe di Wittig rappresentano mappe affettive che, oltrepassando i presunti confini di specie, razza e genere, rimettono in discussione anche la “natura” eterosessuale delle “donne”: «Decomporre il corpo in parcelle infime, s/marcarlo dalla valorizzazione selettiva (labbra, seno, glutei, apparato riproduttivo) che compongono il mito della Donna» (Ardilli, p. 50). Il che ci riporta, come lungo il bordo di un’isola, al punto di partenza: distruggere la costruzione materialsemiotica eterosessuale del corpo significa affermare che non esistono donne ma corpi lesbici.

Forse il solo modo per de/finire questo libro è restituire alla parola il carattere, il peso e la dimensione che la logica propositiva della letteratura le ha irrimediabilmente tolto. Utilizzare il grado zero della letteratura per renderla indipendente dalla lingua degli uomini e dalla scrittura connotativa del romanzo borghese. A cominciare da prima della prima pagina: «LA CIPRINA LA BAVA LA SALIVA IL MOCCIO IL SUDORE LE LACRIME IL CERUME L’URINA LE FECI GLI ESCREMENTI IL SANGUE LA LINFA LA GELATINA L’ACQUA IL CHILO IL CIMO GLI UMORI LE SECREZIONI IL PUS LE….».

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Un buon auspicio! Basta lacrime!

Articolo di Maria Concetta Sala originariamente apparso qui.

Nel contesto sconquassato e sgangherato in cui ci troviamo a vivere la lettura dell’ultimo libro di Alessandra Bocchetti Basta lacrime (VandA.edizioni, 2022) offre a donne e uomini, a ragazze e ragazzi – interessati a leggere il risvolto meno noto delle origini dello scardinamento in atto e delle aperture su idee e visioni in un orizzonte di autentica libertà grazie alla potenza di un’idea sovvertitrice dell’ordine millenario del patriarcato – la possibilità di ripercorrere, se non di scoprire, la storia politica dell’Italia nel venticinquennio 1995-2020 attraverso lo sguardo di una donna impegnata insieme ad altre donne nell’edificazione di una civiltà che metta al primo posto un nuovo senso dell’umano rivolto alla cura del vivente, all’attenzione materna, alla tensione verso la giustizia.

Si tratta di una storia politica che continua ad alimentare « principi ordinatori della società » totalmente diversi da quelli dominanti –  quali il potere, il denaro, la violenza –  e che contribuisce a diffondere « una cultura meno eroica, meno violenta, più radicata nel mondo » (p. 287), perché ancorata alla conoscenza e all’accettazione della fragilità umana e della condizione di interdipendenza alla quale tutti, donne e uomini, siamo sottoposti. Si tratta di una straordinaria reinvenzione dello stare al mondo e nel mondo a partire dal « lavoro oscuro » delle donne, « insomma, l’invisibile della storia », che è « oggi, un tesoro da spendere accumulato nel corso di secoli, che è il loro sapere materiale generato dall’aver visto l’umanità sempre da molto vicino, nel suo splendore e nella sua miseria, nei profumi e nelle puzze » (p. 78).

Alla femminista della differenza Alessandra Bocchetti, figura di spicco del  Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fondato nel 1979 insieme ad altre amiche, alla donna da sempre in dialogo con le istituzioni ma distante dal femminismo istituzionale o di Stato dobbiamo questa raccolta di scritti politici che pur precisamente datati in quel ventennio ruotano intorno a questioni ancor oggi decisive per il futuro dell’umanità tutta e sollecitano a un ulteriore dibattito – ne elenco alcune: violenza e identità, corpo e maternità, violenza e giustizia, diritti e desideri, libertà e liberazione, femminismo e femminismi, soggettività e governo delle donne… Questioni complesse che i documenti, le lettere, gli articoli di Bocchetti hanno il pregio di porgere con grande pacatezza e di formulare in un registro piano, scorrevole e chiaro.

Mi soffermo su alcuni aspetti in una certa misura sorprendenti e che più hanno destato la mia curiosità e suscitato interesse, primo fra tutti il riaffiorare in diversi scritti di un vocabolo quale « dignità umana », che vorrei reinterrogare tenendo presente la possibilità di stabilire dei nessi con la ricerca della felicità da parte di una donna.

Dignità è una parolina che ha una lunga storia: riguarda il valore unico e irripetibile che ogni individuo maschio o femmina possiede di per sé in quanto essere umano esistente su questa terra, nella sua qualità di essere umano, nel suo essere partecipe alla comune umanità. Simone Weil, molto amata da Alessandra Bocchetti, e il cui pensiero ricorre spesso in questa raccolta,  è la prima a fare dell’affermazione della dignità umana un obbligo incondizionato, l’obbligo primario, agganciandola ai bisogni umani, al nutrimento del corpo e dell’anima di ogni essere umano:

L’oggetto dell’obbligo, nel campo delle cose umane, è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando non gliene si riconoscesse alcuno.

Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione di fatto può suscitare un obbligo.

Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare (1) .

Si tratta, continua Simone Weil, di un obbligo fondamentale, eterno, incondizionato, che « non ha un fondamento, bensì una verifica nell’accordo della coscienza universale » (2) e che si trova espresso nei più antichi testi a partire dall’antico Egitto.

Per Alessandra Bocchetti dignità è una grande parola: « A pensarci bene, da sola basterebbe a fare un buon programma di governo. Se si pensasse alla dignità che a ciascun essere umano si deve in questa terra, che meravigliosi programmi si farebbero per il lavoro, per l’istruzione, per la salute! Sì, dignità è una parola che ci aiuta a fare bene » (p. 224). Gli esseri umani, donne e uomini, sostiene giustamente Bocchetti, sono uguali unicamente nella dignità, che « non è un bene da conquistare ma che ciascuno ha, malgrado se stesso, per il solo fatto di essere nato, per il solo fatto di condividere la condizione umana. Mi piacerebbe leggere nelle aule dei tribunali la scritta in bella vista: “La dignità è in ciascuno di noi”, sarebbe forse una frase profondamente più vera de “La giustizia è uguale per tutti”» (p. 245).

Il riconoscimento della dignità umana, lo sappiamo,  è un pilastro della civiltà giuridica e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e sappiamo anche quali e quante lotte le donne hanno dovuto sostenere perché questo principio si traducesse in realtà di fatto, ma, sottolinea con vigore Bocchetti, tutto quello che le donne hanno conquistato sulla carta, nei diritti, « può restare lettera morta se non viene animato da un soffio […] che dà energia» e questo soffio « è appunto un’idea nuova e forte, capace di cambiare le regole del gioco. […] È l’idea di diritto-aspettativa di felicità. Vedete, ho usato una doppia parola, “diritto-aspettativa”, in realtà né l’una né l’altra vanno bene, la parola diritto è troppo arrogante, la parola aspettativa è troppo debole. Ce ne vorrebbe una terza…» (p. 81).

Saggiamente viene sottolineato in un altro scritto che si tratta di un’idea nuova, di uno straordinario e rivoluzionario risultato, perché ha innescato un mutamento nell’ordine del discorso e nell’ordine dei fatti, ma qua e là affiora l’impazienza del “tutto e subito” che è a mio parere un errore, perché la rivoluzione delle donne è una rivoluzione simbolica, nella quale rientrano azione e contemplazione, e necessita di tempi lunghissimi E del resto lo ammette la stessa Bocchetti nel suo intervento nel corso di  un convegno sugli anni Settanta svoltosi a Cinisi nel 2018: « La felicità di una donna ha dato sempre un certo scandalo nell’ordine dei padri, risultava sempre un po’ fuori posto, il dolore era il sentimento che più si addiceva alla donna, la sua icona. Adesso invece questa felicità possibile è nella testa di tutte noi » (p. 239); e questo «è stato un grandioso passo avanti verso la libertà » (p. 247), lo ribadisce in un discorso tenuto durante il convegno “Stereotipi e pregiudizi sulla violenza di genere” organizzato dall’ Area Democratica per la Giustizia in Senato nel 2019.

Un altro aspetto importante di questo libro è il rilievo dato al lavoro delle donne, quello in casa, quello fuori di casa, fino alla presa di posizione giustamente intransigente nei confronti di quel terribile contratto che regola la  maternità per altri. Bocchetti è consapevole della visione statica della libertà delle donne che la politica tradizionale ha fatto propria e denuncia le armi a doppio taglio quali, ad esempio i congedi parentali e il part time, che mantengono le donne prigioniere e protette in gabbia; e si pronuncia contro le politiche di genere che hanno rafforzato e non eroso la miseria e la debolezza femminili in una sincera autocritica che è qualcosa di raro e di esemplare nella storia del movimento delle donne: « Abbiamo dato credito solo alla miseria delle donne, alla loro debolezza e abbiamo cercato di mettere a punto politiche di tutela, di riparo, di consolazione, non rendendoci conto che, così facendo, contribuiamo alla nostra imperfetta cittadinanza. […] La nostra cittadinanza diventa piena solo quando la nostra attenzione e tensione modificatrice va alla società intesa nella sua complessità », perché le donne sono « parte costituente della società stessa» (pp. 152-53). La sua riflessione sulla formula “forza-lavoro” è fondamentale ancora oggi : «Un padrone di fabbrica non compera l’operaio, compera la sua “forza-lavoro”. L’operaio non vende il suo corpo, vende la sua “forza-lavoro”. Simone Weil e altri ci hanno spiegato questo puro imbroglio. Weil, che ha voluto sperimentare la catena di montaggio alla Renault, ci racconta che è l’intera vita che se ne va, se ne va il poter pensare, il poter immaginare, la voglia di parlare, la salute, l’eros…» (pp. 217-18).

Alessandra Bocchetti fa bene a sottolineare l’importanza che potrebbe avere oggi una riflessione delle donne sul lavoro: « Nessuno ha mai difeso veramente il lavoro delle donne, né i partiti, né i sindacati. Il lavoro delle donne è stato sempre considerato aggiuntivo. […] È importante che il femminismo si assuma questo tema in questo momento, è un tema allo stesso tempo materiale e profondamente simbolico » (articolo apparso il 20 luglio 2020 sul supplemento La 27esima ora del «Corriere della Sera»). Sono d’accordo, bisogna riprendere le fila del discorso a partire dal «Sottosopra» del 2009, Immagina che il lavoro, un manifesto ben sintetizzato nella formula Primum vivere, che significa mettere al centro la vita ma non subordinando l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o viceversa, bensì attribuendo valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, a ciò che è vitale e non mortifero (3).

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1) Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di Franco Fortini, SE, Milano, 1990, p. 14.

2) Ibid., p. 15.

3) A questo proposito si  vedano ulteriori considerazioni nell’articolo redatto per «pressenza. International Press Agency, redazione di Palermo:  https://www.pressenza.com/it/2020/11/tutto-il-lavoro-indispensabile-alla-vita/

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Syl Ko

Ha studiato filosofia alla San Francisco State University e alla University of North Carolina. Appassionata di studi sociali, attualmente lavora a un libro che esplora le forme di vita di Wittgenstein in cui considera la razzializzazione dell’animale.

Con la sorella Aph Ko è autrice di AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero (VandA 2020).

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Marta Correggia

Marta Correggia è magistrato dal 2002, vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste letterarie (Perrone, Storie, Tina la rivistina) e ha curato pubblicazioni di carattere giuridico (Guida al diritto – Sole 24 ore, Giuffré, Simone editore) “Il mio nome è Aoise” è il suo primo romanzo.

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Recensione “Carne da macello” di Carol J. Adams

Il 10 aprile 2022, sul suo blog “Diario di ErreBi”, Romina Braggion ha recensito Carne da macello. La politica sessuale della carne di Carol J. Adams.

“In Carne da macello, con una  rara visione di insieme, Adams sviscera il concetto del referente assente e lo connette a una serie di aspetti relativi al femminismo e al veganismo. […] Adams analizza il dispositivo della violenza. […] Adams include una pletora di immagini tratte da pubblicità becere, tutte a tema creofago. […] Al termine della lettura del saggio di Adams, la riflessione maturata riguarda l’urgenza di affiancare a femminismo, veganismo e antispecismo, il tema dell’ambientalismo”.

Per leggere l’articolo completo clicca QUI.

 

 

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Rassegna stampa Carne da macello di Carol J. Adams

Carne da macello di Carol J. Adams è un libro che ha fatto molto discutere, scatenando un’incredibile reazione mediatica e provocando gli insulti della stampa conservatrice.

Ecco la rassegna stampa relativa a questo importante volume:

Il Manifesto

PhilosophyKitchen.com

Culturafemminile.com

La mano sinistra

La casa delle donne di Milano

Vocisinistre

Leggere Donna

Filosofemme

Radio Radicale

Amoreaquattrozampe.it

Corriere.it

Diario di ErreBi

L’Internazionale

 

 

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Quarant’anni dalla comune di Greenham: “Arrivammo contro la guerra. Siamo rimaste per il femminismo.”

Nel 1982 Julie Bindel si unì alle 30mila donne attorno alla base in protesta contro le armi nucleari. Qui racconta il punto di svolta che quella protesta rappresentò per le loro vite.

Di Julie Bindel
(della stessa autrice, Il Mito Pretty Woman)


Nel settembre 1981 trentadue donne, quattro uomini e molti bambini marciarono da Cardiff fino a Berkshire per protestare contro l’installazione di armi nucleari alla base aeronautica inglese di Greenham.

L’anno seguente, le fondatrici dichiararono l’accampamento “per sole donne”, e il campo di pace femminile comune di Greenham divenne uno degli esempi più noti e duraturi di proteste femministe degli ultimi tempi.

Il campo fu costruito attorno alla base RAF per protestare contro il posizionamento di armi nucleari americane su suolo britannico. Affrontando la polizia e i soldati, le donne gridavano: “State dalla parte del suicidio? State dalla parte dell’omicidio? State dalla parte del genocidio? Da che parte state?”

Rebecca Mordan, al tempo una bambina, fu portata a Greenham da sua madre. “Era profondamente catturata dal femminismo radicale,” dice Mordan. “Stava sul palo del telefono, di notte, e faceva la guardia al campo, così che le donne potessero dormire. Era all”Università del Femminismo’.”

Nell’agosto 2021, per nove giorni, Mordan ha ripercorso con decine di donne il cammino che nel 1981 la portò da Cardiff alla comune di Greenham, per concludere il viaggio con un weekend di celebrazioni culminate con l’anniversario della marcia.

“Non vogliamo che le donne muoiano e portino con sé le testimonianze di Greenham”, dice Mordan, che ha lanciato il sito Greenham Women Everywhere (Donne di Greenham Ovunque), e ha curato il libro Out of the Darkness, basato sulle storie del campo.

Tra il 1981 e il 2000, quando il campo fu restituito ai residenti, più di 70.000 donne manifestarono, ballarono, cantarono e agirono in prima persona, tagliando le recinzioni e facendo irruzione nelle torri di guardia. Fu la più numerosa protesta di donne dai tempi del Movimento per il suffragio femminile.

“I missili da crociera furono rimossi, le leggi internazionali cambiarono, la base aeronautica fu restituita al popolo. La base costò agli americani milioni di sterline, e intanto queste donne parlavano alle Nazioni Unite. Migliaia di donne aderirono al femminismo radicale, anche se restavano al campo soltanto una settimana. L’esperienza mostrò loro l’oppressione, fece avvicinare le donne borghesi alle donne operaie. Fu vero femminismo intersezionale,” dice Mordan.

La comune di Greenham e i suoi slogan presto divennero fonte di imbarazzo per il governo britannico e americano.

“Nel 1982, quando mi unii a 30mila donne in cammino per Greenham per ‘abbracciare la base’, l’unico mezzo pubblicitario erano le lettere a catena inviate tramite gruppi di donne. La gente sente parlare di Greenham e pensa subito a donne di mezz’età e si chiude,” dice Mordan.  E invece erano donne di tutte le età, di ogni estrazione sociale che si unirono a Greenham.

“Dobbiamo portare avanti l’eredità delle donne di Greenham. I ragazzi e i giovani chiedono sempre ‘Perché non ci hanno parlato di questo? È un furto culturale’”, dice Stephanie Davies, donna di Greenham e autrice di Other Girls Like Me.

“Quando si parla di Extinction Rebellion, si fa spesso riferimento alle Suffragette, ma non si parla mai delle donne di Greenham,” spiega Davies. “Il campo mi offrì un riparo dalla violenza maschile, lo trovai lì in altre donne, specialmente quelle in fuga da relazioni abusive.”

Ricordo che frequentavo un club per sole donne ad Islington il venerdì sera. Da un van scendevano le donne di Greenham, per rinfrescarsi al bagno prima di ballare senza sosta e bersi una pinta. Si riconoscevano da subito per i loro tagli alla moicana colorati e i loro vestiti sporchi, che sapevano di legna bruciata.

Con la vita al campo, molte donne eterosessuali sposate si resero conto che potevano non aver a che fare con gli uomini e instaurarono relazioni con altre donne. Molti giornali avevano dei pregiudizi e descrivevano le donne di Greenham come “sporche, sozze lesbiche”. Con quella singola espressione di odio diveniva facile condannare il femminismo di sinistra e l’attivismo pacifista in un colpo solo.

Scegliere Greenham non fu facile. Combattevo contro stupro e violenza domestica al tempo, e gli obiettivi di affetto e cura delle donne che protestavano per la pace rientravano negli stereotipi sessisti sulle donne. Vivere al campo, al gelo, e mangiare stufato di lenticchie in continuazione erano un ulteriore deterrente.

Eppure io ero attratta dall’idea di Greenham per due motivi: primo, perché le relazioni lesbiche e i legami stretti tra donne venivano normalizzati, e si apriva la possibilità di rapporti alternativi anche a donne che non li avevano mai presi in considerazione: erano tempi in cui l’omofobia la faceva da padrone, prima della Section 28, e molte donne lesbiche perdevano la custodia dei propri figli contro mariti violenti.

Un altro motivo di fascinazione era il modo in cui le attiviste collegavano le forze dell’ordine, il militarismo, la guerra e le quotidiane forme di violenza maschile contro le donne.

Nonostante il campo, il primo missile di crociera arrivò a Greenham nel 1983, ma le proteste continuarono per tutti gli anni ’80: molte donne furono condotte a processo, sanzionate o persino incarcerate.

Il trattato sulle forze nucleari a medio raggio firmato da Stati Uniti e Russia nel 1987 spianò la strada alla rimozione dei missili di crociera da Greenham tra il 1989 e il 1991. Nel 1992 l’aeronautica americana lasciò la base, poco dopo le forze britanniche fecero lo stesso. Al campo di pace le proteste contro le armi nucleari continuarono fino al 2000.

Oggi, parte di Greenham è un’area produttiva, mentre il resto è divenuto suolo pubblico.

Rebecca Johnson arrivò al campo nel 1981 e visse lì per cinque anni. È direttrice e fondatrice dell’Acronym Insitute for Disarmament Diplomacy, che promuove l’uso della diplomazia per il disarmo nucleare, nonché co-fondatrice della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, e vicepresidente del Centro per il disarmo nucleare.

“Molte di noi si unirono contro le armi nucleari e rimasero per il femminismo. Dopo quarant’anni, sembra che si continuino a combattere le stesse lotte. Abbiamo creato connessioni con le donne che in tutto il mondo vivono guerre e conflitti,” dice Johnson.

Forse la nostalgia contribuisce alla gioia che quel campo donò alle donne che non avevano potuto vivere al di fuori di nuclei familiari eterosessuali, o lontane dal controllo degli uomini. Quelle donne che vivevano in comune su una scala così larga sono probabilmente il più brillante gruppo di autocoscienza femminista in tutta la storia del movimento.

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“La produzione letteraria femminista nella seconda ondata”. Intervista a Deborah Ardilli su Global project

Il 2 aprile 2022 Global project ha pubblicato l’intervista a Deborah Ardilli tenutasi a Book Pride durante il panel “Editoria femminista: l’importanza di mettersi in rete”.

Per leggere l’intervista clicca QUI