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Recensione – Lo scandalo della felicità

Articolo di Ivana Margarese, originariamente comparso su Marel – voci dall’isola

“A volte una donna, dimenticata e taciuta, si “appella” a un’altra donna per prendere corpo e uscire dall’oblio. È un richiamo misterioso che, negli ultimi decenni, storiche, letterate, artiste hanno imparato a riconoscere e decifrare. Siamo una schiera che porta alla luce un incommensurabile patrimonio di vite celate per costruire, finalmente, una genealogia femminile: solo allora un millennio diverrà un giorno. Un giorno in cui altri e altre conosceranno le “sconosciute” nascoste negli scarti della storia”.
Pina Mandolfo racconta la storia di una donna coraggiosa, la principessa Anna Valdina, che nel 1600 a Palermo fu monacata a forza quasi bambina e trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. La storia privata si intreccia con eventi e personaggi della Palermo spagnola, contrapponendo la logica del desiderio e della scelta del singolo agli intrecci di potere del tempo in un romanzo dal ritmo musicale e appassionato che permette al lettore di entrare dentro “una stanza tutta per sé”.


Lo scandalo della felicità
 è un titolo molto bello che ben rende la vicenda che racconti in questo romanzo, ovvero quella della principessa Anna Valdina, costretta a farsi monaca appena adolescente, contro la sua volontà. Come nasce l’esigenza di raccontare questa storia? Cosa ti ha condotto a Anna Valdina?

Camminando per le vie di Palermo mi sono imbattuta per caso in una mostra dell’Archivio di Stato  che metteva in mostra alcune pergamene usate per le professioni di voto. La stessa mostra pubblicizzava il carteggio di un processo per lo scioglimento dei voti richiesto da una donna, Anna Valdina, di illustri natali monacata a forza nel 1600. Essendo il mio progetto di vita quello di portare alla luce donne taciute dalla storia non potevo che raccogliere, quasi come un dovere, i dettagli di questa vicenda che mi incuriosì molto a tal punto che trascorsi dei mesi dentro l’archivio per decifrare e poi finalmente riuscire a leggere le testimonianze del processo.

“Scrivendo di Anna Valdina, immaginando la sua vita, sentivo la mia intrecciarsi alla sua, in quel prodigioso corpo a corpo che si stabilisce tra chi scrive e le sue creature. Il suo tempo è diventato il mio e quello di tante donne che, ieri come oggi, lottano per mettersi al mondo libere”. La protagonista, come te, è siciliana e ha vissuto in un secolo di sfarzi, inganni e ipocrisie ostile alla sua voglia di chiarezza e di espressione senza infingimenti. Ritengo che l’habitus siciliano si riveli spesso piuttosto teatrale o legato allo sguardo, al silenzioso movimento del guardare ed essere guardati più che all’azione palese e manifesta. Vorrei una tua considerazione.

Personalmente non credo che il “principio” di vanità sia peculiare della tradizione siciliana. La nobiltà delle corti europee ruotava intorno all’apparire. Dietro il quale nascondere intrighi, silenzi, trame. Forse oggi quel costume è superato ma la spavalda abitudine della maldicenza, del turpiloquio usati e abusati senza filtri non sono da meno. Restringendo il campo alla nostra terra direi che la teatralità del gesto e della parola forse è un costume antico ma anche dell’oggi. Lo vedo soprattutto nel parlare palermitano talvolta esagerato e triviale, tal’altra gradevole e così coinvolgente da stupire e del tutto peculiare la cui singolarità è difficile da imitare.

Tra i ringraziamenti c’è anche quello a Maria Nadotti, donna impegnata da sempre nella riflessione sulla condizione femminile. Qual è il rapporto che vi unisce?

Maria è una vecchia e cara amica. Ci siamo incontrate casualmente nel corso di un convegno della Società Italiana delle Storiche a Siena circa ventotto anni fa. Da allora la nostra amicizia è cresciuta condividendo eventi letterari, festival cinematografici e momenti di vita comune. La complicità fatta di ammirazione reciproca di condivisione di idee e progetti ha nutrito la nostra relazione.

“Angoscia, per mettere in scacco la morte e trascinare la vita, qui, sul luogo in cui una donna possa avanzarsi attraverso l’angoscia, sentirsi ascoltata da donne, nel luogo che non rigetta, sentirsi letta, accompagnata, nel luogo che fa corpo con il tuo corpo, al di là della Legge e della sua scena della castrazione, nello spazio già aperto dal movimento delle donne, quel gesto, quel pensiero che soli possono dare al testo poetico la sua portata politica”. All’inizio del romanzo riporti queste straordinarie parole di Hélène Cixous. E via via nel testo in apertura delle varie parti troviamo in epigrafe Adrienne Rich, Anna Maria Ortese, Virginia Woolf e altre che intrecciano la loro voce a quella di Anna e alla tua creando così una disseminazione di voci femminili che raccontano la storia di una difficile conquista della libertà per le donne. Non a caso in conclusione c’è un riferimento a Olympe de Gouges, morta per la sua rivendicazione di libertà.

Portare alla luce il soggetto femminile precipitato nelle scorie della storia o creare un legame con altre donne dell’oggi il cui vissuto è fonte di stima, di sana emulazione è la strada per la creazione di un corpo collettivo forte che potrebbe incidere nella crescita e nella messa al mondo della libertà delle donne. E’ la necessità di creare quella genealogia femminile imprevista dai canoni disciplinari. Impedita da una sudditanza creata dall’impianto potente della disparità di genere. Le donne citate nel mio libro oltre alle protagoniste sono le tante a cui dobbiamo appellarci e alle quali io mi appello insieme a tante altre più o meno note per colmare la distanza tra noi e la cultura che ci è stata data. Nutrimento simbolico per il nostro sesso. Anna in convento fa esperienza dell’invidia e del livore delle altre monache ma anche del sentimento di amicizia e solidarietà tra donne in maniera non dissimile a ciò che ciascuna di noi ha sperimentato nel corso della sua vita. Che ruolo ha l’amicizia nel sostenere le nostre idee?

Ritengo che le invidie e le gelosie tra donne siano un veleno letale che indebolisce il nostro sesso e ci toglie la capacità e la forza per un cambiamento radicale. Come già detto solo la solidarietà, l’ammirazione, la complicità è la strada per prendere in mano il mondo e donare pace e bellezza.

Che ruolo ha l’attesa in questo romanzo?

 “L’attesa” era il titolo che in un primo momento avevo scelto per il mio libro. L’attesa della protagonista durata oltre cinquant’anni mi è sembrata qualcosa di straordinario. Giorni, mesi, anni incredibilmente lunghi con un unico progetto la libertà. Un canto di libertà che difficilmenteNun essere umano riesce a portare avanti. Immaginare Anna Valdina nutrirsi di questo sentimento senza mai lasciarsi prendere dal desiderio di cedere è così vicino a qualcosa che è mio. La lotta che dagli anni ’70 ad oggi con tante altre donne mettiamo in atto contro la misoginia imperante, più o meno manifesta, che affligge il nostro mondo e che ci affligge. Ma dire “Lo scandalo della felicità” poi mi è sembrato poi più significativo perché lottare per la nostra libertà quando c’è qualcuno che ti impedisce fa scandalo esige gesti e parole scandalose. Così che l’attesa si fa scandalosa per la singolarità di gesti e parole che la nutrono.

Infine vorrei chiederti un parere sui cambiamenti che osservi in termini di diritto per le donne e su cosa ti auguri per il futuro.

    -Purtroppo la risposta è semplice e non certo positiva. Abbiamo raggiunto obiettivi impensabili anni fa. Ma l’equivoco dell’emancipazione ci rende ancora soggette e discriminate. Nel nostro privato sentiamo di aver raggiunto una autodeterminazione che troppo spesso non corrisponde al nostro stare al mondo. E se in molti paesi le donne sono ancora assoggettate, non credo che nel mondo occidentale si viva la prossimità di ruoli di vera parità pur nella nostra irriducibile differenza. Quella parità che ci consenta di essere guida del mondo. Un mondo che il patriarcato e il soggetto maschile, diciamolo pure, ci consegna giorno dopo giorno, sempre più alla deriva. Colpevole di discriminazioni, violenze, stupri, femminicidi, per non parlare di guerre e azioni rovinose per il pianeta. Lotteremo ancora, così come recitava uno slogan del femminismo glorioso degli anni ’70 “La lotta non è finita”. Quella lotta che ha regalato esito felice alla mia protagonista la assumo come simbolica per un esito simile per noi donne tutte che nell’oggi cerchiamo la strada scandalosa della vera democrazia: la felicità.