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“Il caso del cane marrone” presentato da Silvia Molé nel podcast Restiamo Animali

L’attivista antispecista Silvia Molé ha presentato Il caso del cane marrone: storia del monumento che ha diviso una nazione di Peter Mason nel podcast “Restiamo animali”, puntata 630 (25/02/2022). 
Molé ha parlato del tragico tema della vivisezione, che assieme alla sperimentazione sugli animali resta una questione purtroppo ancora aperta.
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#branidaleggere “Il Caso del Cane Marrone”, Peter Mason

Ecco un estratto dal libro “Il Caso del Cane Marrone” di Peter Mason, un fatto di cronaca avvenuto nella Londra dei primi del Novecento. In questo estratto conosciamo due studentesse attiviste che iniziano ad indagare sulla crudeltà afflitta agli animali vivisezionati vivi nelle scuole di medicina di Londra.

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Lind-af-Hageby e Schartau si conoscevano fin dall’infanzia,
vissuta nel confortevole e privilegiato mondo dell’alta
società scandinava. Lind-af-Hageby, figlia più giovane di
un ex giudice, dopo una prima istruzione a Stoccolma aveva
studiato per un periodo al Cheltenham Ladies College in
Inghilterra, mentre Schartau era figlia di un capitano dell’esercito
svedese.

Sebbene si fossero incontrate molte volte, fu solo all’età
di circa vent’anni che strinsero un forte legame di amicizia
dopo un casuale incontro all’Opera House di Stoccolma,
quando scoprirono il comune interesse per la scienza, le
giuste cause e il desiderio condiviso, ma ancora indefinito,
di migliorare il mondo.

Nel 1900 decisero di mettersi entrambe in viaggio per
Parigi, il cui momento clou sarebbe stato una visita all’Istituto
Pasteur, rinomato centro di ricerca medica. Erano andate
per ammirare i progressi della scienza moderna, ma
nessuna delle due si aspettava la non regolamentarità dei
laboratori francesi, dove si tollerava quasi ogni genere di
esperimento animale, anche il più brutale e privo di fondamento
scientifico. Quel che videro all’Istituto Pasteur le
inorridì.

A distanza di circa venticinque anni Lind-af-Hageby dichiarò:
«Trovammo gabbie su gabbie, grandi stanzoni con
centinaia di animali ai quali erano state inoculate malattie.
La nostra guida, un giovanotto a modo e gentile, talvolta
apriva una gabbia, raccoglieva il corpo senza vita di un coniglio
o di un porcellino d’india e lo lanciava in un secchio
sotto il tavolo. Quando gli domandai esterrefatta se ogni
animale al quale era stata inoculata la malattia fosse stato
studiato con attenzione, egli replicò che era periodo di ferie
e che molti ricercatori non erano a lavoro».

Lind-af-Hageby rimase particolarmente scossa nel vedere
la difficoltà di un cane che tentava di raggiungerla con le
zampe attraverso le sbarre della gabbia. «Quello sguardo
sofferente e la sua richiesta di aiuto mi toccarono il cuore.
Da allora il destino degli animali vivisezionati è stata la mia
costante preoccupazione» disse. Anche Schartau ne fu turbata,
e fu così che le due giovani amiche, ormai convinte
oltre ogni dubbio dell’immoralità e della non scientificità
della vivisezione, trovarono la missione della loro vita.
Al rientro in Svezia, lo stesso anno, iniziarono a prendere
confidenza con la lotta alla sperimentazione animale. Nel
dicembre del 1900 fondarono insieme la Anti-Vivisection
Society of Sweden, di cui divennero segretarie onorarie nell’aprile
del 1901.

Determinate a combattere la vivisezione sul suo stesso
campo, accelerarono gli studi di fisiologia e nel giro di un
anno decisero di trasferirsi a Londra per ampliare le loro
conoscenze. Poco più che ventenni, nell’autunno del 1902
si iscrissero alla London School of Medicine for Women
(adesso Royal Free Hospital), dove non venivano condotti
esperimenti sugli animali. La scuola consentiva tuttavia alle
studenti di assistere a dimostrazioni in altre università della
capitale, ed entrambe le donne colsero appieno questa opportunità.
Frequentarono circa cento lezioni e dimostrazioni in vari
laboratori, cinquanta delle quali coinvolgevano esperimenti
su animali vivi e venti potevano essere classificate come vere
e proprie vivisezioni. Per tutto il tempo mantennero un
profilo basso, pur rivelando la loro identità e le loro vedute
scientifiche quando esplicitamente richieste, e presero molti
appunti su ciò a cui avevano assistito.

Vari mesi dopo Lind-af-Hageby e Schartau decisero di
aver visto abbastanza, e fu con disgusto che nell’aprile 1903
abbandonarono gli studi. Non è chiaro se la decisione fosse
stata programmata fin dall’inizio, Lind-af-Hageby dichiarò
che entrambe avevano però sempre avuto come obiettivo
quello di concludere gli studi: «All’inizio non avevamo in24
tenzione di rendere pubbliche le nostre esperienze in questo
modo, speravamo solo di poter fare meglio il nostro lavoro.
L’idea di lavorare a un esame finale e conseguire una laurea,
nostro obiettivo iniziale, è stata abbandonata in quanto la
fisiologia è al momento inscindibile dagli esperimenti sugli
animali, e nessuno che si opponga a questi potrà mai avere
opportunità di conseguire la laurea».

Di sicuro le due donne sembravano perfettamente in
grado di completare gli studi se solo avessero voluto. Un
loro futuro nemico ammise che «entrambe erano considerate
dal professore di fisiologia studentesse avanzate e intelligenti».

Tuttavia dovevano essere state al corrente che il corso
avrebbe previsto la vivisezione, e questo sembra essere
stato proprio il motivo per cui si iscrissero. È più probabile
che avessero considerato il corso un’opportunità per raccogliere
informazioni, come suggeriscono le loro azioni successive.
Si erano iscritte alla London School of Medicine
come studentesse “parziali”, in un percorso più economico
istituito per chi non intendeva completare gli studi necessari
per conseguire il titolo di medico.
Il 14 aprile 1903, quasi appena abbandonati gli studi,
Lind-af-Hageby e Schartau mostrarono il manoscritto dei
loro diari a Stephen Coleridge, avvocato di ottima famiglia
da sempre impegnato nella causa antivivisezione e segretario
onorario della National Anti-Vivisection Society (NAVS).
Lessero alcuni passi dei diari che avevano in programma di
pubblicare e gli riportarono le proprie esperienze nelle diverse
università di medicina di Londra. Coleridge fu colpito
dalle rivelazioni nel capitolo intitolato “Divertimento”, in
cui le donne dichiaravano di aver assistito ad angoscianti
esperimenti animali di gran lunga inutili, condotti in un’atmosfera
generale di spensieratezza nei teatri di fisiologia
della University of London’s University College, uno dei
centri all’avanguardia nella vivisezione.
Nello specifico, fornirono dettagli di una dimostrazione
in particolare, alla presenza di circa 70 studenti, nel tardo
pomeriggio del 2 febbraio 1903, in cui un cane marrone,
con una visibile ferita (presumibilmente esito di un esperimento
precedente), veniva sezionato al collo per illustrare la
sua ghiandola salivaria. Il cane, che a detta delle spettatrici
svedesi sembrava non essere propriamente anestetizzato, si
contorceva nel dolore durante la dimostrazione finché, circa
mezz’ora dopo, veniva portato via per essere abbattuto.
Coleridge era convinto di trovare in questo racconto almeno
due possibili violazioni alla legge contro la crudeltà
verso gli animali, il Cruelty to Animal Act del 1876, che la
sua stessa società aveva contribuito a promuovere. In primo
luogo, la presenza di due ferite sembrava provare che la bestia
fosse stata oggetto di più di un esperimento, cosa illegale;
inoltre il cane sembrava non essere anestetizzato a dovere,
anche questo contrario alla legge.

Nonostante il ruolo ricoperto dalla NAVS nel promulgare
la legge, Coleridge non credeva a fondo nella sua efficacia:
chiunque volesse appellarsi a essa per denunciare un illecito
doveva farlo entro sei mesi dall’avvenuto presunto misfatto,
in conformità con il Public Authorities Act del 1898; poiché
dunque il racconto degli eventi narrato dalle due donne
si riferiva a quasi quattro mesi prima, Coleridge non avrebbe
avuto a disposizione il tempo sufficiente per raccogliere
materiale probante (se mai ne avesse trovato). Ad ogni modo,
e cosa ancora più rilevante, un’azione legale in nome del
Cruelty to Animal Act poteva essere condotta solo con
l’approvazione del segretario di Stato, un’eventualità rara
fino a quel momento.

Coleridge decise quindi di aggirare quella che gli antivivisezionisti
più radicali consideravano una legge deliberatamente
ostruttiva, spostando la questione su un piano più
ampio. Convinto di poter almeno allacciare delle pubbliche
relazioni utili, decise di portare la questione all’attenzione
nazionale riferendo le accuse delle due donne, rimaste fino
ad allora su un piano privato, in un discorso pubblico di
alto profilo.