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Julie Bindel @Rimini

– VandA.ePublishing insieme a Morellini editore è lieta di presentare Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione di Julie Bindel

Julie Bindel parteciperà l’8 marzo, giornata dedicata alle donne, all’incontro I miti della prostituzione. Le donne parlano della violenza maschile presso il Teatro degli Atti di Rimini.

 

Il commercio internazionale del sesso è al centro di uno dei dibattiti più accesi a livello mondiale, e non solo fra le femministe e gli attivisti per i diritti umani. Per decenni la sinistra liberale ha oscillato fra il pro-sex work e l’abolizionismo. Ma oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, la “puttana felice”, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, l’unico modello legislativo che protegge i diritti umani delle persone prostituite.

Julie Bindel, giornalista britannica, rinomata per le sue inchieste, si è occupata di fondamentalismo religioso, violenza contro le donne, maternità surrogata, commercio di mogli ordinate su catalogo, tratta di esseri umani e delitti insoluti. Scrive regolarmente per The Guardian, NewStatesman, Truthdig, Standpoint Magazine, e collabora con la BBC e Sky News. È stata visiting journalist alla Brunel University London e ora fa parte del comitato di www.byline.com

 

Vi aspettiamo!


 

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Lectio magistralis – Julie Bindel

 

Vanda.ePublishing con Morellini editore, in collaborazione con

Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, presenta

 

LECTIO MAGISTRALIS

di Julie Bindel

 

autrice de

IL MITO PRETTY WOMAN

Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione

(VandA ePublishing-Morellini Editore, in libreria da febbraio 2019)

 

mercoledì 6 marzo alle ore 18.30, viale Pasubio 5 a Milano

 

La prima e unica indagine mondiale sulla prostituzione, completa, audace, coraggiosa, che sfata il mito del sex work.

Perché la prostituzione non è lavoro, ma abuso a pagamento

 

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In un momento chiave della lotta contro l’abuso sulle donne, portata a clamore mondiale con il movimento #metoo, particolarmente attuale è la battaglia contro il tentativo di legalizzare lo sfruttamento sessuale chiamandolo “lavoro”.  In Francia farà storia la recentissima decisione del Consiglio Costituzionale che ha sancito la costituzionalità, messa in discussione, della legge emanata nel 2016 che introduceva la criminalizzazione dell’acquisto di sesso. In Italia il tema verrà affrontato il 5 marzo quando la Consulta dovrà pronunciarsi sulla costituzionalità della legge Merlin, fortemente difesa da molte associazioni femministe al grido di  #IosonoLinaMerlin

 

A sostegno di questa battaglia, in un tour italiano di varie tappe, la giornalista inglese Julie Bindel, scrittrice e militante politica di fama mondiale, terrà una lectio magistralis il 6 marzo alle 18.30 in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, nell’ambito delle attività legate al libro e alla lettura BookLab. Fondatrice dell’associazione “Justice for women”,  e autrice del volume  Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzionepubblicato in Italia da VandA.ePublishing con Morellini editore, la prima indagine globale sulla prostituzione, con dati e testimonianze raccolti in 40 paesi, città e stati fra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa.

 

Tradotto da Resistenza femminista, che da anni dà voce alle sopravvissute alla prostituzione lottando contro l’industria del commercio sessuale, il volume raccoglie 250 interviste che Julie Bindel ha realizzato visitando bordelli legali, conoscendo‘papponi’, pornografi e sopravvissute alla prostituzione, incontrando femministe abolizioniste, attivisti pro-sex work, poliziotti, uomini di governo e uomini che “vanno a puttane”, con l’obiettivo di sfatare il falso mito del sex workla prostituzione non è un lavoro ma un abuso a pagamento.

 

Il commercio internazionale del sesso è al centro di uno dei dibattiti più accesi a livello mondiale, non solo fra le femministe e gli attivisti per i diritti umani. Oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, la “puttana felice”, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, l’unico modello legislativo che protegge i diritti umani delle persone prostituite.

 

Una battaglia che ha come maggiore antagonista la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione, costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso, il cui intento è ridurre la prostituzione a un “lavoro come un altro”, occultando la violenza subita dalla donna e trasformando gli sfruttatori in imprenditori, allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il “diritto” dei compratori ad abusare dei corpi delle donne. Basti pensare – sottolinea Bindel nell’introduzione – a come per dare un “aspetto pulito e rispettabile” al commercio sessuale sia cambiato il linguaggio che lo descrive, per cui i papponi sono diventati “manager”, le donne prostitute “sex workers” e lo stupro “un rischio del mestiere”.

 

Le interviste raccolte ne Il mito Pretty Woman rivelano le bugie di una mitologia tesa a truccare gli interessi di un’attività criminale fra le più redditizie a livello globale. Come evidenzia Julie Bindel, il commercio sessuale risulta ormai comunemente accettato, a partire dalla ricorrente affermazione che “la prostituzione è necessaria, inevitabile e innocua. Oggi più che mai è dunque necessario promuovere una campagna contro la normalizzazione dello sfruttamento, della proprietà di bordelli e dell’acquisto di sesso.

 


 

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Julie Bindel @Napoli

– VandA.ePublishing insieme a Morellini editore è lieta di presentare Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione di Julie Bindel

Julie Bindel parteciperà il 4 marzo all’incontro Prostituzione. Quale libertà?, precedendo di poche ore la decisione della Corte Costituzionale sulla costituzionalità della legge Merlin.

 

Il commercio internazionale del sesso è al centro di uno dei dibattiti più accesi a livello mondiale, e non solo fra le femministe e gli attivisti per i diritti umani. Per decenni la sinistra liberale ha oscillato fra il pro-sex work e l’abolizionismo. Ma oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, la “puttana felice”, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, l’unico modello legislativo che protegge i diritti umani delle persone prostituite.

Julie Bindel, giornalista britannica, rinomata per le sue inchieste, si è occupata di fondamentalismo religioso, violenza contro le donne, maternità surrogata, commercio di mogli ordinate su catalogo, tratta di esseri umani e delitti insoluti. Scrive regolarmente per The Guardian, NewStatesman, Truthdig, Standpoint Magazine, e collabora con la BBC e Sky News. È stata visiting journalist alla Brunel University London e ora fa parte del comitato di www.byline.com

 

Vi aspettiamo alla Sala Santa Maria La Nova, Napoli, il 4 marzo!


 

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Novità – Né sesso né lavoro

Proprio in questo ultimi mesi di febbraio/marzo 2019 si sta giocando la costituzionalità della legge abolizionista, messa in discussione. In Francia il primo febbraio il Consiglio Costituzionale si è
pronunciato a favore, sancendone la costituzionalità! Possiamo sperare nello stesso risultato per l’Italia? Il 5 marzo sarà discussa di fronte alla Consulta la costituzionalità della legge Merlin. Ci auguriamo che l’Italia come la Francia si opponga al tentativo di legalizzare lo sfruttamento sessuale chiamandolo “lavoro” e che la legge Merlin non si tocchi!
Né sesso né lavoro. Politiche della prostituzione esce tempestivamente nello stesso giorno della discussione della Consulta in Italia per fornire un contributo indispensabile al dibattito su prostituzione/sex work in Italia. Forti di competenze diverse e specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno. Il sex work non è un lavoro come un altro, e il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro. Il testo descrive la portata culturale della
prostituzione nei rapporti odierni tra i sessi, e le radici antiche dei dibattiti attuali, approfondendo la conoscenza dei modelli di politiche internazionali, con un focus sui paesi in cui i modelli proposti per uscire dall’abolizionismo della legge Merlin sono stati realizzati, passando all’analisi di questa bella e trascurata legge e delle modalità della sua applicazione, per concludere on le proposte presentate da i parlamentari e i partiti che vogliono modificarla o stravolgerla.

Daniela Danna è sociologa all’Università del Salento e si occupa di questioni di genere, analisi dei sistemi-mondo, rapporto società-ambiente, decrescita.
Silvia Niccolai è ordinaria di diritto costituzionale all’Università di Cagliari. È autrice del saggio Femminismo ed esperienza giuridica. A proposito del ritorno di un’antica regula iuris.
Luciana Tavernini ha partecipato all’Associazione Melusine e fin dagli anni Ottanta alla Pedagogia della differenza. Per anni si è occupata con Marina Santini delle iniziative della Libreria delle donne-Circolo della Rosa di Milano.
Grazia Villa è avvocata per i diritti delle persone. Con le donne ha promosso molte cause pilota in materia di riconoscimento di diritti nei luoghi di lavoro, costituzione di parte civile nei processi di stupro e violenza sessuale, denunce relative a molestie e stalking.

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NAPOLI – PROSTITUZIONE. QUALE LIBERTA’? Un incontro con Julie Bindel, autrice de “Il mito di pretty woman”


(Il Paese delle Donne, 23 febbraio 2019)


Lunedì 4 Marzo ore 17 Sala Santa Maria La Nova – Napoli – Ne parliamo con  Julie Bindel, autrice de “Il mito di pretty woman” avvocata e attivista della rete abolizionista eRachel Moran, autrice di “Stupro a pagamento”.

Il Italia, il dibattito sulla legalizzazione dello sfruttamento della prostituzione non si è mai definitivamente chiuso. La locuzione “legalizzazione dello sfruttamento” è tuttavia sempre defilata e sottintesa. In politica si preferisce  “legalizzazione della prostituzione”, il che contiene una falsificazione del contenuto del progetto della “riapertura dei bordelli”, da più parti avanzato. La legge vigente infatti non criminalizza le prostitute, bensì lo sfruttamento e il favoreggiamento. Sarebbero questi infatti ad essere depenalizzati e legalizzati.

I numeri spaventosi dello sfruttamento sessuale in tutte le sue forme, e principalmente le conseguenze sulle condizioni di vita di donne pagate per essere violentate e danneggiate nella salute, se non uccise, sono ormai di pubblico dominio e via via stanno rendendo sempre più improponibile la visione di patinata “del mestiere più antico del mondo”.

Gli interessi che ruotano introno a quei numeri sono cospicui e mascherati da innumerevoli attività di facciata, tutte riconducibili a reti di stampo mafioso: la legalizzazione, oltre che contrastare i trattati internazionali, sarebbe in aperta contraddizione con la lotta al crimine organizzato.

La propaganda è perciò alla ricerca di sempre nuovi espedienti culturali per veicolare la regolamentazione come soluzione definitiva al problema-prostituzione. L’ultimo in ordine di tempo è quello di associare alla prostituzione la parola libertà. Probabilmente chi propone questo binomio intende invadere e mercificare la libertà sessuale che le donne conquistano ogni giorno, da secoli, respingendo la violenza degli uomini.

Le sopravvissute all’inferno dei bordelli legali, le attiviste impegnate nella protezione delle vittime della prostituzione sono le principali testimoni della rete abolizionista che si propone di difendere le donne dalle aggressioni legalizzate dallo scambio in danaro e che chiede di punire i clienti, fautori della domanda di prostituzione, quali maggiori responsabili di una strage silenziosa e quotidiana.

L’evento è il quarto in Italia, nelle tappe della rete abolizionista per la presentazione del nuovo libro di Julie Bindel, e precederà di poche ore la pronuncia attesa della Corte Costituzionale in merito al quesito/istanza presentato dai legali di Tarantini (processo per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione) sulla costituzionalità della legge Merlin. Sulla pronuncia della Consulta la rete abolizionista terrà una conferenza stampa a Roma il giorno 5 marzo dopo la lettura della decisione dei Giudici.

Promosso da Resistenza Femminista, Associazione Salute donna, UDI di Napoli, Iroko onlus, Differenza Donna, Space e dalla dott.ssa Maria Esposito Siotto.

Col contributo attivo della Consigliera della Città Metropolitana dott.ssa Elena Coccia, della Consigliera di Parità della Città Metropolitana Isabella Bonfiglio.

Il dibattitto sarà moderato da Gabriella Ferrari Bravo. Sono previsti l’intervento di Valeria Valente, presidente della Commissione femminicidio del Senato e i saluti del Sindaco di Napoli On. Luigi De Magistris (Napoli 21 febbraio ’19)


 

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“Nonostante il velo”, donne in Arabia Saudita: il reportage


(Corriere del Trentino, 23 febbraio 2019)


– La giornalista Michela Fontana e l’inchiesta sulle differenze e le trasformazioni in atto nei paesi islamici, tra rivendicazioni e integralismi

«Sarà capace il futuro re di cambiare la profonda cultura paternalista fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano (padre, marito, fratello, figlio maschio), che ha ancora sulle donne potere assoluto, rendendole eterne minorenni, e impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione, di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero?». Interrogativi come questo sono al centro di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore con Vansa.ePublishing, 2018) il libro-inchiesta attraverso cui la giornalista Michela Fontana dà voce a diverse donne da lei incontrate nel corso di un soggiorno di due anni a Riad, in Arabia Saudita. Con la sua testimonianza, Fontana permette di conoscere dall’interno il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile. L’autrice dialoga su questi temi con la giornalista Luciana Grillo martedì (26) alle 18 alla Mondadori store di Trento, in via San Pietro 19. L’introduzione del volume conduce nello sfaccettato universo femminile dell’Arabia Saudita, che con l’imposizione del «colore nero» si cerca di spegnere, di uniformare: il nero è quello dell’abaya, un leggero soprabito che copre il corpo fino ai piedi, con il velo abbinato, l’hijab. Una «divisa» che due ragazze saudite, salite sull’aereo in jeans e magliette colorate, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, si preparano a indossare al momento del ritorno nel loro paese. «Erano divenute sagome informi e irriconoscibili, come tutte le altre donne che avrei incrociato per le strade del paese. Nero e ancora nero, un colore a cui avrei dovuto abituarmi e che avrei finito per detestare, fino a decidere di non indossarlo più quando sarei stata libera di scegliere», osserva Fontana. Attraverso le interviste ma anche le esperienze vissute in prima persona, l’autrice analizza più aspetti della società, femminile e maschile, dell’Arabia Saudita. «Parlare con le saudite che ho conosciuto mi ha stimolato a ripensare al ruolo femminile, a indagare come e quanto l’educazione possa plasmare le persone», afferma. ha fatto grande sensazione nel mondo, ad esempio, la notizia che, da giugno 2018 le donne saudite possano finalmente guidare un’auto: «La rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture. Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio loro a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento».


 

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Julie Bindel presenta “Il mito Pretty Woman”

– VandA.ePublishing e Morellini Editore presentano Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione di Julie Bindel.

In un momento chiave della lotta contro l’abuso sulle donne, che ha visto nascere e affermarsi movimenti globali come il #metoo e molti altri, arriva in libreria grazie a VandAePublishing Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzioneil libro-inchiesta di Julie Bindel, giornalista inglese, scrittrice, attivista politica di fama mondiale e fondatrice dell’associazione “Justice for women”, che per prima ha realizzato un’indagine globale sulla prostituzione, raccogliendo dati e testimonianze in 40 paesi, città e stati fra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa.

Tradotto da Resistenza femminista, che da anni dà voce alle sopravvissute alla prostituzione lottando contro l’industria del commercio sessuale, il volume raccoglie 250 interviste che Julie Bindel ha realizzato visitando bordelli legali, conoscendo papponi, pornografi e sopravvissute alla prostituzione, incontrando femministe abolizioniste, attivisti pro-sex work, poliziotti, uomini di governo e uomini che “vanno a puttane”, con l’obiettivo di sfatare il falso mito del sex workla prostituzione non è un lavoro ma un abuso a pagamento.

Julie Bindel presenta in tutta Italia il suo nuovo libro-inchiesta:
– 4 marzo: Convegno presso il comune di Napoli (h 17)
– 5 marzo: Casa delle Letterature di Roma (h 17)
– 6 marzo: Lectio magistralis alla Fondazione Feltrinelli di Milano (h 18.30)
– 7 marzo: Campus Einaudi dell’Università di Torino (h 10)
– 8 marzo: Teatro degli Atti di Rimini (h 15)
– 9 marzo: Libreria delle Donne di Milano (h 18.30)


Il commercio internazionale del sesso è al centro di uno dei dibattiti più accesi a livello mondiale, e non solo fra le femministe e gli attivisti per i diritti umani. Per decenni la sinistra liberale ha oscillato fra il pro-sex work e l’abolizionismo. Ma oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, la “puttana felice”, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, l’unico modello legislativo che protegge i diritti umani delle persone prostituite.

Julie Bindel, giornalista britannica, rinomata per le sue inchieste, si è occupata di fondamentalismo religioso, violenza contro le donne, maternità surrogata, commercio di mogli ordinate su catalogo, tratta di esseri umani e delitti insoluti. Scrive regolarmente per The Guardian, NewStatesman, Truthdig, Standpoint Magazine, e collabora con la BBC e Sky News. È stata visiting journalist alla Brunel University London e ora fa parte del comitato di www.byline.com

 


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“Manifesti femministi” in tour

– VandA.ePublishing e Morellini Editore presentano Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977) a cura di Deborah Ardilli.

Sono state organizzate in tutta Italia delle presentazioni per il nuovo libro curato da Deborah Ardilli. Ecco le presentazioni in programma per il mese di marzo:

2 marzo, CATANIA — Centro Antiviolenza Thamaia
9 marzo, ROMA — Casa Internazionale delle Donne (Fiera dell’editoria delle donne)
21 marzo, NAPOLI — Ex Asilo Filangieri
23 marzo, BOLOGNA — Libreria delle Donne
24 marzo, RIMINI — Bookshop Lento
29 marzo, MILANO — Libreria Antigone
3 aprile, FIRENZE — IAM Sakine
17 maggio, VENEZIA — Cà Foscari
25 maggio, Catania — Libreria Prampolini


Il volume raccoglie testi composti in Italia, in Francia e negli Stati Uniti (alcuni di questi tradotti per la prima volta) dalle più attive rappresentanze del femminismo radicale dalla seconda metà degli anni Sessanta alla seconda metà degli anni Settanta del XX secolo. “Radicale”, a partire dal ‘68 e fino alla fine degli anni Settanta, fu soprattutto il “soggetto imprevisto” del femminismo. Il manifesto politico è il genere che meglio si presta a restituire la complessità di quella straordinaria stagione che segnò la presa di coscienza delle donne, attraverso un drastico ripensamento delle relazioni tra loro e della forza che da questo deriva. Riletto attraverso i suoi manifesti, il femminismo radicale sconvolge la banalizzazione corrente di ciò che è stato per riconsegnarci la testimonianza della sua verità e un’immagine in movimento di ciò che potrebbe essere.

 

Deborah Ardilli ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia Politica presso l’Università di Trieste, è traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi. Attualmente collabora con il “Laboratorio Anni Settanta” dell’Istituto Storico di Modena. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Trilogia SCUM. Scritti di Valerie Solanas, edizione curata insieme a Stefania Arcara e pubblicato da VandAePublishing e Morellini Editore.

 


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Una strada senza ritorno: perché la legge Merlin va difesa


Ilaria Baldini, Chiara Carpita, Colette Esposito [Resistenza Femminista] – (27esima ora, 15 febbraio 2019)


– Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada.

Martedì 5 marzo 2019 la Corte Costituzionale terrà una pubblica udienza sulla questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari in merito alla costituzionalità della legge 20 febbraio 1958 n. 75 – la legge Merlin – laddove considera reato il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione anche nel caso in cui questa sia esercitata volontariamente e consapevolmente. Com’è noto, il giudizio incidentale di costituzionalità è stato sollecitato dalla difesa dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, imputato insieme ad altre tre persone per il reato di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.

La nostra associazione (Resistenza Femminista) insieme a Donne in Quota, Coordinamento Italiano della Lobby Europea delle Donne (Lef Italia), Iroko, Salute Donna, Udi Napoli, Differenza Donna, ha preso parte ad un’azione promossa da Rosanna Oliva di Rete per la Parità, quella di presentare un atto di intervento che l’avvocata Antonella Anselmo ha depositato presso la Corte Costituzionale e illustrerà all’udienza del 5 marzo.

La Legge Merlin, approvata dopo una lunga battaglia, ha rappresentato un enorme passo avanti nella tutela dei diritti umani e per la parità di genere, punendo coloro che lucravano sul sangue e le lacrime di tante donne delle “case chiuse” e liberando queste ultime dalla schiavitù dei registri. Un’eventuale decisione della Consulta in senso favorevole all’incostituzionalità della legge Merlin avrebbe delle ricadute di una gravità inaudita. Vediamo perché.

Il dibattito intellettuale che fa bene alle mafie

È ben noto e sotto gli occhi di tutti come l’Italia sia uno dei Paesi, in Europa, più interessati dalla tratta di essere umani, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale. Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada. Si tratta, come sappiamo da inchieste e ricerche, di mafie straniere che si giovano della connivenza e complicità dei nostri clan che pure hanno la loro parte di guadagni. Distinguere la prostituzione “volontaria” da quella che non lo è è ben arduo e stupisce la semplicità con cui nel dibattito politico se ne parla. Le ragazze vittime di tratta, se interrogate, spergiurano di essere lì per loro libera scelta, così come suggerito dai trafficanti. Ricordiamo a questo proposito le parole di Lydia Cacho, giornalista d’inchiesta messicana e attivista per i diritti umani: «Questo è uno dei presupposti fondamentali nel dibattito mondiale sulla prostituzione: c’è un determinato momento nel quale le donne dai diciotto anni in su scelgono “liberamente” di entrare, rimanere e vivere nell’ambito della prostituzione. Le mafie si alimentano e traggono persino motivo di divertimento dalla rendita che è loro offerta da questa discussione tra intellettuali e attivisti anti-prostituzione. La speculazione filosofica sul significato della libertà, della scelta e dell’istigazione è diventata parte integrante delle argomentazioni usate dalle reti di trafficanti. Ho avuto modo di ascoltare questi discorsi dalle loro stesse bocche».

Libera scelta. Davvero?

In sostanza, illudersi di poter operare questa distinzione tra libera scelta di prostituirsi e costrizione esporrebbe al rischio di favorire la prostituzione di persone forzate rendendo difficile punire gli sfruttatori. È sotto gli occhi di tutti come la regolamentazione della prostituzione in paesi come la Germania e la Nuova Zelanda, che hanno liberalizzato l’industria del sesso (ovvero eliminato il reato di favoreggiamento) con la motivazione di facciata di voler migliorare la condizione delle donne nella prostituzione e tutelare coloro che “scelgono liberamente” questa attività, abbia portato viceversa all’esplosione della tratta e al tempo stesso al suo occultamento (il 90% delle donne nei bordelli tedeschi sono straniere, soprattutto dell’Est Europa) abbia reso non perseguibili i tenutari nei cui bordelli sono state scoperte vittime di tratta, abbia trasformato quegli stessi proprietari di bordelli da papponi a rispettabili e potentissimi “manager”, abbia fatto diventare il paese un supermercato del sesso low-cost e meta di turismo sessuale, con grave arretramento nei rapporti tra i generi e con la normalizzazione della violenza sessuale .
Tutto questo è documentato da numerose ricerche accademiche e inchieste come quella fondamentale di Julie Bindel attivista femminista, giornalista e scrittrice, contenuta nel libro denuncia Il Mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione appena uscito per VandA.ePublishing. Bindel ha condotto 250 interviste in 40 paesi del mondo smascherando la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso il cui intento è proprio quello di ridurre la prostituzione a un “lavoro come un altro” occultando la violenza subita dalle donne allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il “diritto” dei compratori ad abusare dei corpi delle donne

Il denaro non cancella lo stupro

Inoltre, come ci raccontano le sopravvissute al mercato del sesso come Rachel Moran che hanno avuto il coraggio di denunciare l’industria e le violenze legalizzate subite dai clienti, quello della “libera scelta” non è soltanto un argomento pericoloso, ma anche semplicistico e scorretto. Ci sono infatti donne che senza essere vittime di tratta apparentemente hanno “scelto” in condizioni di povertà estrema o necessità oppure hanno alle spalle un passato di abusi infantili subiti che le ha rese vulnerabili e appetibile “merce” di sfruttamento per clienti e/o papponi. Per Moran e altre sopravvissute oggi attiviste, la prostituzione non è né sesso né lavoro, ma violenza sessuale: il denaro non cancella lo stupro ma anzi viene usato dal prostitutore per esercitare il suo potere e occultare l’abuso.

La legge in Francia: colpire la domanda

Il 1° febbraio scorso in Francia il Consiglio costituzionale ha sancito la costituzionalità della legge approvata il 13 aprile 2016 che ha introdotto la criminalizzazione dell’acquisto di sesso, la decriminalizzazione delle persone prostituite e la creazione di programmi di uscita e politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale e tratta. Si tratta di una decisione storica. Nell’appello indirizzato al Consiglio costituzionale #NabrogezPas firmato anche dalla nostra associazione, sopravvissute alla prostituzione e attiviste sottolineano come le prime vittime della prostituzione siano le donne e i minori appartenenti ad etnie e minoranze sociali, persone in situazioni di povertà, vittime di violenza sessuale nell’infanzia, la parte più vulnerabile della società che i clienti prostitutori sfruttano imponendo un atto sessuale grazie al proprio potere economico indifferenti sia all’età (sono moltissime le ragazze minorenni nel mercato del sesso) sia alla condizione socio-economica della persona che comprano.
Lo scopo della legge abolizionista francese è proprio quello di colpire la domanda dal momento che i soldi spesi dai prostitutori vanno ad alimentare la tratta e lo sfruttamento sessuale delle donne (in Francia le statistiche parlano di 80% di vittime di tratta). La prostituzione, ovvero la ripetizione di atti sessuali non desiderati, come dimostrano studi e testimonianze di donne prostituite, ha conseguenze fisiche e psicologiche analoghe alla violenza e alla tortura: sindrome da stress post-traumatico, depressione, suicidio, dissociazione traumatica .

«Libertà d’impresa»

Coloro che in Francia e in Italia hanno sollevato la questione della costituzionalità in nome di un concetto ultraliberista di “libertà di impresa”, equiparando la prostituzione ad un’attività commerciale come un’altra, negano totalmente questa complessità. È evidente, d’altra parte, che la libertà di chiunque di provvedere al proprio sostentamento tramite il percepire pagamenti in cambio di atti sessuali non viene negata e tantomeno punita dalla legge Merlin né da quella francese (né dovrebbe mai esserlo, visto che per le donne nella nostra società questa costituisce spesso l’unica “scelta” rispetto al morire di fame), dunque di cosa esattamente stiamo parlando quando parliamo di presunta incostituzionalità? Stiamo parlando della possibilità di “aiutare” le donne a prostituirsi meglio, a trovare più occasioni di “facile guadagno”, come se le occasioni mancassero, come se il guadagno fosse facile e soprattutto come se gli aiutanti valorosi fossero dei benefattori disinteressati.

Lina e l’articolo 3 della Costituzione

Nella nostra Costituzione l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41). La prostituzione vìola palesemente tutte le caratteristiche del lavoro e dell’impresa così come regolate nei nostri principi costituzionali. Lina Merlin, partigiana e madre costituente, è colei che ha promosso l’inserimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione dell’espressione «senza distinzioni di sesso», il Principio Fondamentale dell’uguaglianza delle cittadine e dei cittadini. Sarebbe proprio questo principio fondamentale ad essere messo in discussione qualora venisse eliminato il reato di favoreggiamento. L’inferiorità delle cittadine italiane in termini di diritti umani sarebbe sancita per legge.

Il Consiglio Costituzionale francese, come ha spiegato l’avvocata Lorraine Questiaux ha riconosciuto che «il principio di dignità è oggettivo e non soggettivo. Rinunciare ai propri diritti fondamentali non è libertà: essi sono inalienabili e universali» . Ci auguriamo una decisione simile anche da parte dei giudici italiani.


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Manifesti femministi


Deborah Ardilli e Federico Zappino (Operaviva Magazine, 14 febbraio 2019)


– Una conversazione sul femminismo radicale

Questa conversazione prende spunto dalla pubblicazione del libro Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi i suoi scritti programmatici (VandA, 2018), a cura di Deborah Ardilli

Federico Zappino: Qualche tempo fa, ma in realtà accade periodicamente, venni sollecitato a replicare alle affermazioni, giudicate omofobiche e transfobiche, di alcune femministe che si definivano «radicali». Affermazioni che, come immagini, vertono attorno a questioni conflittuali come la gestazione per altri, il sex work o il transgenderismo. Ora, al di là del contenuto specifico di queste affermazioni, su cui non mi sembra utile soffermarsi, o almeno non nei termini in cui vengono correntemente formulate (e nemmeno, purtroppo, in quelli che solitamente caratterizzano le risposte di parte opposta), a colpirmi di quell’intervista fu che ben prima di articolare una risposta, mi ritrovai affannosamente a spiegare, o a provarci, che l’appropriazione dell’aggettivo «radicale», da parte di quelle esponenti del femminismo, occultasse in realtà un «differenzialismo», o un «essenzialismo». E non era solo una questione di parole. Era una questione storica, e politica. Com’era accaduto che il femminismo radicale – quello cioè in cui qualunque minoranza di genere e sessuale dovrebbe trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, dal momento che il suo obiettivo consiste nella sovversione del sistema sociale etero-patriarcale – fosse finito per coincidere, nella vulgata, con il femminismo differenzialista, o essenzialista? Al di là del fatto che la presa di distanza dall’essenzialismo, attorno a cui convergono i gender studies accademici, non costituisca di per sé nulla di automaticamente promettente, mi sembra in ogni caso che l’opportuna pubblicazione di Manifesti femministi, a tua cura, consenta di appianare questo equivoco, tanto per iniziare. Mi sembra che questo disagio sia vissuto come tale da quant* ritengono impellente mettersi sulle tracce delle inestimabili risorse che storicamente hanno consentito loro di pensare, oggi, la necessità di «un più ampio movimento politico che miri ad abolire il sistema eterosessuale», come scrisse Louise Turcotte a commento dell’opera di Monique Wittig.

Deborah Ardilli: Quando l’editrice mi ha proposto di curare un’antologia di manifesti della «seconda ondata» femminista, ho pensato che valesse la pena cogliere l’occasione per provare a mettere in discussione una rappresentazione del femminismo radicale che, ancora troppo spesso, rasenta la caricatura. Servirebbe forse un rimando ad altri volumi per raccontare in maniera dettagliata in che modo quella rappresentazione si sia insediata nel senso comune, dando luogo all’equivoco che hai appena richiamato. Qui mi limito a segnalare che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, quando da più parti si annunciava la transizione verso costellazioni post-patriarcali, sono stati versati fiumi di inchiostro per dipingere la «seconda ondata» del femminismo come un blocco omogeneo, compattamente attestato su posizioni «essenzialiste» – il peggior insulto che il gergo accademico possa concepire.

Stando alla vulgata, il femminismo di quegli anni costituirebbe lo stadio primitivo di una ricerca che, con l’avanzare del tempo, sarebbe progredita in direzione di una maggiore complessità teorica e di uno sguardo più scaltrito sulle questioni di genere. In nome della complessità, pareva finalmente possibile scrollarsi di dosso la zavorra ideologica con cui le femministe radicali avevano sovraccaricato pratiche e discorsi. Ora, è chiaro che se si parte dal presupposto che la «seconda ondata» rappresenti uno stadio infantile del femminismo da cui occorre congedarsi senza indugi, molte cose sono destinate a passare inosservate. Non ultimo il fatto che, all’epoca, femminismo radicale e pensiero della differenza sessuale costituivano tendenze distinte e rivali all’interno del movimento di liberazione delle donne. In Francia, per esempio, l’area «differenzialista» raccolta intorno a Psychanalyse et Politiquerifiutava persino di definirsi «femminista» ed era in conflitto aperto con le Féministes révolutionnaires di Christine Delphy e Monique Wittig.

Ripristinare canali di comunicazione con il passato può, allora, essere un primo passo per mettere in questione l’idea che la radicalità del femminismo coincida con la feticizzazione di un dato anatomico, o con la rivendicazione della potenza generativa del materno, o di qualsiasi altra forma di valorizzazione di una specificità sessuata. Capita ancora spesso, per altro, di imbattersi in giudizi portati a demonizzare la scelta separatista con l’argomento che soltanto un rozzo pregiudizio naturalistico potrebbe motivarla. Il mio auspicio è che restituire un minimo di respiro storico ai nostri ragionamenti aiuti non solo a vedere che le cose non stanno così, ma anche a comprendere che la presa di distanza dal feticismo biologico non necessariamente coincide, per il femminismo radicale, con l’obiettivo di prolungare con altri mezzi i dispositivi di inclusione della tolleranza liberale.

Un esempio tratto da Manifesti femministi: quando le Redstockings di Shulamith Firestone scrivono, nel loro manifesto del 1969, che «le donne sono una classe oppressa», che «poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une delle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica», che «il nostro compito principale in questo momento è creare una coscienza di classe femminilecondividendo la nostra esperienza e denunciando pubblicamente il fondamento sessista di tutte le nostre istituzioni», la problematica che si impone, con ogni evidenza, non è quella della valorizzazione della differenza sessuale. C’è indubbiamente una politica femminista del corpo; ma, a giustificarla, non è l’idea che l’anatomia costituisca di per sé un principio di classificazione sociale. Diversamente, non si spiegherebbe il ricorso alla categoria di classe di sesso: non si spiegherebbe, in altre parole, per quale motivo le frange più innovative del femminismo radicale abbiano ritenuto di poter estendere al genere l’analisi materialista. L’implicazione logica della rivolta delle donne è che la loro condizione può essere modificata, che il rapporto sociale che le definisce come la natura, il sesso, la differenza, l’alterità complementare all’uomo, può essere sovvertito. Fino a che punto si sarebbe dovuta spingere la trasformazione per poter effettivamente parlare di estinzione del patriarcato, lo avrebbe chiarito poco più tardi la stessa Firestone nelle pagine di The Dialectic of Sex (1970): «E proprio come lo scopo della rivoluzione socialista non era soltanto l’eliminazione del privilegio economico di classe, ma della distinzione di classe in quanto tale, allo stesso modo lo scopo della rivoluzione femminista deve essere, diversamente dal primo movimento femminista, non soltanto l’eliminazione del privilegio maschile, ma della distinzione sessuale in quanto tale: le differenze genitali tra esseri umani non dovrebbero più avere importanza culturale».

Zappino: Una rappresentazione piuttosto efficace di ciò che potrebbe significare «sovversione dell’eterosessualità».

Ardilli: Senz’altro. Ma permettimi un’ulteriore precisazione, in relazione alla rivolta delle donne e alle sue implicazioni. Se seguiamo le peripezie dell’aggettivo «radicale» a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta ci accorgiamo subito che il mutamento semantico riflette uno spostamento politico, non la convalida di un assunto biologico. Prendiamo il caso statunitense, che mi pare idoneo a illuminare processi di soggettivazione politica che, negli stessi anni, si attivano anche al di qua dell’Atlantico. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per una giovane donna nord-americana essere una radical woman equivaleva a gravitare nell’orbita della Nuova Sinistra, cioè di quella frastagliata area politica, comportamentale e contro-culturale che comprendeva l’attivismo studentesco, il movimento per i diritti civili, la protesta contro la guerra del Vietnam e il riferimento obbligato ai movimenti di liberazione nei paesi del cosiddetto Terzo mondo. Alla fine del decennio, lo stesso aggettivo passa invece a qualificare quella componente – numericamente minoritaria, ma politicamente significativa – del movimento delle donne che, da un lato, mette fine alla militanza di servizio all’interno del movimento misto, mentre dall’altro lato prende le distanze dall’emancipazionismo di organizzazioni femminili di impronta riformista, come la NOW (National Organization for Women) di Betty Friedan. Che cosa comporta questa politicizzazione del privato, se non una vigorosa spinta verso la sua de-naturalizzazione? Che cosa motiva la doppia demarcazione polemica, se non la scoperta di una matrice autonoma di oppressione, che impone di spingere l’analisi politica nei territori del privato, della famiglia, della sessualità, del lavoro domestico?

Zappino: Se c’è qualcosa che accomuna l’odierno movimento femminista, da una parte, e quello gay, lesbico e trans*, dall’altra, sembra essere invece proprio la difficoltà di riconoscere l’esistenza di una matrice di oppressione. Non si capisce da dove venga questa nostra oppressione, e in realtà a volte non è nemmeno chiaro se concordiamo attorno al fatto di essere soggette a una qualche forma di oppressione. Nei casi migliori, riconosciamo l’esistenza di qualcosa che si chiama «capitalismo», o «neoliberismo», qualcosa che sortisce effetti tangibili sulla materialità delle nostre vite. Ma raramente siamo pronte ad accordare a qualcosa che si chiama invece «eterosessualità», o «etero-patriarcato», lo stesso potere di determinare le nostre esistenze, nonché di porsi come discrimine tra gli effetti sortiti differenzialmente, dallo stesso capitalismo, sulle «vite», a seconda del fatto che le vite siano quelle degli uomini o quelle delle donne, quelle degli uomini cis-eterosessuali e quelle dei gay o delle persone trans*. A volte, capita di leggere pagine e pagine di testi che dichiarano di ispirarsi al femminismo, o al queer, ma senza che in essi vi compaia mai, se non timidamente, un riferimento specifico al sistema sociale eterosessuale, o all’eterosessualità come modo di produzione patriarcale delle cosiddette «differenze» di genere.

Senza dubbio, una delle cause di questa distorsione percettiva è costituita proprio dall’affermazione della razionalità liberale, per cui non esiste alcuna matrice di oppressione, né alcun rapporto sociale di forza, ma solo individui che stipulano coscientemente un contratto sociale con altri individui, altrettanto liberi e uguali, in piena autodeterminazione, libertà di scelta, responsabilità (e colpa, di conseguenza, per i propri personali fallimenti). Tutte parole che, a ben vedere, sono ampiamente confluite nel lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq. Al contempo, sappiamo anche che questa non è l’unica causa, dal momento che la difficoltà di mettersi d’accordo a proposito di una matrice di oppressione sembra permeare anche ampi strati del movimento più vicini alla critica marxista.

Ardilli: È una delle cause, appunto, ma non l’unica. Anche perché non sono sicura che il lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq sia totalmente e indistintamente intriso di retorica liberale, o neoliberale. In fondo, sappiamo bene che una vigorosa retorica anti-neoliberale, o anche anti-capitalista, può essere del tutto compatibile con il misconoscimento dell’etero-patriarcato come sistema sociale. Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta, hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa, tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso pertinenza.

Certamente, è innegabile che oggi sia diffusa – molto più di allora – la propensione a prosciugare il discorso sulle determinanti che influenzano le nostre vite: riconoscersi non solo condizionate, ma oppresse, è difficile. E doloroso. Mi sembra che il prestigio che circonda la reinterpretazione dei rapporti sociali in chiave di cooperazione volontaria tra soggettività libere e autodeterminate dipenda, molto più che dalla forza esplicativa di questo modello, dalla sua capacità di rassicurarci: perché perseguire faticosi progetti politici di liberazione, se la nostra autodeterminazione può esprimersi già qui e ora? In queste condizioni, tendono a moltiplicarsi discorsi che mettono l’accento sull’individuo, sulla sua postura volitiva o desiderante, sulla sua agency, sul suo empowerment. Da questo punto di vista, poni chiaramente un problema affine a quello sollevato in un intervento del 1990 di Catharine MacKinnon, emblematicamente intitolato Il liberalismo e la morte del femminismo. In quel discorso, MacKinnon si chiedeva dove fosse finito il movimento femminista che, negli anni Settanta, era stato capace di criticare concetti sacri come quelli di «scelta» e «consenso», che cosa fosse rimasto di quel movimento consapevole del fatto che «quando le condizioni materiali ti precludono il 99% delle opzioni, non ha senso definire il restante 1% – ciò che stai facendo – una scelta». E nonostante negli ultimi anni la questione del rapporto tra femminismo e neoliberalismo sia stata ampiamente dibattuta, sembra che ciò sia avvenuto in termini rovesciati rispetto a quelli proposti da MacKinnon. Mi sembra che il suo approccio colga il problema dell’impatto negativo della razionalità liberale in modo per noi più pertinente di quanto riescano a fare altre prospettive – su tutte, quella di Nancy Fraser – portate invece a rimproverare al movimento femminista degli anni Settanta di avere contribuito all’ascesa del neoliberalismo attraverso la critica del salario familiare. Il testo di Silvia Federici incluso in Manifesti femministi consente invece di comprendere quale fosse la portata reale della critica al salario familiare sviluppata, in particolare, dai gruppi per il salario al/contro il lavoro domestico: critica che mi pare grossolanamente fraintesa se interpretata, in chiave emancipazionista, come una richiesta di maggiore integrazione delle donne ai processi di valorizzazione capitalistica.

Quello che mi preme sottolineare, per tornare alla questione, è che il riferimento all’egemonia della razionalità neoliberale ci aiuta a cogliere solo un aspetto della questione. Come accennavo sopra, nel quadro dell’odierna «terza ondata» femminista non è affatto raro imbattersi in critiche della razionalità neoliberale (e del suo doppiofondo neofondamentalista, come sai bene), anche molto affilate, ma che, tuttavia, tendono a perdere mordente quando si tratta di pronunciarsi sull’etero-patriarcato. Certamente il sostantivo «patriarcato» e l’aggettivo «patriarcale» compaiono ancora nei documenti prodotti dal movimento odierno. Contrariamente alle apparenze, però, questo non significa che il concetto di patriarcato – o, come mi sembra più corretto dire, di etero-patriarcato – conservi il peso determinante che aveva avuto per il femminismo radicale.

Provo a spiegarmi meglio: la maggioranza del movimento femminista attuale è assolutamente disposta a riconoscere che le politiche neo-liberali hanno effetti devastanti sulla vita delle donne e delle minoranze di genere. I problemi sorgono non appena si tratta di rispondere a domande come queste: perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne? Perché sono in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio – incluso quello sessuale – che affluiscono verso le società occidentali da paesi messi in ginocchio dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale? È sulla risposta da dare a interrogativi come questi che si palesano le divergenze tra chi ritiene indispensabile utilizzare il concetto di etero-patriarcato e chi, al contrario, ritiene di poterne fare a meno. L’area del femminismo socialista, per esempio, è propensa a sostenere che 1) questi fenomeni vanno messi sul conto della crisi della riproduzione sociale che investe le società capitalistiche e 2) che il capitale resta il principale agente, oltre che l’unico beneficiario, di tali forme di sfruttamento. Per quale strano motivo proprio le donne vengano assegnate alla «sfera riproduttiva» non viene chiarito dalle teorie che escludono programmaticamente il riferimento a un modo di produzione eteropatriarcale. Veniamo invece sollecitate a interrogare il modo in cui il capitale utilizza a proprio vantaggio la differenza sessuale. Ma come venga prodotta quella «differenza», nel quadro di quale rapporto sociale, resta un mistero. A differenza del femminismo radicale, il femminismo socialista sembra suggerirci che la differenza tra uomini e donne, semplicemente, c’è: è un dato biologico, pre-sociale, una distinzione funzionale necessaria alla riproduzione sessuale che destina la maggior parte delle donne a un’intimità permanente con gli uomini, in vista della rigenerazione della forza-lavoro su base quotidiana e generazionale. Credo si debba tener conto di questa ipoteca differenzialista per comprendere l’insistenza a parlare di lavoro riproduttivo (anche a dispetto del fatto che i servizi prodotti possiedano un valore di scambio, dato che è possibile trasferirli sul mercato) e a tacere il fatto che gli uomini, proletari inclusi, sono beneficiari diretti del lavoro che riescono a estorcere gratuitamente alle donne. Va per altro precisato, a scanso di equivoci, che lo sfruttamento domestico non esaurisce il campo dell’oppressione etero-patriarcale. Senonché, è proprio quando volgiamo lo sguardo verso altri fenomeni macroscopici del dominio etero-patriarcale, come la violenza sessuale, che diventa ancora più problematico chiamare in causa il capitale, o il neoliberalismo. Correlare uno stupro al plusvalore, o a una crisi di sovrapproduzione, mi riesce decisamente più difficile che non associarlo all’esistenza un sistema eterosessuale finalizzato all’appropriazione del lavoro, della sessualità e della coscienza delle donne. E tu potresti fare questo stesso discorso, come già fai, per altre forme di violenza di genere, parlando del pestaggio nei riguardi della persona trans* o del ragazzo gay ammazzato di botte al termine del suo primo giorno di lavoro al centro commerciale. D’altronde: come si spiega la sovra-rappresentazione delle persone trans* tra le fila dei disoccupati? È sufficiente riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza» determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?

Periodicamente mi cadono sotto gli occhi articoli che documentano, con una certa passione dimostrativa, impennate di violenza contro le donne a partire dalla crisi economica del 2007-08. Il messaggio di questi contributi è chiaro: la crisi economica e la relativa precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro induce gli uomini alla violenza. Vorrei fosse altrettanto chiara, però, l’esigenza che abbiamo di conservare il senso delle proporzioni, evitando di trasformare una correlazione statistica in una teoria dell’oppressione. Sospetto, per altro, che anche le femministe socialiste avvertano questa difficoltà. Non è un caso che non si siano completamente estinte le concessioni alla retorica femminista: il ricorso residuale all’aggettivo «patriarcale», o al sostantivo, «patriarcato» potrebbero veicolare un’implicita ammissione dell’insufficienza del quadro analitico marxista. Tuttavia, questo omaggio formale alla terminologia del femminismo radicale raramente si spinge al di là di una definizione che circoscrive il patriarcato alla sfera delle mentalità, degli stereotipi, dei pregiudizi: il sistema sociale di riferimento resta uno solo, il capitalismo. E questo mi sembra un ostacolo serio a indagare le cause delle nostra oppressione.

Zappino: Pensavo che è curioso che ci troviamo a interrogarci attorno a tali questioni nel tempo dell’intersezionalità. O meglio, di una versione rimasticata e distorta dell’intersezionalità – una produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità, mi verrebbe da definirla. È infatti strano, non trovi?, che nell’ora della piena affermazione delle retoriche dell’intersezionalità, o dell’alleanza, femministe e altre minoranze di genere continuino tranquillamente a confliggere, e che non concordino nemmeno attorno al fatto di essere soggette a una comune matrice di oppressione. E spesso è difficile non cedere alla tentazione che dietro alle retoriche dell’intersezionalità si celi solo un inganno, per noi. L’intersezionalità consiste forse nel non focalizzarsi mai nemmeno per sbaglio sulla specificità delle forme di oppressione, nel guardare indistintamente a tutto (ossia, a nulla), affinché le ingiunzioni alla salvaguardia del movimento misto, dietro lo spauracchio del separatismo, possano tranquillamente occultare, e dunque perpetuare, il dominio maschile ed eterosessuale al suo interno? È questo che vogliamo?

Ardilli: La mia impressione è che, nel discorso corrente, la parola «intersezionalità» abbia assunto il valore di una formazione di compromesso. A un primo sguardo, si direbbe che la sua diffusione rifletta un certo grado di consenso intorno alla necessità di abbandonare lo schema che induce a graduare le oppressioni su una scala gerarchica. Nella pratica, vediamo però che le cose funzionano diversamente: il richiamo all’«intersezionalità» opera come un principio di universalizzazione astratta che finisce col ristabilire silenziosamente le gerarchie che, in linea teorica, si volevano eliminare. Mi sembra chiaro, per esempio, che precipitarsi a proclamare manifestazioni antifasciste e antirazziste ogniqualvolta l’autore di una violenza contro le donne è un soggetto razzializzato equivale a dire che, di fronte al rischio (tutt’altro che improbabile) di strumentalizzazioni a destra, la protesta contro la violenza sessuale deve passare in secondo piano. Anziché agire come moltiplicatore e intensificatore dei fronti di lotta, l’intersezionalità rischia di inibirne alcune, o di moderarne le pretese, in nome di un irresistibile richiamo all’unità. Noblesse oblige. Al contrario, per le femministe radicali di cui mi occupo in Manifesti femministi era del tutto ovvio che «le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri». Mi sembra che oggi quell’intuizione si sia come capovolta: mettere tra pudiche parentesi la propria oppressione, combattere le battaglie degli altri, rinunciare all’auto-legittimazione che proviene dall’essere contemporaneamente soggetto e oggetto della proprio liberazione – insomma, quel complesso di attitudini che Monique Wittig e le altre autrici di Per un movimento di liberazione delle donne non esitavano a squalificare come «altruismo cristiano e piccolo-borghese» – oggi sono considerate qualità politiche di prim’ordine.

Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si legge che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali». Ecco, l’immagine del movimento femminista come una cavità aperta in cui si amplificano suoni emessi altrove potrebbe essere una metafora eloquente di quella che tu definisci una «produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità».


Foto © Nhandan Chirco (in collaborazione con Branko Popovic + Igor Lecic), Il Rimmel dell’Europa cola sui baveri / Et l’Europe alors (2014), MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove.

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Nonostante il velo. Il reportage emozionale di Michela Fontana


L’angolo di Key (12 febbraio 2019)


– Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?

Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?
Che storia si cela, qual è il suo pensiero. Sono tutte domande che a me, personalmente, vengono in mente quando mi trovo di fronte ad una donna che indossa questo simbolo. Si tratta dell’ hijab, un velo nero che nasconde i capelli, le orecchie e la testa.
E come vive quella donna, nonostante indossi il velo?
Il libro che leggete nel titolo ce lo svela.
L’intervista e la recensione che vado a presentarvi mi hanno conquistata molto. Perché il libro mi ha conquistata, e sono sicura che piacerà anche a voi. Specialmente se amate libri scritti bene da croniste che con la professionalità e l’etica giornalistica raccontano storie, culture e vite a noi lontane, ma che meritano la nostra attenzione.
Il libro in questione è “Nonostante il velo” di Michela Fontana, edito da VandA ePublishing.

Un libro corposo ma per nulla pesante, come la fattezza potrebbe far pensare.
È a dir poco strepitoso. Scritto divinamente da una brava (lo si capisce dal tipo di scrittura) cronista che con eleganza, intelligenza e rispetto, è entrata in punta di piedi in una società culturalmente ostica alle donne, come quella araba, e ha saputo raccontarla al meglio.
Un approfondimento giornalistico bene accurato, che non tradisce l’umanità della donna-giornalista Michela Fontana.
Si legge benissimo. Pur non conoscendo la sua voce, è come se leggendolo fosse davvero lei, Michela, a raccontare le donne che ha incontrato.

Insieme con l’autrice vorrei approfondire alcuni aspetti, per cui ecco la nostra chiacchierata:

Michela, due anni vissuti a Riad inseme a suo marito che era lì per lavoro. Cosa le è rimasto di quella esperienza una volta rientrata in Europa?
Mi è rimasto un legame ideale con le donne saudite, molte delle quali ho trovato coraggiose, intelligenti e pronte a vivere nel futuro. Mi è anche rimasta una maggiore comprensione di cosa significhi vivere in un paese islamico conservatore e come sia difficile per le saudite emanciparsi  davvero dalle loro tradizioni patriarcali. In effetti noi diamo per scontato che il nostro modello di vita occidentale sia attraente, ma per molte donne che ho intervistato la nostra libertà non è necessariamente considerata un valore positivo. La  realtà della società saudita è molto più complessa e contraddittoria dei luoghi comuni basati su conoscenze superficiali.

Che significato hanno in quelle terre i concetti di intraprendenza e
evoluzione al femminile?
In Arabia Saudita oggi direi che essere intraprendente per una giovane donna significa voler studiare, cercare un lavoro e aspettare a sposarsi per poter finire gli studi. Vuol anche dire resistere alle pressioni famigliari per avere molti figli e cercare di avere una certa indipendenza economica. Naturalmente la società saudita è variegata e ci sono famiglie ancora estremamente conservatrici. Insomma, non tutte le donne saudite vogliono mettersi al volante o fare a meno del loro “guardiano” (padre marito fratello), che ha potere assoluto su di loro. Questo però lentamente cambierà e sempre più donne vorranno “ emanciparsi” senza però andare contro i dettami della loro cultura religiosa.

C’è una storia o una donna che più di altre le è rimasta impressa nel
cuore e nella mente?
Faccio fatica a scegliere, perché molte di loro mi hanno colpito. Ripenso spesso a Wadha, a cui dedico il capitolo In fuga verso la libertà , che è fuggita dal paese per sottrarsi alle violenze che subiva da parte del padre e ora ha trovato asilo politico in Canada, proprio come  ha fatto recentemente la giovane Rahaf Al Muhammed al Qunun di cui hanno parlato tutti i giornali, dopo che si era barricata nell’ aeroporto di Bangkok. A differenza della diciottenne Rahaf, però, Whada ha più di trentanni ,ha pianificato la fuga in due anni, senza clamore o pubblicità, con molta paura, molti rischi e molta sofferenza.

Quanto tempo ha impiegato a scrivere Nonostante il velo? C’è stato
qualcosa che la preoccupava nella stesura del libro?
Ho svolto le mie interviste durante i due anni di soggiorno a Riad e ho impiegato circa un anno a scrivere  il libro. Quello che mi preoccupava era di comunicare al meglio quanto avevo sentito e vissuto durante la mia esperienza, senza tradire il desiderio delle donne saudite di essere comprese e ascoltate. Ho cercato di non fare trapelare il mio punto di vista (anche se immagino si possa percepire tra le righe) o di dare giudizi, ma di fornire il contesto e le informazioni storiche affinché la lettrice/lettore possa giudicare da solo. Ho cercato di fare ciò che penso un giornalista o uno storico dovrebbe idealmente fare.

Ci sono altre culture che vorrebbe esplorare, capire e raccontare in un
altro libro?
Mi interessano soprattutto le culture diverse dalla nostra, perché rappresentano una sfida alla comprensione e ai luoghi comuni. Sono stimolata a scrivere soprattutto quando vivo in un paese per motivi di lavoro. Quando ho vissuto in Cina ho studiato la storia cinese e  ho scritto la biografia  di Matteo Ricci, un gesuita vissuto in Cina tra cinquecento e seicento, il primo mediatore culturale tra Cina ed Europa (Padre Matteo Ricci, nato a Macerata, la mia Regione – ndr). Forse oggi mi piacerebbe conoscere più a fondo il Giappone, un antica civiltà che conserva le tradizioni pur essendo totalmente immerso nella modernità.

Bello davvero. Da giornalista, vorrei saper scrivere e raccontare storie come lei.