Pubblicato il

“Lo scandalo della felicità”, storia della Principessa Valdina di Palermo

Articolo di Margherita Francalanza, originariamente apparso qui.

L’ultimo romanzo di Pina Mandolfo, scrittrice e sceneggiatrice, intellettuale da anni impegnata nella difesa e promozione dei diritti internazionali delle donne e nel riscatto culturale della Sicilia, narra la storia vera e straordinaria di una donna, Anna Valdina, principessa palermitana che, nel 1600 a Palermo, fu monacata a forza quasi bambina.

La protagonista trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. Con implacabile geometria narrativa, Pina Mandolfo racconta la volontà e le ragioni di Anna Valdina, un’autentica e coraggiosa combattente, vissuta in un’epoca in cui il potere patriarcale comprimeva ogni anelito di libertà femminile. La storia di Anna e della sua vita in convento si intreccia con i fatti più rilevanti e con i personaggi della Palermo spagnola, in un racconto affascinante e struggente, carico di tensione.

La Valdina è certamente una donna di cui difficilmente ci si dimentica, la sua sola voce risuona forte da un lontano passato , attraversa i secoli e giunge alla contemporaneità. Provoca nel lettore una naturale complicità partecipativa, di indignazione e insieme desiderio di battersi al suo fianco, camminare scandalosamente .passo dopo passo, verso il diritto alla felicità degno di ogni essere umano.

“Il mio racconto , scrive l’autrice, è carico di tutta la passione verso un personaggio femminile non comune di cui ho voluto narrare la grandezza, descrivendone l’esemplarità di donna assoggettata ma non soggetta.”

Il racconto trae spunto da alcuni documenti d’Archivio ritrovati casualmente da Pina Mandolfo, poche trame elaborate tra ricerca storica, eventi del tempo e molta invenzione narrativa. Ma forse il “ caso “ è la miglior guida nel far emergere dal silenzio storie di donne dimenticate o volutamente occultate dalla Storia ufficiale per ulteriormente mortificarne la grandezza.

Numerosi personaggi ruotano attorno alle continue e singolari azioni di Anna Valdina, irriducibile nella volontà di chiedere un processo per lo scioglimento dei voti monacali. La storia della protagonista e la sua strana vita in convento si intrecciano con i più importanti fatti e personaggi della Palermo spagnola secentesca, le cui tracce, da quel tempo particolare, sono giunte fino a noi in un emozionante “continuum narrativo “.

Tra tanti personaggi, ad esempio, emerge Eleonora di Mora, l’unica donna, taciuta dalla storia, che divenne viceré a Palermo per ventinove giorni e rivoluzionò la città, ma “ taciuta dalla storia ufficiale “ e tutta da esplorare.

“Lo scandalo della felicità, storia della principessa Valdina di Palermo” potrebbe rientrare nella categoria del romanzo storico, le tracce d’archivio, la ricerca degli accadimenti e della società del tempo sembrano ricondurci a tale definizione. Eppure il libro , nella sua originalità , ci appare libero da “recinti” temporali e di genere. L’autrice crea un ponte ben visibile tra passato e presente, trascina il lettore dentro la storia che , trascinato nel tempo e nello spazio di Anna Valdina , è costretto a farsene carico , a portarla con se’ , finalmente alla luce del sole, fuori dalle stanze buie conventuali ,a farla finalmente vivere libera e ri/conosciuta.

La prosa di Pina Mandolfo è agile e insieme ricercata l’ impianto narrativo ritmato e intenso, un romanzo degno della migliore tradizione narrativa italiana e insieme una scoperta dell’immensa ricchezza nascosta della nostra Isola ,metafora del viaggio esistenziale delle donne (e dell’umanità tutta) nell’incessante ricerca della “ felicità” come diritto e dovere , promotrici di “ scandalo” e di scomode vite , pronte ad essere distrutte , per divenire Seme generativo di libertà.

Pubblicato il

Racconti d’esilio: storie femminili dal mondo arabo-ebraico

Articolo di Sofia Tranchina, originariamente apparso qui.

Personaggi solitari, brandelli di ricordi, intuizioni camusiane e, soprattutto, storie di ebrei. Questo il filo conduttore dei cinquantatré racconti brevi raccolti sotto il titolo A Beirut non ci sono più cani, prima pubblicazione di Danielle Sassoon presso VandA Edizioni.

Nata a Milano nel 1965 da famiglia sefardita, Danielle ha conseguito una formazione umanistica, diplomandosi presso il Liceo Classico Parini di Milano, per poi essere ammessa al corso attori della Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, da cui viene espulsa per cattiva condotta. Seguono gli anni dedicati al disegno e alla pittura, una passione coltivata sin da bambina. L’appuntamento senza sconti con la malattia mentale, che si conclama anni dopo come sindrome bipolare, segna un passaggio tra il prima e il dopo.  I ricoveri ospedalieri e la fatica di quei giorni sono all’origine della sua nuova spinta creativa, quando mette vie matite e colori e comincia a scrivere. I suoi brevi racconti si fanno sempre più fitti, prima sulle bacheche dei social network e ora, per la prima volta, raccolti in un libro.

Tutti i racconti, intrisi della proverbiale amarezza della creatività di Danielle, trattano il tema della sconfitta e della perdita, senza alcuna deriva sentimentale né pretesa di riscatto individuale.

Sono soprattutto donne le protagoniste dell’universo creativo di Danielle, il solo soggetto umano che ha sempre ritratto nei suoi quadri, in una sorta di ossessione monotematica. Nei racconti invece, come linfa nuova, ci si presentano per la prima volta anche protagonisti maschili: Giovanni, lo zio Marcel, il professor Pedretti…

«Sono nata e cresciuta in un contesto prevalentemente femminile: le sorelle, le amiche, gli amori … donna sono poi io, un cammino di identificazione faticoso e non scontato, al cui traguardo approdo felice in età avanzata, appena in tempo per incontrare l’altro sesso».

È proprio una casa editrice di stampo femminista che si è fatta carico di lanciare questo primo libro, VandA Edizioni: «devo tutto ad Angela di Luciano e Vicki Satlow, due matte, talmente matte da investire su di me. Comunque, non amo cadere nel cliché del femminismo che dipinge le donne come creature angeliche. Le mie donne sono vere, crude, capaci di compiere il male, né più né meno degli uomini».

«Questo libro nasce sotto l’ala di un miracolo, che mi ha consentito di uscire dalla notte della malattia e di venirla a raccontare. Ma la ragione più profonda è racchiusa nella dedica a Barbara, mia sorella, che da sempre è l’ispiratrice più profonda della mia creatività. Sarebbe corretto dire che il libro è stato scritto a due anime».

È forte anche il tema dell’ebraismo, da cui «non si scappa». Ma è quell’ebraismo contaminato, laico, che si sono portate dietro tante famiglie esiliate: «una rete di superstizioni, modi di fare, modi di dire, trasmessi alle generazioni ‘occidentalizzate’». Un ebraismo con il quale la scrittrice ha sempre avuto un rapporto controverso, tra tentativi di assimilazione e riscoperta delle origini. Per un ebreo «è inevitabile fare ritorno. Io non sapevo che avrei scritto un libro sugli ebrei, ma alla fine devo riconoscere che l’ebraismo è la struttura portante del mio libro».

Anche il titolo parla di ebraismo: «Papà mi raccontava che quando viveva in Libano gli ebrei spesso venivano chiamati cani, e a Beirut non ci sono più cani».

I racconti sono per la maggior parte ispirati a episodi autobiografici – benché senza alcuna pretesa di realismo – giocati in bilico tra la modernità occidentale e la cultura secolare araba. Altri racconti, ambientati negli anni dell’esodo ebraico dai paesi arabi, si svolgono in Libano, Egitto, Siria, in una sorta di omaggio tardivo verso quel che non c’è più. Non mancano ulteriori personaggi claudicanti, presi in prestito dai tempi presenti: la piccola, pura Mirella nelle mani di una nonna avida; il portinaio Mario che abusa della giovane inquilina; Alda, la donna che vuole fare un figlio su commissione perché ha bisogno di soldi…

Pubblicato il

Il demone amante di Robin Morgan di Margherita Giacobino

Riportiamo di seguito l’intervista a Robin Morgan a cura di Margerita Giacobino, comparso originariamente su Erbacce. Illustrazione di Anna Ciammitti

È stato recentemente ripubblicato Il demone amante. Sessualità della violenza, di Robin Morgan (a cura di Maria Nadotti, Vanda Edizioni) apparso per la prima volta nel 1989, e poi con una nuova prefazione nel 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle. In questo testo allo stesso tempo vasto e personalissimo Morgan smaschera la cultura della violenza insita nel pensiero patriarcale a tutti i livelli, dalla religione alla filosofia all’estetica all’immaginario sessuale, e denuncia la mistica del terrorismo anche alla luce del proprio vissuto di ex appartenente a gruppi armati di estrema sinistra e poi di femminista disarmata, riportando anche la sua esperienza con donne dei campi profughi in Medio Oriente.
In questa occasione Margherita Giacobino ha intervistato Robin Morgan sul tema della “normalità” della violenza e del terrore oggi. 
(NdR)

Nel tuo libro inizi mettendo in evidenza il nesso tra terrorismo e mascolinità.
Il terrorista… è l’idolo sessuale per eccellenza di una tradizione culturale maschilista che si estende dai tempi pre-biblici a oggi: è la logica estensione dell’eroe/martire patriarcale. È l’amante del demone e la società ne è (segretamente o apertamente) affascinata.
Cosa è cambiato da quando l’hai scritto?

Troppo poco, temo! Questo tipo di cambiamento profondo richiede molto tempo. Nella maggior parte degli ambiti – lo Stato costituito (di destra o di sinistra) così come le forze insurrezionali (di destra o di sinistra), la religione, la filosofia, l’estetica, nella sfera personale come in quella politica – siamo ancora impregnati di violenza maschile, dell’euforia del terrore, della democratizzazione e della normalizzazione della sofferenza. Guardate l’Ucraina.  È vero che le donne hanno fatto breccia nel potere, e ne hanno perfino in parte cambiato il concetto. Ma le forze schierate contro di noi sono passate al contrattacco (attualmente, si tratta della destra violenta). Vedo la rivolta delle donne in Iran come nettamente diversa, nelle tattiche, nella leadership e nel tono – meno spavalderia, più sostanza – con gli uomini che finora si sono uniti ma non hanno cercato di prendere il sopravvento, il che di per sé è un enorme progresso. In questa rivolta, oltre a rabbia e dolore, risuona anche una nota di vera gioia. Ricordo in particolare un video di una giovane donna che balla e volteggia per strada, facendo roteare la sciarpa sopra la testa e scuotendo i lunghi capelli al sole – e ridendo. Credo che questa possa essere la prima rivoluzione delle donne in epoca contemporanea.

C’è ancora la tendenza a isolare il femminicidio come un crimine radicato nella psiche dell’individuo e/o in un contesto degradato, mentre tu sottolinei la stretta relazione che esiste tra la violenza dell’individuo e la violenza dello Stato, e ci dici che il femminicidio e la violenza domestica sono atti di terrorismo patriarcale.
In che modo il recente femminismo, e in particolare MeToo, ha contribuito alla consapevolezza di questa relazione?

Ha contribuito notevolmente ad aiutare le persone a cogliere il continuum, a capire le connessioni. Per esempio, in quasi tutti i casi di uccisioni di massa tramite sparatorie – non solo negli Stati Uniti, dove il tasso di armi è deplorevolmente alto e dove accadono quasi ogni giorno, ma in tutto il mondo – chi ha sparato ha iniziato accanendosi contro le donne. Non è un’esagerazione. È un dato statistico facilmente reperibile con una ricerca minima, ed è presente nel 99% dei casi, il che ci invita a pensare a cosa significhi veramente. Aumentare la consapevolezza è sempre salutare.

Per controllare la popolazione, bisogna controllare il corpo delle donne. Da lì si passa al controllo della sessualità di tutti: omofobia, mutilazioni genitali femminili, matrimoni combinati, matrimoni infantili, purdah, ecc.
Il tuo libro è per molti versi profetico, vista l’attuale virulenza in varie parti del mondo occidentale degli attacchi anti-aborto, omofobici, ecc.

Sì, purtroppo è profetico. L’ascesa delle destre etremiste in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti con Trump, è stata parte di un contraccolpo violento e tossico contro le donne, contro le loro anche minime conquiste, per non parlare degli uomini di colore, degli omosessuali, dei profughi, degli ebrei, delle persone diversamente abili e così via. Sospettavamo che ciò potesse accadere. Ma non ci fermeremo, anche se certi giorni sembra che quello che chiudi fuori dalla porta entri dalla finestra. Sì, era previsto, eppure sembra ancora irreale come un incubo.

In opposizione al pensiero patriarcale, assolutista e binario, tu invochi le virtù (femminili) dell’ambivalenza: pazienza, compassione, consapevolezza, complessità. 
L’ambivalenza come superamento della violenza istintuale – le donne, che sono più ambivalenti, sanno che non si vince con la forza, mai, quindi cercano di risolvere i problemi in altri modi – non si tratta né di ingenuità né di utopia, ma di senso pratico. 
Abbiamo fin troppo sotto gli occhi le donne della destra populista e le sostenitrici di Trump. Dove vedi invece operare l’ambivalenza salvifica delle donne?

In Iran, per fare un esempio, è l’intelligenza, non l’essenzialismo, che sta emergendo… in modo imperfetto ma chiaro. Il 12 luglio 2022 è stata proclamata la “giornata nazionale dell’hijab e della castità”, istituita dal presidente iraniano Ebrahim Raisi che ha introdotto una serie di regole ancora più draconiane per far rispettare i codici di abbigliamento delle donne.È sempre una questione di controllo, e inizia sempre con il controllo delle donne. È stato annunciato che i funzionari governativi inizieranno a utilizzare tecnologie di riconoscimento facciale sui mezzi di trasporto pubblico per identificare chi trasgredisce. Inoltre, il ministro di gabinetto del “quartier generale iraniano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” ha annunciato che le impiegate del governo saranno licenziate se le loro foto sui social media non risulteranno conformi alle nuove regole. Dal 2015 il governo iraniano ha introdotto gradualmente le carte d’identità biometriche. Un’ampia fetta della popolazione è ora presente in questa banca dati.
Poco dopo il ritorno dall’esilio dell’Ayatollah Khomeini nel 1979, le prime a scendere in piazza furono le donne che protestavano contro l’obbligo dell’hijab. E non dimentichiamo che molte figure cosiddette liberali, che in seguito furono disilluse dal “governo rivoluzionario”, si rifiutarono di criticare l’hijab obbligatorio, osservando sprezzantemente: “Non parliamo di un pezzo di stoffa sulla testa delle donne. Non è questo il problema”. Dissero che il problema era lo scià e l’economia e fecero appello all’unità. Ma come ci ricorda la studiosa Fatemeh Shams, una volta fermate le proteste, le donne hanno dovuto indossare l’hijab. Nessuno dei partiti politici che hanno preso il potere, compresi i riformisti della metà degli anni ’90, ha posto come priorità la lotta o l’abolizione dell’hijab obbligatorio.
Inoltre, il nuovo presidente Raisi ha inasprito il codice di abbigliamento e altre restrizioni: tre donne sono state arrestate per aver ballato in pubblico e condannate a un anno di prigione e 91 frustate, 33 saloni di parrucchieri sono stati chiusi e 1700 persone sono state convocate presso i centri di polizia per questioni legate all’hijab. Raisi, molto più integralista del suo predecessore Rouhani, ha intensificato il programma di islamizzazione della nazione e il movimento delle donne rappresentava una minaccia alla sicurezza nazionale, in quanto rappresentava una violazione delle norme sociali. La “legge sulla popolazione” introdotta nel novembre 2021 limita l’accesso all’aborto e alla contraccezione allo scopo di aumentare la natalità in calo in Iran – parte di un processo politico che mira a riportare le donne a casa. Le confessioni forzate, nel frattempo, sono in aumento.
Shams, che insegna letteratura persiana all’Università della Pennsylvania, osserva che “si può farsi un’ idea di un episodio o movimento rivoluzionario dai suoi slogan. Qui lo slogan principale è Donne, vita, libertà, mentre il movimento rivoluzionario del 1979 proclamava soprattutto Pane, lavoro, libertà, lo slogan centrale del Partito Comunista del Lavoro, ispirato al movimento rivoluzionario in Russia”. (È interessante notare che, a differenza del 1979, questa rivolta è trasversale a diverse classi, un fatto notevole in una società classista come l’Iran. La stessa Mahsa Zhina Amini proveniva da famiglia modesta e da una città curda di confine). Shams prosegue affermando che il fulcro di questo movimento è la rivendicazione della libertà del corpo delle donne, e lo slogan deriva dal movimento di liberazione curda ed è il frutto di decenni di impegno delle donne curde in una delle regioni economicamente più svantaggiate dell’Iran. Come sottolinea Shams,questa rivoluzione è senza leader: le persone nelle strade non aspettano che qualcuno prenda il comando. Sono loro i leader. È un punto di forza che questo movimento non si sia coalizzato dietro un leader o un partito politico, il che ha reso molto difficile per le forze di sicurezza reprimerlo. E ci hanno provato! Hanno effettuato arresti di massa di giornalisti e di potenziali leader. I numeri crescono di giorno in giorno, ma al 5 dicembre sappiamo che almeno 244 persone sono state uccise e 125.000 sono state arrestate, tra cui 29 giornalisti, 20 attivisti e 19 insegnanti, secondo i rapporti del governo.
Tutto questo, oltre alla cronica e grave oppressione della popolazione curda e alla repressione dei giovani, ha finito per sfociare in un’esplosione. Oggi vediamo stazioni di polizia, autopompe e fermate degli autobus in fiamme; gruppi di studenti che occupano più di 110 facoltà e centri educativi, uno sciopero nazionale nelle università; i campus delle università di Teheran, di Tabriz e di Sharif invasi da centinaia di poliziotti anti-sommossa che arrestano o tengono in ostaggio i manifestanti. Ma si tratta soprattutto di violenza contro la proprietà. I video continuano ad arrivare, ma anche i proiettili. Le ragazze adolescenti sono in prima linea: Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh, entrambe sedicenni, sono morte dopo aver partecipato alle proteste.
Nassrin Sotoudeh, l’avvocata per i diritti umani che ha rappresentato molte donne processate o condannate per non aver osservato l’hijab obbligatorio, ha dichiarato di recente: “Questo movimento senza leader è guidato da donne che compiono un unico atto rivoluzionario: non portano armi. La sola cosa che fanno è togliersi qualcosa dalla testa e camminare per le strade dell’Iran. L’immagine di questa rivoluzione è il corpo di queste donne senza veli che camminano per strada senza fare del male a nessuno. E questo non ha precedenti”.

Negli anni Sessanta tu hai fatto parte di gruppi di sinistra coinvolti anche in azioni violente, e in seguito sei stata tra i fondatori di W.I.T.C.H. (Women International Terrorist Conspiracy from Hell), che ha inscenato proteste contro Wall Street, contro Nixon, ecc. In che modo il “terrorismo” delle streghe femministe è profondamente diverso da quello dei gruppi politici maschili?

Be’, per prima cosa, avevamo – e abbiamo ancora – il senso dell’umorismo! Lo humor purtroppo spesso scarseggia a sinistra – e di sicuro non lo si trova a destra! Quindi il nostro tono scanzonato e il nostro teatrino di guerriglia ci hanno aiutato in questo senso, e sono serviti anche a coprire aspetti di altre nostre azioni – come spruzzare colla industriale nelle serrature della Borsa di Wall Street nel bel mezzo della notte, per poi “lanciare un incantesimo” per non far aprire le porte. Che ovviamente non si aprirono. Credo che questo – la nostra cattiveria trionfante, la nostra sfida – sia il motivo per cui W.I.T.C.H persiste come fenomeno popolare ancora oggi; a distanza di 50 anni, le giovani donne vogliono ancora farne parte.  Sembrano sapere che, se la retorica marxista ti annoia fino al coma, il W.I.T.C.H. ti darà respiro! Non è stata Emma Goldman a dire: “Se non posso farla ballando, non è la mia rivoluzione”?

Pubblicato il

“Autostima” di Gloria Steinem, in uscita il 4 ottobre, sull’Espresso.it

Il 26 settembre, sull’Espresso.it, è uscito un’interessante intervista a Gloria Steinem, firmata da Francesca Sironi.  

Potete leggerla qui sotto:

 

 

 

Preordina ora una copia di Autostima. La rivoluzione parte da te di Gloria Steinem in uscita il 4 ottobre!

 

Pubblicato il

“Autostima” di Gloria Steinem, in uscita il 4 ottobre – Il Corriere della Sera

Il 25 settembre, sul Corriere.it, è uscita un’interessante intervista a Gloria Steinem, firmata da Viviana Mazza.  

Potete leggerla qui sotto:

 

 

 

 

 

 

Preordina ora una copia di Autostima. La rivoluzione parte da te di Gloria Steinem in uscita il 4 ottobre!

Pubblicato il

Intervista a Monica Lanfranco – BacktotheG8

Vi segnaliamo una bella intervista a Monica Lanfranco realizzata sul canale YouTube BacktotheG8. Si parla di Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo, di femminismo e del ruolo delle femministe all’interno degli avvenimenti del G8.

Potete vederla cliccando sull’anteprima del video qui sotto:

Pubblicato il

Intervista a Monica Lanfranco su Radio Popolare

Potete ascoltare di seguito l’intervista a Monica Lanfranco su Radio PopolareSui Generis, risalente a ieri, lunedì 7 giugno. Si è discusso del suo nuovo libro Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo, un racconto personale e politico sul femminismo al G8 di Genova.

Intervista di Monica Lanfranco su Radio Popolare (07/06/2021)

Pubblicato il

Presentazione del libro “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre” di Katia M. – La nostra recensione

Venerdì 27 novembre si è tenuta la presentazione online del libro di Katia M. Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre, in collaborazione con Aied Albenga.

Da vedere (per chi non c’era), in un coro di voci intorno a Katia, un gruppo di donne ripercorre la storia, la lotta, la guarigione e il contesto sociale di una storia di terribile violenza. La calma, la lucidità e la competenza con cui affrontano i difficili temi nella presentazione offrono un piano di forza femminile che può essere di aiuto a donne e uomini a capire i contesti di violenza.

Del libro, edito da Vanda Edizioni, discutono con l’autrice Gianna Schelotto, psicoterapeuta, Caterina Rossi di Aied Albenga e Monica Lanfranco, giornalista e formatrice.

«Ai bambini e alle bambine si dice che l’Uomo Nero non esiste. Esiste eccome! Solo che, anziché trovartelo nell’armadio o sotto il letto, a volte, purtroppo, te lo ritrovi dentro il letto».

E se l’Uomo Nero ha i connotati del padre? E se la bambina ha solo quattro anni, e poi cinque, e poi otto… chi la difende dall’Uomo Nero? Dove sono gli altri? Dov’è la famiglia? Perché Katia una famiglia ce l’ha; ha una madre, due nonni con i quali cresce, persino una bisnonna. Eppure nessuno vede, nessuno si accorge. Quattordici anni di abusi, di stupri subiti tra quelle pareti che dovrebbero tenere al riparo un bambino dalla malvagità e dalle insidie del mondo esterno.

“Perché le altre bambine sono felici?”, si domanda Katia nella normalità perversa del suo quotidiano. Nessuno sta dalla sua parte quando, finalmente, a diciotto anni, trova il coraggio di dire basta. È la rabbia che la fa reagire per chiudere con quel “padre”, sfidando una società pronta a darle della puttana bugiarda, ma soprattutto per non morire. Oggi, con la consapevolezza di madre e forte di una causa vinta contro il padre, l’autrice ha trovato anche la forza di raccontare la sua storia.

Potete recuperare la visione dell’evento andando sul nostro sito o sul nostro Canale YouTube.

Pubblicato il

Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre – Intervista a Katia sul settimanale F

Sul numero di oggi, 11 Novembre 2020, della rivista F è uscita un’intervista a Katia M., autrice del libro “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre“, in cui racconta la sua sconvolgente storia di abusi domestici. L’intervista è a cura di Marzia Pomponio.

Ve la inseriamo qui.

Pubblicato il

Intervista a Katia M. – Satisfiction

Su Satisfiction.eu è uscita una bella intervista a Katia M., autrice di “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre“, a cura di Silvia Castellani.

Ve ne riportiamo l’introduzione.

Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre (VandA edizioni)di Katia M. racconta una storia vera di violenze perpetrate da un padre sulla figlia per quattordici lunghi anni, ma soprattutto racconta del riscatto di una donna che è riuscita con incredibile coraggio a rompere il muro di silenzio che ha circondato la sua infanzia negata. Gli abusi sessuali sono iniziati quando Katia aveva quattro anni e proseguiti in un crescendo di perversione fino a quando, raggiunta l’adolescenza, è venuto a galla in seguito alla denuncia della stessa vittima, tutto lo squallore di una vicenda assurda accaduta in un piccolo paese ligure come assurde soltanto possono essere tutte le storie che riguardano la violenza sui minori. Moltissime delle quali rimangono purtroppo sommerse. Si tratta di storie scioccanti che troppo spesso non trovano voce. Questa di Katia dopo essere finita al centro di una vicenda giudiziaria complessa che ha portato alla condanna del padre-bruto, è una di quelle che fortunatamente grazie all’eroismo della persona offesa si è potuta conoscere e costituisce oggi un esempio di come se ne possa uscire, portando un messaggio di speranza alle vittime che per paura o vergogna non hanno trovato ancora la forza di raccontare.

Katia, che ha deciso di pubblicare il suo libro tacendo il proprio cognome per tutelare la figlia, non risparmia nessun particolare della vicenda che l’ha vista protagonista ma ce ne parla con una dignità rara e vitale che trasforma il male in bene con parole necessarie: Usare il male che mi è stato fatto per diventare una persona migliore anziché consumarmi nell’odio o nell’autodistruzione è stata la mia regola, la mia filosofia. Se dal male nasce altro male non si arriva da nessuna parte; ma se dal male nasce anche solo una briciola di bene questo sarà duro come l’acciaio, perché temprato dalle difficoltà e dalla sofferenza, e bisogna usarlo per generare altro bene.

Storie come quelle di Katia si verificano sempre e ovunque, e sarebbe bello pensare ci possa essere anche sempre qualcuno che si accorga che “c’è qualcosa che non va”, qualcuno in grado di vedere un po’ più in là e possa così denunciare, rompendo il circolo vizioso che vede le vittime isolate da tutto e tutti. Servirebbe forse una coscienza collettiva più sviluppata, una responsabilità ancora maggiore e solida e la voglia di urlare, non solo da parte della vittima. Ciò che fa più paura di queste storie, come si apprende dal libro edito da VandA edizioni, è il silenzio che le circonda, come una cortina di nebbia attraverso cui è difficilissimo vedere. Vicki Satlow, agente letterario ed editore, con la sua casa editrice ha avuto a sua volta il coraggio di dare voce a questo memoir perché è necessario che queste storie trovino posto nel mondo editoriale potendo essere lette da chi può trovare in esse un motivo in più di forza per reagire. Chi è vittima di violenza deve combattere molti mostri prima di arrivare ad ottenere giustizia sconfiggendo il proprio carnefice: la confusione, la vergogna e il senso di colpa che porta a mentire a se stessi, ma soprattutto la solitudine. Come se non bastasse deve fare i conti – se trova il coraggio di denunciare e venire allo scoperto – con la reazione di certa “gente” che per ignoranza non è in grado di capire che la vittima è soltanto tale e la vergogna deve appartenere esclusivamente agli aguzzini. 

Il paese si divise a metà, chi diceva che non dovevo parlare, che avevo svergognato la mia famiglia inutilmente, che visto che ormai aveva smesso potevo stare zitta; chi invece mi difendeva e diceva che avevo fatto bene a reagire e a denunciarlo. Chi vive in paesi piuttosto piccoli può immaginare quanto si parlò della vicenda. Io non volevo nemmeno uscire di casa, mi stavo chiudendo a riccio, nel mio dolore e col fastidio che chiunque incontrassi ormai sapeva di me.

Non si può mai tacere la violenza se si vuole ricominciare, come ha fatto Katia, a vivere per davvero e il coraggio di denunciare con tutto quello che di molto arduo può conseguire – quel coraggio che sempre troppe poche vittime riescono a trovare – è una lezione importante che tutti abbiamo il dovere di imparare.”

Per leggere l’intera intervista clicca qui.

Pubblicato il

“A proposito di Elena” – intervista a Giusi Norcia su letture.org

Su letture.org è uscita una bella intervista a Giusi Norcia per la pubblicazione del suo nuovo libro “A proposito di Elena“.

Eccone uno stralcio:

Dott.ssa Giuseppina Norcia, Lei è autrice del libro A proposito di Elena edito da VandA: cosa sappiamo di Elena di Sparta?
Il Mito greco è per me, da sempre, fonte di ispirazione e materia viva, da narrare e plasmare, per la sua capacità di essere mappa dell’anima e nel contempo – come diceva Kerényi – un tessuto senza orli, che non ha mai fine. I grandi personaggi del mito – pensiamo a Odisseo e Penelope, Agamennone ed Ettore, Achille, Elena… – popolano la nostra immaginazione attraverso i racconti dell’infanzia, le letture scolastiche, la cinematografia, oltre che, naturalmente, le letture personali o gli studi specialistici. Il loro essere patrimonio comune e condiviso nasconde tuttavia un’insidia, alimenta l’illusione di conoscerli, schiacciandoli così nel cliché che li semplifica: l’astuzia e la fedele attesa, il potere e la lealtà, la forza, la bellezza… Credo che accostarsi a loro per narrarne ancora la storia richieda uno sguardo rinnovato, la capacità di ascoltarli come se fosse la prima volta: allora, se poniamo altre domande, il Mito risponderà diversamente rigenerandosi con noi. Cosa sappiamo di Elena? – è stata proprio la prima domanda che mi sono posta, a proposito della regina di Sparta. Sul suo conto si dicono molte cose, storie che si intrecciano e a tratti si contraddicono. Sappiamo che è figlia di Tindaro e Leda, sovrani di Sparta, ma che in realtà è di stirpe divina, generata da Zeus che si unisce in forma di cigno alla bellissima madre. Secondo un’altra versione della storia, Elena sarebbe figlia di Nemesi, divinità legata all’equilibrio del mondo e alla giustizia redistributrice. Così, lungo il sentiero del mito, necessità e bellezza si congiungono. Lei è la sposa di Menelao e l’amata di Paride con cui fugge a Troia, eppure altrove narrarono di una nuvola d’aria, di un eidolon mandato nella rocca di Ilio a seminare morte e inganni, mentre la vera Elena sarebbe stata condotta in Egitto. Due uomini, due città, due Elene complicano la storia specchiandosi gli uni nelle altre. Così, il pensiero dominante in principio era che di Elena non si sapesse niente. Il grande paradosso di Elena, la bella per antonomasia, è che il suo aspetto non sia mai descritto: «Non sappiamo se i suoi capelli siano lisci come la seta o indomabili e crespi, del colore del grano o scuri come la notte. Ditemi, ha qualcosa che la rende unica, qualche amabile imperfezione? Un neo sul labbro, una lieve fessura tra i denti? Come cammina Elena? Ama muovere le mani al ritmo delle sue parole? Nessuno lo sa. Di Elena non si sa niente» “

Per leggere l’intera intervista clicca qui.

Pubblicato il

Radio inBlu – Intervista ad Agnese Bizzarri

Questa settimana su radio inBlu si lascia spazio ai bambini, in una bella intervista Agnese Bizzarri presenta la favola sul Coronavirus “Il tempo dei colori” che ha ispirato il contest ricondiviso anche dall’ONU.

Per ascoltare l’intervista completa cliccate qui.

Pubblicato il

Il mito di Pretty Woman: l’inganno liberista della prostituta felice


di Antonella Mariani (Avvenire, 16 aprile 2019)


– «È sempre sfruttamento e abuso, anche quando è legale. Un’abile mistificazione alle spalle delle donne più fragili». Parla la giornalista Julie Bindel, autrice di una inchiesta internazionale

Ha visitato i bordelli legali in Australia, Germania, Nevada, Olanda; ha intervistato in tutto il mondo decine di sopravvissute alla prostituzione, proprietari di case di appuntamenti e di agenzie di escort, uomini di governo e compratori di sesso, attivisti per la legalizzazione del «lavoro sessuale» e femministe che al contrario lottano per la sua abolizione. La giornalista britannica Julie Bindel ha compiuto la più vasta ricerca mondiale mai effettuata sulla prostituzione, indagando sui meccanismi che regolano il business e sulle condizione delle donne che vi sono coinvolte. I risultati dell’indagine che le è costata due anni di lavoro e decine di viaggi in tutti i continenti sono condensati in Il mito Pretty Woman (VandA-Morellini, pagine 318, euro 17,90). Un titolo curioso, che già rivela le conclusioni dell’autrice: la lobby dell’industria del sesso anno dopo anno ha «spacciato» l’immagine falsa della «prostituta felice» – a cui peraltro ha dato una grande mano il celebre film interpretato dal Julia Roberts e Richard Gere –, celando la pura e semplice verità per ragioni di bottega: la prostituzione è sempre abuso e sopraffazione, mai libera scelta, e chi afferma – parte del femminismo compreso – che il «sex work» è un lavoro come gli altri e come tale va garantito, commette una crudele mistificazione alle spalle delle donne più fragili e marginali.

Julie Bindel, perché oggi si parla tanto di ‘sex workers’ come se si trattasse di normalissimi lavoratori e lavoratrici?

Grazie all’appoggio di enti come Human Rights Watch, Organizzazione mondiale della salute, Unaids e Amnesty International, il movimento per i diritti dei ‘sex workers’ può presentarsi al mondo come fondato sulla liberazione di un gruppo oppresso. Uno degli argomenti più ridicoli usati da questi cosiddetti gruppi per i diritti umani, è che grazie alla depenalizzazione della prostituzione diminuirà la violenza della polizia e degli sfruttatori contro le donne prostituite. Un altro argomento è che i nuovi casi di Hiv si ridurranno in modo significativo perché i protettori avranno l’obbligo di far usare i preservativi. Ma come ho visto visitando i bordelli legali in Nevada, Germania, Olanda e Australia, è impossibile applicare una ‘regola del preservativo’. In Nevada, ad esempio, alle donne è richiesto di sottoporsi ogni settimana a esami del sangue per assicurare ai protettori che sono sane, dato che molti uomini vogliono acquistare sesso senza protezione. La verità è che il neoliberismo ha innalzato il libero mercato del sesso al di sopra dei diritti umani, in particolare di quelli femminili. Un approccio corretto dovrebbe invece tutelare i diritti delle donne e degli uomini vittime del commercio sessuale. Questo è ciò che accade in Paesi come la Svezia, la Francia e la Repubblica d’Irlanda, che hanno adottato il modello abolizionista, in cui vengono criminalizzati coloro che creano la domanda, cioè i clienti.

Perché l’approccio abolizionista ha molto meno seguito rispetto a quello che reclama la libertà di prostituirsi?

Perché esiste la convinzione che ci saranno sempre uomini che pagano per il sesso e donne che lo vendono. La prostituzione, insomma, appare ‘necessaria’ e in qualche modo un ‘diritto’ del consumatore. I liberali sostengono inoltre che la depenalizzazione di tutte le modalità della prostituzione, compresi i bordelli, renda più sicure le donne e più facile sradicare gli abusi e lo sfruttamento. In quest’ottica i ‘sex workers’ possono essere protetti dai sindacati e da provvedimenti di sicurezza e sanità. Negli ultimi anni, questi argomenti purtroppo si sono fatti strada. Nel 2000 l’Olanda ha formalizzato ciò che era già culturalmente accettato, revocando il divieto ai bordelli e liberalizzando il commercio sessuale. Tre anni dopo, il governo neozelandese ha approvato, con un solo voto, la legge che ha completamente depenalizzato la prostituzione di strada e le case chiuse.

Cosa sostengono invece gli abolizionisti, categoria alla quale lei appartiene?

Gli abolizionisti respingono la descrizione provocatoria di ‘sex work’ e riconoscono che la prostituzione è violenza in un mondo neoliberale in cui la carne umana è diventata una merce, e sfruttamento unilaterale che affonda le radici nel potere maschile. Ritengono che la strada giusta sia aiutare le donne a uscire dal commercio sessuale e criminalizzare la domanda.

Anche il femminismo è diviso sulla posizione da tenere. Perché?

Il problema è che il termine ‘lavoratore del sesso’, coniato negli anni ’80 e oggi sempre più utilizzato dalla polizia, dagli operatori sanitari e dai media, comprende chiunque: pornografi, spogliarellisti e magnaccia, così come coloro che vendono sesso. Negli ultimi dieci anni o più, la discussione sulla prostituzione è stata dominata dai criminali e dagli sfruttatori che gestiscono il commercio sessuale, mascherati da benevoli imprenditori e protettori. Le femministe liberali di tutto il mondo sono state ingannate da una lobby industriale potente e ben finanziata, che impone la sua narrazione, occulta la violenza subita dalle donne e riduce la prostituzione a un lavoro come un altro allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso.

Come si possono contrastare, dunque, le lobby del sesso a pagamento e ridare voce alle vittime?

Fortunatamente un numero crescente di Paesi sta considerando il modello abolizionista. Le organizzazioni femministe guidate da sopravvissute al commercio sessuale, come Space International, affermano la verità dei fatti, al contrario degli sfruttatori e dei propagandisti: la prostituzione è violazione dei diritti umani. L’ascesa del movimento abolizionista farà sì che siano ascoltati e creduti coloro che hanno fatto parte del commercio sessuale e ne sono usciti, piuttosto che coloro che traggono profitto o comunque beneficiano della vendita di carne femminile.

Nel suo libro l’universo maschile rimane sottotraccia. Non pensa che a un certo punto diventerà indispensabile cercare l’alleanza con gli uomini per combattere la prostituzione?

Sì, gli uomini devono esprimersi contro il commercio sessuale e riconoscere che è una causa e una conseguenza dell’oppressione delle donne.


Pubblicato il

Nonostante il velo. Il reportage emozionale di Michela Fontana


L’angolo di Key (12 febbraio 2019)


– Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?

Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?
Che storia si cela, qual è il suo pensiero. Sono tutte domande che a me, personalmente, vengono in mente quando mi trovo di fronte ad una donna che indossa questo simbolo. Si tratta dell’ hijab, un velo nero che nasconde i capelli, le orecchie e la testa.
E come vive quella donna, nonostante indossi il velo?
Il libro che leggete nel titolo ce lo svela.
L’intervista e la recensione che vado a presentarvi mi hanno conquistata molto. Perché il libro mi ha conquistata, e sono sicura che piacerà anche a voi. Specialmente se amate libri scritti bene da croniste che con la professionalità e l’etica giornalistica raccontano storie, culture e vite a noi lontane, ma che meritano la nostra attenzione.
Il libro in questione è “Nonostante il velo” di Michela Fontana, edito da VandA ePublishing.

Un libro corposo ma per nulla pesante, come la fattezza potrebbe far pensare.
È a dir poco strepitoso. Scritto divinamente da una brava (lo si capisce dal tipo di scrittura) cronista che con eleganza, intelligenza e rispetto, è entrata in punta di piedi in una società culturalmente ostica alle donne, come quella araba, e ha saputo raccontarla al meglio.
Un approfondimento giornalistico bene accurato, che non tradisce l’umanità della donna-giornalista Michela Fontana.
Si legge benissimo. Pur non conoscendo la sua voce, è come se leggendolo fosse davvero lei, Michela, a raccontare le donne che ha incontrato.

Insieme con l’autrice vorrei approfondire alcuni aspetti, per cui ecco la nostra chiacchierata:

Michela, due anni vissuti a Riad inseme a suo marito che era lì per lavoro. Cosa le è rimasto di quella esperienza una volta rientrata in Europa?
Mi è rimasto un legame ideale con le donne saudite, molte delle quali ho trovato coraggiose, intelligenti e pronte a vivere nel futuro. Mi è anche rimasta una maggiore comprensione di cosa significhi vivere in un paese islamico conservatore e come sia difficile per le saudite emanciparsi  davvero dalle loro tradizioni patriarcali. In effetti noi diamo per scontato che il nostro modello di vita occidentale sia attraente, ma per molte donne che ho intervistato la nostra libertà non è necessariamente considerata un valore positivo. La  realtà della società saudita è molto più complessa e contraddittoria dei luoghi comuni basati su conoscenze superficiali.

Che significato hanno in quelle terre i concetti di intraprendenza e
evoluzione al femminile?
In Arabia Saudita oggi direi che essere intraprendente per una giovane donna significa voler studiare, cercare un lavoro e aspettare a sposarsi per poter finire gli studi. Vuol anche dire resistere alle pressioni famigliari per avere molti figli e cercare di avere una certa indipendenza economica. Naturalmente la società saudita è variegata e ci sono famiglie ancora estremamente conservatrici. Insomma, non tutte le donne saudite vogliono mettersi al volante o fare a meno del loro “guardiano” (padre marito fratello), che ha potere assoluto su di loro. Questo però lentamente cambierà e sempre più donne vorranno “ emanciparsi” senza però andare contro i dettami della loro cultura religiosa.

C’è una storia o una donna che più di altre le è rimasta impressa nel
cuore e nella mente?
Faccio fatica a scegliere, perché molte di loro mi hanno colpito. Ripenso spesso a Wadha, a cui dedico il capitolo In fuga verso la libertà , che è fuggita dal paese per sottrarsi alle violenze che subiva da parte del padre e ora ha trovato asilo politico in Canada, proprio come  ha fatto recentemente la giovane Rahaf Al Muhammed al Qunun di cui hanno parlato tutti i giornali, dopo che si era barricata nell’ aeroporto di Bangkok. A differenza della diciottenne Rahaf, però, Whada ha più di trentanni ,ha pianificato la fuga in due anni, senza clamore o pubblicità, con molta paura, molti rischi e molta sofferenza.

Quanto tempo ha impiegato a scrivere Nonostante il velo? C’è stato
qualcosa che la preoccupava nella stesura del libro?
Ho svolto le mie interviste durante i due anni di soggiorno a Riad e ho impiegato circa un anno a scrivere  il libro. Quello che mi preoccupava era di comunicare al meglio quanto avevo sentito e vissuto durante la mia esperienza, senza tradire il desiderio delle donne saudite di essere comprese e ascoltate. Ho cercato di non fare trapelare il mio punto di vista (anche se immagino si possa percepire tra le righe) o di dare giudizi, ma di fornire il contesto e le informazioni storiche affinché la lettrice/lettore possa giudicare da solo. Ho cercato di fare ciò che penso un giornalista o uno storico dovrebbe idealmente fare.

Ci sono altre culture che vorrebbe esplorare, capire e raccontare in un
altro libro?
Mi interessano soprattutto le culture diverse dalla nostra, perché rappresentano una sfida alla comprensione e ai luoghi comuni. Sono stimolata a scrivere soprattutto quando vivo in un paese per motivi di lavoro. Quando ho vissuto in Cina ho studiato la storia cinese e  ho scritto la biografia  di Matteo Ricci, un gesuita vissuto in Cina tra cinquecento e seicento, il primo mediatore culturale tra Cina ed Europa (Padre Matteo Ricci, nato a Macerata, la mia Regione – ndr). Forse oggi mi piacerebbe conoscere più a fondo il Giappone, un antica civiltà che conserva le tradizioni pur essendo totalmente immerso nella modernità.

Bello davvero. Da giornalista, vorrei saper scrivere e raccontare storie come lei.


 

Pubblicato il

di Alessandra Bocci (La Gazzetta dello Sport, 16 gennaio 2019)


– «Giusto portare la Supercoppa qui? Non bisogna essere ipocriti, con questi paesi si fanno affari in continuazione».

La testimonianza

«Il Principe lo ha capito, ha dato il via ai cambiamenti»

La giornalista e saggista: «Ora qualcosa si muove per le donne. E lo sport nelle scuole è importante: combatte obesità e diabete»

Se vuoi finire, comincia. Difficilmente l’Arabia arriverà ad avere una società aperta, perché ha una cultura e una storia profondamente diversa da quella dei paesi occidentali, però le concessioni di Mohammed bin Salman sono un inizio e hanno permesso di accelerare un processo che probabilmente era in atto in parte della società. Michela Fontana, matematica, giornalista, saggista, ha scritto fra l’altro «Nonostante il velo», che raccoglie tante voci e contraddizioni, come racconta, che ha vissuto un po’ ovunque, a Riad dal 2010 al 2012.

«È quando ci sono tornata un anno dopo si respirava già un po’ il clima delle riforme. Bisogna sempre mettere le cose in un contesto: queste sono riforme concesse dall’alto, chi si mette a protestare può finire in carcere o andarsene, come Rahaf, scappata chiedendo aiuto su Twitter e ha avuto asilo politico in Canada. Queste riforme non danno libertà di espressione, ma concedono alle saudite la libertà di fare cose che prima non potevano immaginare».

Com’era abitare in Arabia Saudita qualche anno fa?
«Anche le donne straniere dovevano coprirsi e non potevano guidare, per esempio. Una volta ti portavano la “abaya” da indossare direttamente all’aeroporto. Ora la patente è un vantaggio per le ragazze alle quali è stato concesso di lavorare. È vero che se una fa la commessa difficilmente ha i soldi per l’auto, ma non bisogna negare che ci siano stati dei passi avanti».

Dicono che Gedda sia più aperta di Riad.
«Storicamente è così. Era una città di pellegrini, c’era più mescolanza di culture. I Saud l’hanno inglobata nel loro regno negli anni Trenta, Gedda rispetto a Riad ha radici diverse. A Gedda vedevi le ragazze con le amiche nei bar, alcuni bar, già prima delle riforme. È innegabile che qualcosa si stia muovendo, anche perché questa nuova classe dirigente ha capito che una nazione non può restare legata a un modello medievale. L’Arabia Saudita è tornata indietro per vari fattori negli anni Ottanta, quando la chiusura è stata assoluta. Ma la società bene o male va avanti e ho l’impressione che questo principe ereditario un po’ capisca che deve riformare, un po’ rincorra i cambiamenti.  I sauditi, anche la famiglie molto conservatrici, sono fieri di mandare la figli a studiare all’estero, eppure restano conservatori. Lo sono anche le donne, che spesso sono le prime a non condividere i nostri modelli occidentali. Sono abituate a essere protette, tenute in casa per fare figli. Ora molte vogliono studiare e lavorare, si sposano tardi, fanno meno figli. Queste riforme le lasciano in una condizione di segregazione, ma stanno cambiando la qualità della loro vita e lo sport ha funzione importante: non solo poter andare allo stadio da sole, ma anche praticare sport liberamente. L’introduzione dello sport nelle scuole è stato importante per combattere problemi come obesità e diabete».

Come fanno quelle che studiano all’estero a calarsi nella loro realtà quando tornano a casa?
«Anche molte saudite sono conservatrici. Anche qualche anno fa era permesso loro di andare all’estero a studiare con delle borse di studio istituite dal sovrano precedente, ma con un fratello, un parente, un guardiano: non vivevano veramente all’occidentale. Ecco, quando Mohammed bin Salman avrà il coraggio di affrontare il problema del guardiano avverrà la vera rivoluzione, ma è complicato».

Ha fatto bene la Lega calcio a portare la partita a Gadda?
«Non bisogna essere ipocriti. Con questi paesi illiberali si fanno affari in continuazione, penso alla Cina o alle commesse delle imprese italiane per la metropolitana di Riad. L’Arabia è particolarmente arretrata sul piano delle libertà civili, ma è difficile isolare un paese. E nessuno ha mai veramente isolato l’Arabia Saudita».

Pubblicato il

4 domande a…


di Valerio Piccioni (La Gazzetta dello Sport, 5 gennaio 2019)


– «Nuove aperture ma ogni donna ha un guardiano»

4 domande a… Michela Fontana, scrittrice e giornalista

«Nuove aperture ma ogni donna ha un guardiano»

Michela Fontana, scrittrice e giornalista, ha trascorso due anni e mezzo in Arabia Saudita collezionando testimonianze raccolte nel libro Nonostante il velo pubblicato da Morellini e VandAePublishing.

Come vive una donna in Arabia Saudita?

«In un modo per noi inconcepibile. Dall’abbigliamento, con l’obbligo di coprire tutto il corpo, alla segregazione di genere che proibisce alle donne di mescolarsi agli uomini nei luoghi pubblici, consentendo loro di rimanere soltanto nei “settori per famiglie”. Per intenderci, una donna non può mai entrare in una banca, in un caffè, in un ospedale, dall’ingresso centrale. Ed è dipendente per tutta la vita da un “guardiano” uomo».

Ecco, le recenti aperture del regime sono davvero tali?

«Le aperture ci sono state. Non bisogna entusiasmarsi troppo, ma neanche ignorarle. Facciamo un esempio: prima l’attività fisica delle donne era possibile soltanto nelle scuole private, ora si sta organizzando anche in quelle pubbliche».

Quali sono le altre conquiste?

«Ci sono ora poi dei piccoli ambiti in cui la donna può ora fare da sola, senza l’autorizzazione del suo “guardiano” uomo. E le donne possono guidare anche se non va dimenticato che proprio le attiviste più coraggiose nel rivendicare quel diritto sono finite e sono tuttora in carcare. Non dobbiamo dimenticarci che l’Arabia saudita è un Paese dove Re e Governo hanno un potere assoluto, di vita e di morte, nei confronti dei loro sudditi».

Andranno anche da sole a vedere la Supercoppa?

«Assolutamente sì, arriveranno sicuramente in gruppi. Mi è capitato di incontrare diverse nei caffè o nei ristoranti, seppure soltanto nei settori dedicati alle famiglie. Credo non vedano l’ora di poter fare e vivere cose fino a ieri proibite».

Pubblicato il

Intervista a Deborah Ardilli


di Benedetta Sangirardi (F Magazine, 28 dicembre 2018)


– Sessismo: che cos’è? È la domanda che ha fatto più tendenza su Google nel 2018. Qualcosa sta cambiando?

Intervista a Deborah Ardilli
Ricercatrice indipendente. Il suo ultimo libro è Manifesti femministi (Morellini Editore con VandAePublishing).

Il movimento delle donne è ripartito. Ma i nostri diritti vanno difesi

Che cos’è per lei il sessismo?
«Un termine equivoco. Se ne parla per indicare discriminazioni nate dal pregiudizio ai danni delle donne. Ma attenzione: la disuguaglianza di genere non è solo una questione di mentalità. Non basta fare piazza pulita dei pregiudizi per veder rimosse anche le discriminazioni. Chi lo crede, temo abbia un approccio idealista e poco attento alla realtà».

Ci fa un esempio?
«Nel mondo 76 donne su 100 devono prendersi cura di genitori e figli, spesso da sole e naturalmente gratis. Possiamo pensare basti ribaltare qualche pregiudizio perché queste donne abbiano accesso a un mercato del lavoro retribuito e facciano carriera quanto i colleghi maschi?».

Nel 2018 si è parlato molto di sessismo. È cambiato qualcosa?
«Non so se l’opinione pubblica si sia davvero svegliata dal torpore: difficilmente le femministe accedono ai grandi mezzi di comunicazione. Al contrario, si è moltiplicata in tv la platea degli esperti di questioni di genere che non hanno competenze».

Però il movimento delle donne, oggi, è più attivo che mai.
«È vero, da almeno due anni viviamo una sua fase di ripresa su scala globale, trainata dalle mobilitazioni in America Latina e dal MeToo. Ma ci sono anche tante regressioni. Non è un caso che siamo costrette a difendere ciò che abbiamo conquistato, come il diritto all’aborto che qualcuno periodicamente mette in discussione».


Pubblicato il

Intervista a Michela Fontana


RSI (lunedì 10 dicembre 2018)


– Donne in Arabia Saudita.

Uno dei Paesi dove le donne sono in maggiore difficoltà è l’Arabia Saudita. La scrittrice Michela Fontana ha presentato uno spaccato della realtà quotidiana e della situazione attuale completo ed esauriente.
Grazie ai due anni passati a Riad, Michela Fontana ha potuto conoscere bene la realtà saudita, soprattutto quella femminile. Nel suo libro-inchiesta “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita“, attraverso lo sguardo delle donne, l’autrice racconta i paradossi e le ambiguità del paese che ha ispirato alcuni dei più pericolosi movimenti fondamentalisti, fornendo una chiave di lettura per interpretare un mondo islamico che fatichiamo a comprendere, semplicemente perché non lo conosciamo.
Michela Fontana è stata la vincitrice, nel novembre 2018, della prima edizione del Premio Letterario Allumiere.
L’autrice è stata intervistata il 10 dicembre dalla Radio Svizzera Italiana nella trasmissione Alba Chiara.

Qui potete trovare l’intervista.