Pubblicato il

Grazia Villa

Grazia Villa è dal 1985 avvocata per i diritti delle persone (donne, lavoro, minori, famiglia, vita indipendente, immigrazione, cittadinanza, libertà). Con le donne ha promosso molte cause pilota in materia di riconoscimento di diritti nei luoghi di lavoro, costituzione di parte civile nei processi di stupro e violenza sessuale, denunce relative a molestie e stalking, tra queste la prima condanna per reato di schiavitù nel 2000. Ha svolto molte attività  a livello politico e sociale, segue percorsi formativi per adulti e per studenti delle scuole superiori. Ha promosso la costituzione l’Osservatorio giuridico di Como sui diritti dei migranti e delle migranti.

Pubblicato il

Luciana Tavernini

Luciana Tavernini ha partecipato dagli anni Ottanta all’Associazione Melusine, alla Pedagogia della differenza e poi alla Comunità  di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, ora Comunità  di storia vivente. Ha insegnato nelle scuole medie, nei corsi 150 ore e italiano a donne straniere. Scrive su diverse riviste e siti internet.

Pubblicato il

Daniela Danna

Daniela Danna è ricercatrice in Sociologia generale all’Università  degli Studi di Milano (dove insegna Politiche sociali e tiene un Laboratorio sociologico sul tema delle dinamiche della popolazione). Da scienziata sociale storica si è occupata – leggendo, scrivendo, insegnando, e a volte facendo più direttamente politica – di questioni di genere, lesbismo e omosessualità , violenza contro le donne, politiche sulla prostituzione, maternità  surrogata, analisi dei sistemi-mondo, decrescita, teorie sulla popolazione, rapporti società ambiente.

Fra le sue pubblicazioni: Sesso e genere (Asterios, 2020), L’amore tra donne nella storia (Venexia, 2019), Né sesso, né lavoro (VandA, 2019), La Piccola Principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione (VandA, 2018) Ancora dalla parte della natura (VandA 2021), Fare un figlio per altri è giusto… (Falso)! (Laterza, 2017)

Pubblicato il

Silvia Niccolai

Silvia Niccolai, costituzionalista, insegna Istituzioni di Diritto pubblico nella Facoltà  di Scienze Politiche dell’Università  di Cagliari. Il suo campo di ricerca è il diritto antidiscriminatorio, che studia in modo critico, e aderisce al pensiero e alla politica della differenza. Tra i temi trattati: “Maternità  omosessuale e diritto delle persone omosessuali alla procreazione sono la stessa cosa? (febbraio 2016, Costituzionalismo.it), “Le differenze non sono discriminazioni” (luglio 2016).

Pubblicato il

Sex work. Né sesso né lavoro – Recensione su Autogestione e politica prima. Vite all’opera nelle maglie della pandemia

24 febbraio 2021

Sul trimestrale Vite all’opera nelle maglie della pandemia di Autogestione e politica prima (N.1/2021 gennaio marzo 2021-anno XXIX) è uscita una bella recensione di Sex work. Né sesso né lavoro di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa, scritta da Ana Mañeru Mendez.

Ve la inseriamo qui.

Pubblicato il

Prostituzione: un lavoro come un altro?

Su Volerelaluna è uscito un articolo di Valentina Pazé a proposito della problematica legata alla denuncia di abbandono dei e delle sex worker durante l’emergenza sanitaria e il lockdown del Paese, che presenta bene la posizione di Luciana Tavernini, Silvia Niccolai, Daniela Danna e Grazia Villa, autrici di Né sesso né lavoro.

Eccone un estratto:

“Tra i settori economici che sono stati certamente penalizzati dal lockdown c’è anche il mercato del sesso. Lo ricorda, su il manifesto del 12 maggio, Shendi Veli (https://ilmanifesto.it/lemergenza-umanitaria-del-lavoro-sessuale/) , denunciando l’abbandono in cui sono stati lasciati i e le sex worker (di cui parlerò d’ora in poi al femminile, data la netta prevalenza delle donne nel settore) durante la pandemia. E riproponendo le classiche rivendicazioni dei movimenti per la “decriminalizzazione”: dal riconoscimento della prostituzione come attività lavorativa in piena regola alla legalizzazione delle attività collaterali, come il favoreggiamento, che nel nostro paese è un reato che viene talvolta contestato anche a chi affitta la casa a una prostituta o abita con lei (secondo un’interpretazione peraltro scorretta della legge Merlin, criticata da Silvia Niccolai in AA.VV., Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, Milano 2019, pp70-117).

Intervenendo su 27esima ora del 22 maggio (https://27esimaora.corriere.it/20_maggio_22/prostituzione-lavoro-o-sfruttamento-b8170e3c-9bd6-11ea-aab2-c1d41bfb67c5.shtml), Luciana Tavernini mostra l’altra faccia della medaglia: «Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincere che tutto, perfino l’accesso all’interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzare il prezzo. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro». E dunque, anziché chiedere di legalizzare le attività di coloro che guadagnano dalla prostituzione altrui, bisognerebbe attuare quella parte della legge Merlin che prevede formazione e inserimento lavorativo per le donne che desiderano cambiare vita. Uscendo da un “giro” in cui la stragrande maggioranza di loro è finita per bisogno, e talvolta per vera e propria costrizione (le straniere vittime della tratta), non certo per scelta.

Il contrasto tra queste due posizioni sembra irriducibile e riguarda la stessa scelta delle parole: prostituzione o sex work? “Stupro a pagamento” (come è intitolato il bel volume autobiografico di Rachel Moran) o «un lavoro come un altro», di cui si tratterebbe di garantire l’esercizio in condizioni di legalità e sicurezza? Il tema è di quelli che dividono, anche a sinistra, anche all’interno del femminismo e delle associazioni per la difesa dei diritti umani. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti, data la molteplicità delle questioni in gioco: dalla visione del corpo, della sessualità, delle relazioni tra i sessi alle nostre idee sulla libertà, i diritti, il rapporto tra Stato e mercato.”

Per leggere tutto l’articolo clicca qui.

Pubblicato il

Lettera alla redazione. Contro il sex work non contro le sex workers – il manifesto

Il dibattito . Riceviamo e pubblichiamo un ulteriore contributo sulla questione del sex work. La discussione è emersa in seguito a un reportage pubblicato su il manifesto “L’emergenza umanitaria del lavoro sessuale”

Cara Redazione,

invece di dare l’adeguato spazio alle esperienze, relazioni, riflessioni del movimento neo abolizionista purtroppo in alcuni articoli da voi pubblicati se ne travisano le posizioni.

Soprattutto io e altre donne ma anche degli uomini che fanno parte del movimento neo abolizionista siamo contro la prostituzione, non contro chi viene prostituita. Abbiamo relazioni e sosteniamo il movimento delle sopravvissute alla prostituzione, come ad esempio Rachel Moran e SPACE INTERNATIONAL.

Conosciamo direttamente donne di origine straniera che sono state portate in Italia con la tratta e sappiamo i problemi per liberarsene e la gioia quando vi riescono. Conosciamo le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza e anche di questo parlano.

Riteniamo la legge Merlin un grande passo di civiltà e la difendiamo contro le cattive interpretazioni, come argomenta la costituzionalista Silvia Niccolai in Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione (VandA, 2019). Lottiamo contro le sue revisioni che, fingendosi libertarie, rendono libero lo sfruttamento della prostituzione altrui, come risulta dall’attento esame dell’avvocata Grazia Villa nello stesso libro

Siamo contro il sex work.

Per sesso io ho sempre inteso poter scegliere il partner con cui stare e come farlo per avere un piacere reciproco, altrimenti è stupro a pagamento, titolo del libro di Rachel Moran (Round Robin, 2017). Mi sembrava che fosse una posizione condivisa nella sinistra e con i movimenti omosessuali e trans.

Non si rende dignitoso lo sfruttamento chiamandolo lavoro. È un vecchio trucco. Anche gli schiavisti dicevano che sarebbe bastato chiamare gli schiavi assistenti di piantagione per far cessare le lotte abolizioniste. Ma allora il movimento operaio inglese e le femministe non ci sono cascati. Ho lottato e lotto per un’idea di lavoro dove si pongano dei limiti al mercato, ad esempio che l’interno del mio corpo non sia vendibile. E che nessuna sia costretta a farlo per potersi mantenere. Uso il femminile perché non mi piace nascondere che la stragrande maggioranza è donna.

I modi e il senso del mio essere donna è una ricerca libera e quotidiana, rafforzata da donne e uomini che scelgo e stimo. Non mi hanno mai aiutato i vari apprezzamenti di un maschio qualsiasi su pezzi del mio corpo e neppure i fischi, come fossi un cane, oggi sempre più in disuso.

Mi documento su quello che succede nei paesi dove la regolamentazione come in Germania e la decriminalizzazione come in Nuova Zelanda hanno permesso guadagni all’industria prostitutiva, rendendo più povere le prostituite Vedi ad esempio, Julie Bindel, Il mito pretty woman (Vanda, 2019).

Luciana Tavernini della Libreria delle Donne di Milano

Edizione del Manifesto del 26.05.2020

Pubblicato il

Quanto ma soprattutto dove ci tocca la prostituzione?

È uscita sull’Osservatorio della Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, una bella recensione del nostro saggio “Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione” di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Grazia Villa, Luciana Tavernini, firmata da Cristina Luzzi, Dottoranda in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali nell’Università di Pisa.

Vi lasciamo il link diretto per scaricare il Pdf con l’articolo:
https://www.osservatorioaic.it/it/osservatorio/ultimi-contributi-pubblicati/cristina-luzzi/recensione-del-libro-di-daniela-danna-silvia-niccolai-grazia-villa-luciana-tavernini-ne-sesso-ne-lavoro-politiche-sulla-prostituzione-vanda-epublishing-2019 

Pubblicato il

La prostituzione: né sesso né lavoro


di Doranna Lupi (Viottoli n. 1/2019)


Né sesso né lavoro è il titolo dell’incontro del 15 marzo scorso a Pinerolo, realizzato nell’ambito di IO L’OTTO SEMPRE, esito di un tavolo organizzato dall’Assessora alle Pari Opportunità Francesca Costarelli con le associazioni che sul territorio si occupano di contrastare la violenza degli uomini sulle donne: E.M.M.A. Centri Antiviolenza Svolta Donna, Anlib, il Gruppo uomini di Pinerolo, Liberi dalla Violenza – Centro di ascolto disagio maschile.

Sono state invitate per l’occasione l’avvocata Grazia Villa e la storica Luciana Tavernini che, con la sociologa Daniela Danna e la costituzionalista Silvia Niccolai, hanno scritto il libro Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione (VandA.ePublishing, 2019). Questo libro è nato dall’incontro Sulla prostituzione al Circolo della rosa presso la Libreria delle donne di Milano del 10 marzo 2018 e dall’impegno femminista di Angela Di Luciano, una delle editrici di VandA.ePublishing.

Alcune femministe hanno ripreso a ragionare sulla prostituzione per il timore di cattive leggi, nate da idee improvvisate, anche perché in Italia ci troviamo di fronte a diversi tentativi di stravolgere o soppiantare la legge Merlin, che prende il nome della senatrice socialista che ascoltò e dialogò con oltre 2000 donne prostituite nelle case chiuse. Ne è testimonianza la selezione di lettere tra quelle a lei inviate dalle ragazze delle case chiuse e ora ripubblicate. Lina Merlin, coinvolta fin da giovane nella lotta antifascista, condannata al confino, militante della Resistenza, eletta all’Assemblea Costituente (sua la dicitura “senza distinzione di sesso” nell’art.3 della Costituzione sul principio di uguaglianza), impiegò dieci anni per far varare questa legge, che non è piaciuta sin dall’inizio persino a uomini del suo stesso partito. Lei sosteneva che fosse inopportuno chiedere agli uomini le loro impressioni sulle case di tolleranza, per ovvi motivi. Silvia Niccolai argomenta come a interpretare la legge siano stati gli uomini e non lo abbiano fatto con serenità. «La legge Merlin non ha incontrato sostegno interiore negli interpreti, ma scetticismo e malsopportazione e questo ha contato parecchio nel disfarne il senso e il valore» (p. 80). Esaminando la legge e la giurisprudenza, Niccolai ha constatato come molte interpretazioni non ne hanno rispettato il vero significato, quello cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita, ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino.

L’argomento trattato è di grande attualità. Il 6 di marzo 2019 una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato non fondati i dubbi sulla costituzionalità della legge Merlin. Otto associazioni femministe e la Presidenza del Consiglio dei Ministri si sono costituite nel procedimento dinanzi alla Consulta, opponendosi alla questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge sollevata nei mesi precedenti dagli avvocati di due imputati nel processo d’appello a Bari sulle escort portate, tra il 2008 e il 2009, dall’imprenditore Gianpaolo Tarantini nelle residenze private dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Prostituirsi è lecito, ma non lo è aiutare le persone a vendere il proprio corpo o trarre guadagni o altre utilità dalla prostituzione altrui. Resta quindi in Italia il reato di sfruttamento della prostituzione messo in discussione da chi pensa che una donna può decidere liberamente di prostituirsi e che sia una forma di autodeterminazione.

Come ben illustrato dall’accurato lavoro di Grazia Villa, nelle ultime due legislature sono state depositate 22 proposte e disegni di legge riguardanti il tema della prostituzione che, messi a confronto, rivelano un’inaspettata convergenza di opinioni sulla definizione del fenomeno prostitutivo tra esponenti di gruppi di politici diversi, per storie e genealogie spesso contrapposte, convergenza che conduce a una uniformità di giudizi e spesso di scelte (p. 127).

Le principali tra queste opinioni, condivise anche tra posizioni politiche che sembrano proporre concezioni differenti dei rapporti tra i sessi, sono: l’ineluttabilità della prostituzione, la critica alla legge Merlin per la mancata risoluzione del fenomeno o addirittura per il suo aggravamento, la collocazione dell’industria prostitutiva nelle logiche del mercato e ancor meglio del mercato globale, la distinzione tra tratta e prostituzione liberamente scelta da chi la esercita.

La prostituzione è un lavoro come un altro?

Si tratta di visioni che rispecchiano una parte delle politiche sulla prostituzione a livello internazionale, analizzate con precisione da Daniela Danna nel primo capitolo. Ciò che le accomuna è che si parla di prostituzione come lavoro e questo è molto distante dalla legge Merlin. Come sottolineato in diversi punti del libro, ci si è arrivati nel corso del tempo, anche attraverso l’uso di un linguaggio fuorviante con conseguenti slittamenti di significato. Per esempio, definendo la prostituzione sex work come fosse una qualunque professione, i prostitutori diventano clienti che effettuano transazioni economiche, i tenutari di bordelli imprenditori, gli sfruttatori datori di lavoro e le donne che mettono i loro corpi a disposizione libere professioniste. Ma la prostituzione può essere considerata un mestiere come un altro? La vagina può essere un luogo di lavoro e di produttività economica? «Il sito South Melbourne Community Health consiglia alle escort di non utilizzare anestetico locale perché la mancanza di sensibilità impedisce che le lesioni siano notate immediatamente» (p. 30).

Non si degrada così il senso di tutto il lavoro? Luciana Tavernini rende bene l’idea di come in questo modo passi sul corpo delle donne un tentativo di «separare chi lavora da ciò che deve dare per il salario», rendendo accettabile la vendita totale di sé e nascondendo i rapporti sociali sottesi. Riprende Julia O’Connell Davidson che ricorda un episodio, citato da Marx nel Capitale, in cui si racconta come mister Peel avesse portato in Australia, oltre a mezzi di sussistenza e di produzione, anche trecento uomini, donne e bambini della classe operaia, che se ne andarono appena videro come fosse possibile trovare altrove mezzi per vivere meglio, lasciandolo senza neppure un servo. Marx conclude che per trasformare le sue cose in capitale mister Peel avrebbe avuto bisogno di esportare i rapporti sociali che costringevano gli uomini e le donne che aveva portato con sé a vendersi di loro spontanea volontà (p.196).

I rapporti sociali che mettono la donna nella condizione di vendersi “spontaneamente” sono segnati dall’asimmetria tra i sessi. L’uso dei corpi femminili attraverso il denaro è un’istituzione fondante del patriarcato.

Dunque si tratta di un tema importante per la libertà e la dignità delle donne e per le relazioni tra i sessi e, essendo il nostro un tempo in cui si comincia a credere alle parole delle donne, sono stati tradotti, come atto politico, dalle amiche di Resistenza Femminista, dei testi straordinari e dirompenti. Uno è Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione di Rachel Moran (Round Robin, 2017) dove l’autrice narra, partendo dalla propria esperienza, l’orrore vissuto nella prostituzione analizzandone il senso (una mia recensione è nel numero 1/2018 di Viottoli); l’altro è Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione di Julie Bindel (VandA.ePublishing, 2019) che raccoglie 250 interviste fatte a sopravvissute alla prostituzione, attivisti per i diritti delle sex worker, papponi, compratori di sesso e proprietari di bordelli in 40 paesi, città e stati del mondo. Fino a oggi mancava un punto di vista italiano che scaturisse dalla nostra storia, dall’approccio alla prostituzione segnato dalla legge Merlin, dal nostro femminismo e che «declinasse in italiano l’indignazione nei confronti degli uomini che si permettono di comprare il sesso delle donne» (p. 14). Abbiamo dunque una trilogia per comprendere meglio il fenomeno prostitutivo al di là di slogan e stereotipi e avere così un quadro più completo su un tema complesso, che riguarda tutte e tutti.

Sicuramente ciò verso cui ci spingono a riflettere queste autrici è cominciare a pensare alla possibilità di abolire la prostituzione. Gli uomini la devono finire di violare i corpi di donne e bambine a loro piacimento e con il benestare degli altri uomini, secondo una concezione maschile degradata del desiderio e della sessualità: l’uso – o meglio abuso – del corpo femminile reso disponibile per denaro è una manifestazione della protervia maschilista con cui gli uomini si considerano superiori alle donne (ancora poche sono le eccezioni), e un’istituzione fondante della struttura sociale denunciata dalle donne come patriarcato (p. 16).

La battaglia delle narrazioni

Siamo ben consapevoli che la posta in gioco è molto alta: sono in ballo due narrazioni della realtà che, in questo tempo di fine patriarcato, si mostrano confliggendo. Entrambe le narrazioni fanno parte di un senso comune che le ha generate: quello più antico che sostiene, a favore degli uomini, l’ineluttabilità della prostituzione vista come un fenomeno vecchio come il mondo che sempre è esistito e sempre esisterà, un fatto naturale che risponde a un bisogno irrefrenabile della sessualità maschile e che in tempi moderni va regolamentato; quello più recente delle donne che hanno messo in discussione l’ordine simbolico patriarcale e, partendo dalla loro esperienza condivisa, dai loro rapporti di sorellanza, valutano in prima persona ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per loro stesse e per le altre.

Grazie a un sentire femminile condiviso e a un bisogno contagioso di verità e giustizia per se stesse e per tutte le appartenenti al proprio sesso, sin dagli inizi del Novecento si è prodotto uno spostamento simbolico, attraverso la presa di parola delle donne. Luciana Tavernini riporta testimonianze di donne uscite dalla prostituzione grazie ad altre, narrazioni riprese e valorizzate dal femminismo degli anni Ottanta. Oggi possiamo sentire cosa dicono le sopravvissute, le giuriste, le femministe.

La prostituzione è uno scambio: lui ha i soldi, lei ha il corpo. La storia di sesso e potere del nostro ex premier Berlusconi ce lo ha mostrato. Ida Dominijanni lo ha spiegato bene nel suo libro Il Trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, (Ediesse, 2014). Quando le donne hanno parlato pubblicamente, come nel caso di Sofia Ventura, Veronica Lario e Patrizia D’Addario, sono caduti personaggi importanti della politica.

Quindi per quanto riguarda la prostituzione «la battaglia delle narrazioni» (Lia Cigarini in Sottosopra – Cambio di Civiltà, 2018) è in pieno svolgimento. Dove ha vinto la narrazione maschile neoliberista si regolamenta la prostituzione come ad esempio in Danimarca, Paesi Bassi e Germania. Un episodio significativo delle possibili conseguenze è stata la necessità del pronunciamento di un tribunale in Germania perché le donne disoccupate non fossero obbligate ad accettare di lavorare nei bordelli per non perdere l’assegno di disoccupazione.

Vedendo che questa modalità scricchiola e non funziona ad aprile 2019 sono state consegnate al parlamento olandese 42.000 firme per chiedere l’introduzione del modello nordico che rende illegale avere rapporti sessuali a pagamento.

Dove ha vinto la narrazione femminile (femminista) si sa, perché lo dicono le sopravvissute alla prostituzione e perché ogni donna lo sa nel profondo di se stessa, che la prostituzione per le donne è un inferno, è violenza, umiliazione, è stupro a pagamento. Allora il modello di riferimento è quello cosiddetto nordico in vigore in Svezia dal 1999 e successivamente in Norvegia, Islanda, in Irlanda e Irlanda del Nord e, dall’aprile 2016, anche in Francia. Questo modello punisce l’acquisto di sesso multando colui che pretende di acquistarlo, decriminalizza le persone prostituite, prevede la creazione di programmi di uscita su scala nazionale, politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale e tratta, programmi rieducativi per i clienti (prostitutori). La Corte costituzionale francese, con una sentenza del 1° febbraio 2019, ha stabilito che la penalizzazione dell’acquisto di prestazioni sessuali, prevista dalla legge n. 444 del 13 aprile 2016 in tema di lotta contro il sistema prostituzionale, è costituzionalmente ineccepibile.

CAP (Coalition Abolition Prostitution) international ha contribuito alla mobilitazione di una vasta rete di soggetti in sostegno della legge. Sei ministri della precedente legislatura per i diritti delle donne, 30 medici rinomati, una coalizione di uomini che si opponeva all’acquisto di sesso hanno scritto lettere aperte e rilasciato dichiarazioni sulla stampa chiedendo al Consiglio Costituzionale di mantenere la criminalizzazione dell’acquisto di sesso.

In Svezia, infatti, il numero di persone prostituite è diminuito sensibilmente. Secondo la polizia svedese, il provvedimento ha esercitato un notevole effetto deterrente sulla tratta. La legge ha anche modificato l’opinione pubblica.

Nel suo testo Grazia Villa, avvocata di Como, racconta come Oike, una donna sopravvissuta alla tratta, fosse tornata allo sportello per migranti a raccontare di aver trovato casa e un «vero lavoro» perché «altro non è mai lavoro, mai, mai, mai!» Aveva con sé dolcetti per ringraziare e una sciarpa rossa per Grazia, l’avvocata che l’aveva seguita nel suo percorso legale. «In quel semplice gesto di gratitudine, però, c’era il riscatto e l’autodeterminazione di una donna, la forza della nostra alleanza: un sogno avverato, una rivoluzione possibile» (p. 175).

Affrontare questo tema doloroso e scomodo ci dà l’opportunità di mettere in discussione e di riflettere sui rapporti tra uomini e donne e sui mutamenti necessari per un cambio di civiltà.

Pubblicato il

Prostituzione: esiste la libera scelta?


di Giovanna Pezzuoli (27esima ora, 12 maggio 2019)


– «Nè sesso nè lavoro»

«Io non lo farei mai, ma se qualcuna vuole farlo perché proibirglielo?», «È una libera scelta, non bisogna essere giudicanti», «Si deve legalizzare, se stanno al chiuso sono più protette». Ebbene sì, stiamo parlando di quello che viene definito «il mestiere più antico del mondo» e dei luoghi comuni, slogan, semplificazioni, fraintendimenti, che accompagnano le politiche sulla prostituzione, messi in luce da un libro per molti aspetti chiarificatore, Né sesso né lavoro (VandA.ePublishing, 2019), firmato da quattro autrici, la sociologa Daniela Danna, la costituzionalista Silvia Niccolai, la storica Luciana Tavernini e l’avvocata Grazia Villa. Se ne è parlato l’altra sera in un vivace e affollatissimo dibattito alla Libreria delle donne di via Calvi 29, dove si notava la presenza anche di molte giovani. Tutte (e tutti, visto che non mancava qualche uomo) coinvolte nella riflessione su un fenomeno complesso, di recente ritornato all’attenzione delle cronache, sia per le sentenze delle Corti Costituzionali italiane e francesi che hanno respinto, nel primo caso (il 6 marzo) il ricorso contro l’incostituzionalità della legge Merlin, nell’altro (il 2 febbraio) il ricorso contro la «penalizzazione» dei clienti, prevista dal modello nordico o neo abolizionista, adottato anche in Francia, Irlanda, Irlanda del Nord, Canada, Islanda e Norvegia, e dal 2020 in Israele.

Altro evento recente, la consegna, il 10 aprile, al Parlamento olandese di una petizione, con 42 mila firme, contro l’attuale regolamentazione (case chiuse) e a favore dell’introduzione del modello svedese (che prevede appunto non punibilità della prostituta, la punibilità del cliente e percorsi di sostegno per chi esce dall’attività).

Il modello svedese toglie la donna che si prostituisce da una posizione di inferiorità, ha sottolineato Silvia Niccolai, come già faceva la legge Merlin (promulgata in Italia il 20 febbraio del 1958), che denunciava il concetto di fondo della prostituzione, ovvero che il denaro compri il consenso per l’accesso a un corpo, denaro che assolve e risolve in questa «Idra alla quale non si è mai tagliata la testa», il ruolo del cliente o «prostitutore». Ma Lina Merlin, una socialista, umanitaria, con una forte sensibilità per le ingiustizie del mercato, si interrogava sui compiti dello Stato. La domanda era: la prostituzione è una fonte di profitto che lo Stato intende incoraggiare?

Cominciamo dunque a non lucrare sulla vendita dei corpi, invece la narrazione diffusa è che si tratti di una legge moralista. Di fatto i giudici hanno spesso tradito la legge Merlin, prosegue l’autrice, rifacendosi al codice Rocco che lasciava le donne libere di prostituirsi ma puniva comportamenti come violenza, sfruttamento, «condotte disfunzionali» che danneggiavano le case chiuse. Lina Merlin invece chiude i bordelli, vietando lo sfruttamento economico della prostituzione, ma non qualifica come punibile l’attività della prostituta che ha diritto alla piena cittadinanza. Le interessa cancellare lo stigma. Del resto, aggiunge Luciana Tavernini, Lina Merlin prima di formulare la legge ha letto le testimonianze, spesso drammatiche e desolanti, di oltre duemila donne delle case chiuse, tra cui molte lettere (una selezione pubblicata nel 1955 è ora scaricabile dal sito della Fondazione Anna Kuliscioff). Che senso avrebbe dunque punire chi subisce violenza?

L’accusa di moralismo alla legge deriva dal fatto che impedirebbe alla donna che si prostituisce di trasformare la propria attività in un’impresa. Il focus della legge non è il comportamento della donna ma l’attività economica che si svolge attorno a lei. È interessante, nota Daniela Danna, il fatto che il discorso a favore delle sex workers, ovvero dell’idea che le prostitute siano lavoratrici del sesso tout court, non sia diffuso soltanto fra governanti di destra ma anche tra le giovani generazioni con visioni progressiste e radicali. Secondo la sociologa, è proprio l’obiettivo delle politiche neo liberali ridurre tutto a mercato, invadendo la sfera personale/sessuale, mentre la vita lavorativa subisce la progressiva erosione di ogni tutela. Con l’illusione di una libera scelta e di un allargamento dei diritti delle donne, tutti i rapporti umani finiscono per essere regolati dai mercati, come nella gravidanza per altri e nella compravendita di neonati.

La prostituzione non è il mercato del sesso, ma il «mercato dell’abuso», dice ancora Daniela Danna, l’asimmetria messa in luce dalla legge Merlin è il nocciolo della questione. Chi compie l’abuso? Ogni uomo che paga, è un consenso comprato. In questo senso è un passo in avanti il modello svedese che multa i clienti, un segnale che ci sono limiti a ciò che si può fare al corpo di un’altra.

Quanto alla libera scelta come parola d’ordine, è appassionato l’intervento di Marisa Guarneri, del Cadmi di Milano, che dalla sua esperienza con le donne maltrattate ha tratto la convinzione che in situazioni di forte violenza la libera scelta non esiste. Così nel dibattito sulla prostituzione parole come libertà e libertà di scelta sarebbero solo mine vaganti. La tematica della libera scelta fa parte del linguaggio utilizzato dai movimenti radicali che inconsapevolmente usano termini neo liberisti. La libertà non è scegliere fra due alternative concesse ma capire come realizzarsi sviluppando al meglio le proprie potenzialità.

Parlare di sex workers sembrerebbe un modo per ridare dignità alle «puttane», sottolinea Daniela Danna, ma non è così. In Australia dove la prostituzione nei bordelli è legale, tra i consigli dati alle prostitute c’è quello di non usare anestetici locali altrimenti «non vi potete rendere conto di quanto il cliente vi sta facendo male». Nella richiesta di essere riconosciuta come sex worker Luisa Muraro coglie il desiderio di avere un minimo di dignità. Ed è proprio quello che ha tentato di fare Lina Merlin, non punendo la prostituta ma impedendo che si costruisse un’industria, privata o di Stato, sul suo sfruttamento.

Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa«Nè sesso nè lavoro. Politiche sulla prostituzione»VandA.e Publishing 15.99 euro
Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa «Nè sesso nè lavoro. Politiche sulla prostituzione» VandA.e Publishing 15.99 euro

Ci accusano di essere «proibizioniste», dice ancora Danna, ma il proibizionismo vieta l’uso di sostanze, mentre qui si tratta dell’uso delle persone. È un’arma retorica contro l’abolizionismo, termine che non a caso evoca le lotte dei movimenti abolizionisti che volevano eliminare la schiavitù.

Ma che senso ha impegnarsi nella difesa di una legge, peraltro in Italia molto maltrattata ed elusa, si chiede infine Silvia Niccolai. Non si tratta tanto di dire com’è bella questa legge, quanto di raccoglierne l’eredità, riconoscendo la validità del principio che non si può regolamentare la sfera privata. Per quanto abbia letto con dolore il libro di Rachel Moran Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Silvia capisce ma non condivide la scelta di punire il cliente, che in fondo non fa altro che «comprare una finzione». Piuttosto serve una riflessione, uno sguardo di donna sulla prostituzione, come cerca di fare Luciana Tavernini, ripercorrendo i rapporti fra femministe e prostitute dall’inizio del Novecento (quando Ersilia Majno fondò a Milano l’Asilo Mariuccia per adolescenti «traviate») ad oggi, interrogandosi sul senso del lavoro ed esplorando nuove possibili alleanze tra lavoratrici e lavoratori e prostitute «perché combattere contro la prostituzione non significa combattere contro queste ultime, ma, come con lo schiavismo, lottare per la dignità del lavoro dipendente e di chi lo fa».

A completare il libro, l’avvocata Grazia Villa mette a confronto i 22 progetti di riforma della legge Merlin depositati in Parlamento nelle ultime due legislature e nell’attuale, cogliendo gli elementi comuni a posizioni politiche che sembrano proporre concezioni differenti dei rapporti fra i sessi.

Restano tuttavia aperte molte questioni, a partire dal dilemma che veniva formulato da Bia Sarasini nella riproposta, nel 2012, del libro Sesso al lavoro di Roberta Tatafiore: perché aumenta la domanda di rapporti sessuali a pagamento in un’epoca in cui le donne non sono più inaccessibili fortezze da espugnare? Ovvero, che cosa cerca oggi chi vuole comprare sesso? E ancora: è giusto definire prostituta chiunque venda l’integrità del proprio corpo per denaro? È possibile tracciare un confine netto fra donne per bene e malefemmine? Problemi che coinvolgono soprattutto le nuove generazioni, frastornate dalla continua offerta dei corpi femminili in uno spazio pubblico e simbolico interamente permeato dal sesso commerciale.

E qui si coglie meglio il senso di quella domanda Why not? formulata da giovani che vendevano i loro corpi a pagamento, alimentando un immaginario, certamente distorto ma diffuso, per esempio in film come Giovane e bella di François Ozon, con la storia della doppia vita della diciassettenne Lèa che partendo da una sessualità vissuta con disagio, sceglie di prostituirsi non per necessità, né per denaro ma quasi per curiosità o forse per gioco.


 

Pubblicato il

Ecco perché il «sex work» non esiste: 8 falsi miti sulla prostituzione


di Antonella Mariani (Avvenire, 8 maggio 2019)


Non è una scelta, non è libertà né autodeterminazione. E la Legge Merlin è ancora viva e vegeta. In un saggio quattro studiose spiegano perché la prostituzione si deve abolire. Come la schiavitù.

La prostituzione può essere considerata un lavoro? No, per nulla. Il sex work (come ora si usa dire per nascondere la realtà dei fatti, cioè la sopraffazione e l’abuso nascosti in un rapporto sessuale a pagamento) non è affatto un lavoro. E non è nemmeno sesso. Con passione e competenza quattro esperte in diversi campi analizzano il mercato del sesso in Italia, un Paese in cui una ottima legge (la Merlin del 1958), animata da una forte tensione etica, è ancora ben lungi dall’essere applicata fino in fondo: la lotta alla tratta non è una priorità e sulla prostituzione vige il laissez-faire, mentre si moltiplicano proposte di legge che mirano, sessant’anni dopo, alla riapertura delle case chiuse.

In “Sew work, né sesso né lavoro” (VandA, pagg. 208, euro 15,90) la sociologa Daniela Danna offre uno sguardo sulle politiche sulla prostituzione in vari Paesi del mondo. La giurista Silvia Niccolai ripercorre la vita travagliata della Legge Merlin, che oggi si vorrebbe ingiustamente smantellare, l’avvocata Grazia Villa commenta le tante proposte di legge avanzate in Italia e infine la pedagogista Luciana Tavernini ragiona sul rapporto tra gli uomini e la prostituzione, e tra quest’ultima e il femminismo, anche alla luce del movimento antimolestie #Metoo.

Nel complesso, un libro prezioso, che offre un contributo di documentazione e di riflessione per chi è convinto, come lo sono le autrici, che la linea giusta sia quella di abolire la prostituzione, così come in passato si è arrivati a cancellare la schiavitù. La presentazione del libro si terrà sabato 11 maggio alle 18 alla Libreria delle Donne di Milano, presenti Danna e Niccolai.

Servendoci dei contenuti di questo libro, largamente citati, abbiamo provato a sfatare alcuni tra i falsi miti più diffusi sulla prostituzione.

1) La prostituzione può essere una scelta, espressione della libertà sessuale e dell’autodeterminazione femminile. FALSO

Molte ex prostitute (le cosiddette sopravvissute, la più famosa delle quali è Rachel Moran che ha raccontato la sua esperienza in Stupro a pagamento) chiariscono come la prostituzione non è mai una libera scelta, nemmeno quando si tratta delle cosiddette escort. Nessuna donna può essere felice di essere umiliata e trattata come una merce. Chi si prostituisce di fatto rinuncia alla sua autodeterminazione sessuale, quindi alla sua libertà. Chi difende la (presunta) libertà della donna di prostituirsi in realtà difende la possibilità del cliente di approfittare del suo corpo. Quanto alla libertà di impresa economica, essa non ha diritto di essere riconosciuta come tale se genera profitti ingiusti, come pensava la senatrice Lina Merlin richiamandosi all’articolo 41 comma 2 della Costituzione (L’iniziativa economica privata (…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana). La prostituzione, anche se “libera”, rientra nel caso di un’economia immorale che alimenta i suoi profitti con lo sfruttamento puro e semplice del corpo delle donne. La prostituzione, in conclusione, è la negazione della libertà: è la dimostrazione che tutto – perfino la sfera sessuale – è misurabile con denaro, in un’ottica biecamente consumistica e capitalistica.

2) Si deve legalizzare la prostituzione: se le donne stanno al chiuso sono più protette. FALSO

Chi sostiene questo sta dalla parte degli sfruttatori e dei trafficanti di esseri umani che riforniscono i bordelli della merce-sesso. L’esperienza dimostra che oggi, in Germania come negli Stati Uniti, nei bordelli legali si trovano normalmente donne vittime di tratta, in gran parte straniere, soggette a violenze sessuali e in generale fisiche in misura ancora maggiore di coloro che esercitano “all’aperto”, dato che i clienti, poiché hanno pagato e si trovano in una situazione priva di rischi, si sentono legittimati a fare ciò che vogliono.

3) Con la legalizzazione almeno le prostitute pagherebbero le tasse e il Pil sarebbe più alto. CINICO

È quantomeno cinico considerare lo sfruttamento del corpo delle donne come una economia “sommersa” da far emergere, per partecipare anch’essa alla crescita del Pil. “Ce lo chiede l’Europa”, è la giustificazione che porterebbe, in nome del dio-Pil, ad abbatterebbe ogni confine alla mercificazione femminile.

4) Il lavoro sessuale (sex work) è un lavoro come gli altri. FALSO

Niente affatto, e lo dimostrano le testimonianze di chi è uscito dal “mercato”, che parlano di umiliazioni e soprusi continui. Ma è l’idea stessa di scambiare rapporti sessuali con denaro ad essere contraria alla dignità della donna e alla parità di genere. Nonostante la prostituzione sia regolamentata in diversi Paesi, la sessualità non è un bene commerciabile. Il termine “servizio sessuale” nasconde l’abuso; legalizzare il lavoro sessuale significa trasformare il corpo della donna in luogo di lavoro e legalizzare l’abuso sessuale. La differenza soggettiva con uno stupro è solo perché si è pattuito di non fare resistenza. Il “lavoratore del sesso” rinuncia alla propria sfera intima e mette sul mercato non solo la propria forza lavoro ma principalmente l’intimità sessuale, cosa che è strettamente tutelata in qualsiasi altro impiego. In ogni lavoro ogni sopraffazione, ogni abuso sono severamente perseguiti dalla legge, qui invece ne sono parte essenziale. Quindi, sex work non è lavoro. E non è nemmeno sesso.

5) Poter esercitare il sex work è un diritto umano. FALSO

Questo è il falso mito diffuso in particolare da alcune agenzie per i diritti umani (tra cui Human Right Watch, l’Oms, Unaids e Amnesty International), secondo il quale i sex workers sono un gruppo oppresso. In realtà il diritto che il modello del sex work difende è quello di chi compra, che vuole essere libero di offrire denaro per ottenere una prestazione sessuale. Chi la vende, invece, è solitamente in uno stato di bisogno. E le persone più deboli della società dovrebbero poter far valere ben altri diritti umani: al cibo, alla casa, alla sanità, al lavoro.

6) La prostituzione è una cosa, la tratta è un’altra. INGENUO

Chi sostiene questo finge di non sapere che per un cliente non c’è nessuna differenza tra “merce libera” e “merce trafficata”. Anzi, la maggior parte dei clienti cerca ragazze molto giovani, poco più che bambine. Come può credere che siano libere? In alcuni ambienti utraliberisti la finzione è così avanzata che si cancella la parola tratta per parlare di migrazione per il sex work. Al contrario la posizione abolizionista, condivisa da una parte importante e qualificata del mondo femminista, “considera la tratta non il caso particolare di ciò che di malvagio accade nella prostituzione, ma che l’acquisto dell’accondiscendenza al proprio sfogo sessuale diretto sul corpo altrui – quasi sempre femminile – è violento e inumano di per sé” (Daniela Danna).

7) Non ci sono solo donne nel mercato del sesso. IRRILEVANTE

No, ma sono la maggioranza. La narrazione di persone transessuali e ragazzi gay che rivendicano di scegliere la prostituzione non può oscurare le voci, sempre più numerose, di ex prostitute (le sopravvissute) che denunciano il falso mito della libertà di prostituirsi.

8) La Legge Merlin ha fatto il suo tempo. Bisogna prendere atto che è superata. FALSO

La Legge Merlin stabiliva un principio tuttora valido: il corpo di una donna non può essere oggetto di regolamentazione pubblica, perché questo offende l’eguaglianza e la libertà di ciascuna e mette a repentaglio le coordinate di una convivenza civile. Non considera affatto l’attività della prostituta lecita o libera, ma vuole tutelare la donna che si prostituisce come una cittadina, e rivolgere il suo giudizio d’immoralità non alle prostitute ma al mercato che le sfrutta. La Legge Merlin non è superata, bensì attualissima: persegue la libertà dalla prostituzione, cioè dal non essere considerati una merce in vendita.


 

Pubblicato il

Presentazione “Né sesso né lavoro”

 Né sesso né lavoro vuole fornire, un contributo indispensabile al dibattito su prostituzione/sex work in Italia. Un testo importante per chi vuole capire qualcosa in più sulla prostituzione e sfilare la testa dalla sabbia dei luoghi comuni, andare oltre slogan sempre più diffusi che, volendo sdoganare la questione, negano gravi problemi sociali e mentono spudoratamente. Il sex work non è un lavoro come un altro, il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro. Forti di competenze specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno in un’analisi calata nella peculiare realtà dell’abolizionismo tradito nel nostro paese, dove la lotta alla tratta non è una priorità e dove sulla prostituzione vige il laissez faire. Dall’esame dei modelli di politiche internazionali all’analisi della Legge Merlin (male interpretata) e delle numerose proposte parlamentari di modifica della legge, all’appassionata riflessione sulla portata della prostituzione negli attuali rapporti umani.

Le autrici
Daniela Danna è sociologa all’Università del Salento e si occupa di questioni di genere, analisi dei sistemi-mondo, rapporto società-ambiente, decrescita.

Silvia Niccolai è ordinaria di diritto costituzionale all’Università di Cagliari.

Luciana Tavernini ha partecipato dagli anni Ottanta all’Associazione Melusine, alla Pedagogia della differenza e poi alla Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, ora Comunità di storia vivente. Ha insegnato nelle scuole medie, nei corsi 150 ore e italiano a donne straniere.

Grazia Villa è dal 1985 avvocata per i diritti delle persone (donne, lavoro, minori, famiglia, vita indipendente, immigrazione, cittadinanza, libertà). Con le donne ha promosso molte cause pilota in materia di riconoscimento di diritti nei luoghi di lavoro, costituzione di parte civile nei processi di stupro e violenza sessuale, denunce relative a molestie e stalking, tra queste la prima condanna per reato di schiavitù nel 2000.


Pubblicato il

Il mito di Pretty Woman: l’inganno liberista della prostituta felice


di Antonella Mariani (Avvenire, 16 aprile 2019)


– «È sempre sfruttamento e abuso, anche quando è legale. Un’abile mistificazione alle spalle delle donne più fragili». Parla la giornalista Julie Bindel, autrice di una inchiesta internazionale

Ha visitato i bordelli legali in Australia, Germania, Nevada, Olanda; ha intervistato in tutto il mondo decine di sopravvissute alla prostituzione, proprietari di case di appuntamenti e di agenzie di escort, uomini di governo e compratori di sesso, attivisti per la legalizzazione del «lavoro sessuale» e femministe che al contrario lottano per la sua abolizione. La giornalista britannica Julie Bindel ha compiuto la più vasta ricerca mondiale mai effettuata sulla prostituzione, indagando sui meccanismi che regolano il business e sulle condizione delle donne che vi sono coinvolte. I risultati dell’indagine che le è costata due anni di lavoro e decine di viaggi in tutti i continenti sono condensati in Il mito Pretty Woman (VandA-Morellini, pagine 318, euro 17,90). Un titolo curioso, che già rivela le conclusioni dell’autrice: la lobby dell’industria del sesso anno dopo anno ha «spacciato» l’immagine falsa della «prostituta felice» – a cui peraltro ha dato una grande mano il celebre film interpretato dal Julia Roberts e Richard Gere –, celando la pura e semplice verità per ragioni di bottega: la prostituzione è sempre abuso e sopraffazione, mai libera scelta, e chi afferma – parte del femminismo compreso – che il «sex work» è un lavoro come gli altri e come tale va garantito, commette una crudele mistificazione alle spalle delle donne più fragili e marginali.

Julie Bindel, perché oggi si parla tanto di ‘sex workers’ come se si trattasse di normalissimi lavoratori e lavoratrici?

Grazie all’appoggio di enti come Human Rights Watch, Organizzazione mondiale della salute, Unaids e Amnesty International, il movimento per i diritti dei ‘sex workers’ può presentarsi al mondo come fondato sulla liberazione di un gruppo oppresso. Uno degli argomenti più ridicoli usati da questi cosiddetti gruppi per i diritti umani, è che grazie alla depenalizzazione della prostituzione diminuirà la violenza della polizia e degli sfruttatori contro le donne prostituite. Un altro argomento è che i nuovi casi di Hiv si ridurranno in modo significativo perché i protettori avranno l’obbligo di far usare i preservativi. Ma come ho visto visitando i bordelli legali in Nevada, Germania, Olanda e Australia, è impossibile applicare una ‘regola del preservativo’. In Nevada, ad esempio, alle donne è richiesto di sottoporsi ogni settimana a esami del sangue per assicurare ai protettori che sono sane, dato che molti uomini vogliono acquistare sesso senza protezione. La verità è che il neoliberismo ha innalzato il libero mercato del sesso al di sopra dei diritti umani, in particolare di quelli femminili. Un approccio corretto dovrebbe invece tutelare i diritti delle donne e degli uomini vittime del commercio sessuale. Questo è ciò che accade in Paesi come la Svezia, la Francia e la Repubblica d’Irlanda, che hanno adottato il modello abolizionista, in cui vengono criminalizzati coloro che creano la domanda, cioè i clienti.

Perché l’approccio abolizionista ha molto meno seguito rispetto a quello che reclama la libertà di prostituirsi?

Perché esiste la convinzione che ci saranno sempre uomini che pagano per il sesso e donne che lo vendono. La prostituzione, insomma, appare ‘necessaria’ e in qualche modo un ‘diritto’ del consumatore. I liberali sostengono inoltre che la depenalizzazione di tutte le modalità della prostituzione, compresi i bordelli, renda più sicure le donne e più facile sradicare gli abusi e lo sfruttamento. In quest’ottica i ‘sex workers’ possono essere protetti dai sindacati e da provvedimenti di sicurezza e sanità. Negli ultimi anni, questi argomenti purtroppo si sono fatti strada. Nel 2000 l’Olanda ha formalizzato ciò che era già culturalmente accettato, revocando il divieto ai bordelli e liberalizzando il commercio sessuale. Tre anni dopo, il governo neozelandese ha approvato, con un solo voto, la legge che ha completamente depenalizzato la prostituzione di strada e le case chiuse.

Cosa sostengono invece gli abolizionisti, categoria alla quale lei appartiene?

Gli abolizionisti respingono la descrizione provocatoria di ‘sex work’ e riconoscono che la prostituzione è violenza in un mondo neoliberale in cui la carne umana è diventata una merce, e sfruttamento unilaterale che affonda le radici nel potere maschile. Ritengono che la strada giusta sia aiutare le donne a uscire dal commercio sessuale e criminalizzare la domanda.

Anche il femminismo è diviso sulla posizione da tenere. Perché?

Il problema è che il termine ‘lavoratore del sesso’, coniato negli anni ’80 e oggi sempre più utilizzato dalla polizia, dagli operatori sanitari e dai media, comprende chiunque: pornografi, spogliarellisti e magnaccia, così come coloro che vendono sesso. Negli ultimi dieci anni o più, la discussione sulla prostituzione è stata dominata dai criminali e dagli sfruttatori che gestiscono il commercio sessuale, mascherati da benevoli imprenditori e protettori. Le femministe liberali di tutto il mondo sono state ingannate da una lobby industriale potente e ben finanziata, che impone la sua narrazione, occulta la violenza subita dalle donne e riduce la prostituzione a un lavoro come un altro allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso.

Come si possono contrastare, dunque, le lobby del sesso a pagamento e ridare voce alle vittime?

Fortunatamente un numero crescente di Paesi sta considerando il modello abolizionista. Le organizzazioni femministe guidate da sopravvissute al commercio sessuale, come Space International, affermano la verità dei fatti, al contrario degli sfruttatori e dei propagandisti: la prostituzione è violazione dei diritti umani. L’ascesa del movimento abolizionista farà sì che siano ascoltati e creduti coloro che hanno fatto parte del commercio sessuale e ne sono usciti, piuttosto che coloro che traggono profitto o comunque beneficiano della vendita di carne femminile.

Nel suo libro l’universo maschile rimane sottotraccia. Non pensa che a un certo punto diventerà indispensabile cercare l’alleanza con gli uomini per combattere la prostituzione?

Sì, gli uomini devono esprimersi contro il commercio sessuale e riconoscere che è una causa e una conseguenza dell’oppressione delle donne.


Pubblicato il

Julie Bindel presenta “Il mito Pretty Woman”

– VandA.ePublishing e Morellini Editore presentano Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione di Julie Bindel.

In un momento chiave della lotta contro l’abuso sulle donne, che ha visto nascere e affermarsi movimenti globali come il #metoo e molti altri, arriva in libreria grazie a VandAePublishing Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzioneil libro-inchiesta di Julie Bindel, giornalista inglese, scrittrice, attivista politica di fama mondiale e fondatrice dell’associazione “Justice for women”, che per prima ha realizzato un’indagine globale sulla prostituzione, raccogliendo dati e testimonianze in 40 paesi, città e stati fra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa.

Tradotto da Resistenza femminista, che da anni dà voce alle sopravvissute alla prostituzione lottando contro l’industria del commercio sessuale, il volume raccoglie 250 interviste che Julie Bindel ha realizzato visitando bordelli legali, conoscendo papponi, pornografi e sopravvissute alla prostituzione, incontrando femministe abolizioniste, attivisti pro-sex work, poliziotti, uomini di governo e uomini che “vanno a puttane”, con l’obiettivo di sfatare il falso mito del sex workla prostituzione non è un lavoro ma un abuso a pagamento.

Julie Bindel presenta in tutta Italia il suo nuovo libro-inchiesta:
– 4 marzo: Convegno presso il comune di Napoli (h 17)
– 5 marzo: Casa delle Letterature di Roma (h 17)
– 6 marzo: Lectio magistralis alla Fondazione Feltrinelli di Milano (h 18.30)
– 7 marzo: Campus Einaudi dell’Università di Torino (h 10)
– 8 marzo: Teatro degli Atti di Rimini (h 15)
– 9 marzo: Libreria delle Donne di Milano (h 18.30)


Il commercio internazionale del sesso è al centro di uno dei dibattiti più accesi a livello mondiale, e non solo fra le femministe e gli attivisti per i diritti umani. Per decenni la sinistra liberale ha oscillato fra il pro-sex work e l’abolizionismo. Ma oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, la “puttana felice”, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, l’unico modello legislativo che protegge i diritti umani delle persone prostituite.

Julie Bindel, giornalista britannica, rinomata per le sue inchieste, si è occupata di fondamentalismo religioso, violenza contro le donne, maternità surrogata, commercio di mogli ordinate su catalogo, tratta di esseri umani e delitti insoluti. Scrive regolarmente per The Guardian, NewStatesman, Truthdig, Standpoint Magazine, e collabora con la BBC e Sky News. È stata visiting journalist alla Brunel University London e ora fa parte del comitato di www.byline.com

 


Pubblicato il

Una strada senza ritorno: perché la legge Merlin va difesa


Ilaria Baldini, Chiara Carpita, Colette Esposito [Resistenza Femminista] – (27esima ora, 15 febbraio 2019)


– Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada.

Martedì 5 marzo 2019 la Corte Costituzionale terrà una pubblica udienza sulla questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari in merito alla costituzionalità della legge 20 febbraio 1958 n. 75 – la legge Merlin – laddove considera reato il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione anche nel caso in cui questa sia esercitata volontariamente e consapevolmente. Com’è noto, il giudizio incidentale di costituzionalità è stato sollecitato dalla difesa dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, imputato insieme ad altre tre persone per il reato di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.

La nostra associazione (Resistenza Femminista) insieme a Donne in Quota, Coordinamento Italiano della Lobby Europea delle Donne (Lef Italia), Iroko, Salute Donna, Udi Napoli, Differenza Donna, ha preso parte ad un’azione promossa da Rosanna Oliva di Rete per la Parità, quella di presentare un atto di intervento che l’avvocata Antonella Anselmo ha depositato presso la Corte Costituzionale e illustrerà all’udienza del 5 marzo.

La Legge Merlin, approvata dopo una lunga battaglia, ha rappresentato un enorme passo avanti nella tutela dei diritti umani e per la parità di genere, punendo coloro che lucravano sul sangue e le lacrime di tante donne delle “case chiuse” e liberando queste ultime dalla schiavitù dei registri. Un’eventuale decisione della Consulta in senso favorevole all’incostituzionalità della legge Merlin avrebbe delle ricadute di una gravità inaudita. Vediamo perché.

Il dibattito intellettuale che fa bene alle mafie

È ben noto e sotto gli occhi di tutti come l’Italia sia uno dei Paesi, in Europa, più interessati dalla tratta di essere umani, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale. Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada. Si tratta, come sappiamo da inchieste e ricerche, di mafie straniere che si giovano della connivenza e complicità dei nostri clan che pure hanno la loro parte di guadagni. Distinguere la prostituzione “volontaria” da quella che non lo è è ben arduo e stupisce la semplicità con cui nel dibattito politico se ne parla. Le ragazze vittime di tratta, se interrogate, spergiurano di essere lì per loro libera scelta, così come suggerito dai trafficanti. Ricordiamo a questo proposito le parole di Lydia Cacho, giornalista d’inchiesta messicana e attivista per i diritti umani: «Questo è uno dei presupposti fondamentali nel dibattito mondiale sulla prostituzione: c’è un determinato momento nel quale le donne dai diciotto anni in su scelgono “liberamente” di entrare, rimanere e vivere nell’ambito della prostituzione. Le mafie si alimentano e traggono persino motivo di divertimento dalla rendita che è loro offerta da questa discussione tra intellettuali e attivisti anti-prostituzione. La speculazione filosofica sul significato della libertà, della scelta e dell’istigazione è diventata parte integrante delle argomentazioni usate dalle reti di trafficanti. Ho avuto modo di ascoltare questi discorsi dalle loro stesse bocche».

Libera scelta. Davvero?

In sostanza, illudersi di poter operare questa distinzione tra libera scelta di prostituirsi e costrizione esporrebbe al rischio di favorire la prostituzione di persone forzate rendendo difficile punire gli sfruttatori. È sotto gli occhi di tutti come la regolamentazione della prostituzione in paesi come la Germania e la Nuova Zelanda, che hanno liberalizzato l’industria del sesso (ovvero eliminato il reato di favoreggiamento) con la motivazione di facciata di voler migliorare la condizione delle donne nella prostituzione e tutelare coloro che “scelgono liberamente” questa attività, abbia portato viceversa all’esplosione della tratta e al tempo stesso al suo occultamento (il 90% delle donne nei bordelli tedeschi sono straniere, soprattutto dell’Est Europa) abbia reso non perseguibili i tenutari nei cui bordelli sono state scoperte vittime di tratta, abbia trasformato quegli stessi proprietari di bordelli da papponi a rispettabili e potentissimi “manager”, abbia fatto diventare il paese un supermercato del sesso low-cost e meta di turismo sessuale, con grave arretramento nei rapporti tra i generi e con la normalizzazione della violenza sessuale .
Tutto questo è documentato da numerose ricerche accademiche e inchieste come quella fondamentale di Julie Bindel attivista femminista, giornalista e scrittrice, contenuta nel libro denuncia Il Mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione appena uscito per VandA.ePublishing. Bindel ha condotto 250 interviste in 40 paesi del mondo smascherando la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso il cui intento è proprio quello di ridurre la prostituzione a un “lavoro come un altro” occultando la violenza subita dalle donne allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il “diritto” dei compratori ad abusare dei corpi delle donne

Il denaro non cancella lo stupro

Inoltre, come ci raccontano le sopravvissute al mercato del sesso come Rachel Moran che hanno avuto il coraggio di denunciare l’industria e le violenze legalizzate subite dai clienti, quello della “libera scelta” non è soltanto un argomento pericoloso, ma anche semplicistico e scorretto. Ci sono infatti donne che senza essere vittime di tratta apparentemente hanno “scelto” in condizioni di povertà estrema o necessità oppure hanno alle spalle un passato di abusi infantili subiti che le ha rese vulnerabili e appetibile “merce” di sfruttamento per clienti e/o papponi. Per Moran e altre sopravvissute oggi attiviste, la prostituzione non è né sesso né lavoro, ma violenza sessuale: il denaro non cancella lo stupro ma anzi viene usato dal prostitutore per esercitare il suo potere e occultare l’abuso.

La legge in Francia: colpire la domanda

Il 1° febbraio scorso in Francia il Consiglio costituzionale ha sancito la costituzionalità della legge approvata il 13 aprile 2016 che ha introdotto la criminalizzazione dell’acquisto di sesso, la decriminalizzazione delle persone prostituite e la creazione di programmi di uscita e politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale e tratta. Si tratta di una decisione storica. Nell’appello indirizzato al Consiglio costituzionale #NabrogezPas firmato anche dalla nostra associazione, sopravvissute alla prostituzione e attiviste sottolineano come le prime vittime della prostituzione siano le donne e i minori appartenenti ad etnie e minoranze sociali, persone in situazioni di povertà, vittime di violenza sessuale nell’infanzia, la parte più vulnerabile della società che i clienti prostitutori sfruttano imponendo un atto sessuale grazie al proprio potere economico indifferenti sia all’età (sono moltissime le ragazze minorenni nel mercato del sesso) sia alla condizione socio-economica della persona che comprano.
Lo scopo della legge abolizionista francese è proprio quello di colpire la domanda dal momento che i soldi spesi dai prostitutori vanno ad alimentare la tratta e lo sfruttamento sessuale delle donne (in Francia le statistiche parlano di 80% di vittime di tratta). La prostituzione, ovvero la ripetizione di atti sessuali non desiderati, come dimostrano studi e testimonianze di donne prostituite, ha conseguenze fisiche e psicologiche analoghe alla violenza e alla tortura: sindrome da stress post-traumatico, depressione, suicidio, dissociazione traumatica .

«Libertà d’impresa»

Coloro che in Francia e in Italia hanno sollevato la questione della costituzionalità in nome di un concetto ultraliberista di “libertà di impresa”, equiparando la prostituzione ad un’attività commerciale come un’altra, negano totalmente questa complessità. È evidente, d’altra parte, che la libertà di chiunque di provvedere al proprio sostentamento tramite il percepire pagamenti in cambio di atti sessuali non viene negata e tantomeno punita dalla legge Merlin né da quella francese (né dovrebbe mai esserlo, visto che per le donne nella nostra società questa costituisce spesso l’unica “scelta” rispetto al morire di fame), dunque di cosa esattamente stiamo parlando quando parliamo di presunta incostituzionalità? Stiamo parlando della possibilità di “aiutare” le donne a prostituirsi meglio, a trovare più occasioni di “facile guadagno”, come se le occasioni mancassero, come se il guadagno fosse facile e soprattutto come se gli aiutanti valorosi fossero dei benefattori disinteressati.

Lina e l’articolo 3 della Costituzione

Nella nostra Costituzione l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41). La prostituzione vìola palesemente tutte le caratteristiche del lavoro e dell’impresa così come regolate nei nostri principi costituzionali. Lina Merlin, partigiana e madre costituente, è colei che ha promosso l’inserimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione dell’espressione «senza distinzioni di sesso», il Principio Fondamentale dell’uguaglianza delle cittadine e dei cittadini. Sarebbe proprio questo principio fondamentale ad essere messo in discussione qualora venisse eliminato il reato di favoreggiamento. L’inferiorità delle cittadine italiane in termini di diritti umani sarebbe sancita per legge.

Il Consiglio Costituzionale francese, come ha spiegato l’avvocata Lorraine Questiaux ha riconosciuto che «il principio di dignità è oggettivo e non soggettivo. Rinunciare ai propri diritti fondamentali non è libertà: essi sono inalienabili e universali» . Ci auguriamo una decisione simile anche da parte dei giudici italiani.


Pubblicato il

Il mito di Pretty Woman, la puttana felice


di Ida Paola Sozzani (LaCittàFutura, 13 gennaio 2019)


– Esce nelle librerie italiane il prossimo 15 Gennaio 2019 l’ultimo dossier-inchiesta sulla prostituzione realizzato dalla giornalista inglese Julie Bindel, nell’appassionata traduzione realizzata dalle attiviste italiane di Resistenza Femminista, pubblicata da Vanda-Morellini editore.

MILANO. Le moderne abolizioniste della prostituzione rivendicano la loro genealogia da Josephine Butler, che fu antesignana del femminismo e riformatrice sociale e figlia di John Grey, un avvocato antischiavista, e moglie di George Butler, accademico progressista. Nell’Inghilterra vittoriana rigidamente classista del 1860, dove le donne non avevano ancora il diritto di voto, la Butler fu la prima a denunciare l’abuso che le donne e in particolare le bambine delle classi sociali disagiate subivano nella prostituzione, denunciando le contraddizioni borghesi insite nella società Vittoriana che relegava le donne povere a inutile feccia sociale sfruttabile dai maschi e dai papponi. Josephine Butler fu tra quelli che forzarono il Parlamento inglese ad aumentare l’età del consenso matrimoniale delle ragazze dai 13 ai 16 anni, impedendo di fatto i matrimoni delle bambine.

A partire dal 1869 la Butler si impegnò per l’abrogazione del Contagious Diseases Act, una legge brutale che stigmatizzava le donne come causa del diffondersi delle malattie veneree in particolare fra i soldati e autorizzava ronde poliziesche nelle città militari allo scopo di imporre controlli sanitari e ricoveri coatti alle donne, contravvenendo così di fatto al principio giuridico dell’ “Habeas corpus”, sancito in Inghilterra fin dal 1679 con l’Habeas Corpus Act a tutela della sicurezza e inviolabilità di ogni persona.

La Butler non fu certo una moralista cristiana o una sessuofoba – come venne denigrata – né una salvatrice paternalistica delle donne, bensì una progressista convinta che la prostituzione violasse i diritti umani delle donne e mise per la prima volta in discussione il diritto degli uomini ad avere accesso garantito e indiscriminato al corpo di donne e minori finiti vittime della prostituzione.

Ne “Il mito Pretty Woman” – che nell’edizione originale in Inglese reca il titolo “The Pimping of Prostitution” – lo sfruttamento della prostituzione – l’autrice e giornalista britannica Julie Bindel sfata il mito della “Puttana Felice”, quella Pretty Woman che Cinema e Media ci hanno rivenduto dagli anni Ottanta, quando le potenti lobby pro-prostituzione dagli USA sono riuscite a far passare la narrazione tossica che nella prostituzione la donna eserciti la propria libertà e autodeterminazione sessuale o addirittura una scelta di lavoro. Bindel ci offre una panoramica della realtà della prostituzione oggi a livello mondiale, a fronte di una ricerca condotta personalmente in 40 diversi Paesi, città e Stati, dove ha incontrato e intervistato 250 persone coinvolte a vario ruolo nel problema: attivisti o sedicenti tali per i diritti delle “sex workers”, papponi, compratori di sesso, prostitute in attività e fuoriuscite dalla prostituzione, donne e uomini vittime di tratta, tenutari di bordelli e sfruttatori-affaristi che reinvestono i profitti milionari nelle grandi catene dei bordelli, attivisti contro l’AIDS foraggiati dal governo, giornalisti di varia nazionalità, lesbiche, gay, associazioni di bisessuali e transgender, agenti di polizia e femministe.

Julie Bindel negli ultimi anni ha visitato bordelli legali e regolamentati in Nevada negli USA, Australia, Germania e Olanda e zone “gestite” come a Zurigo, Amburgo o Leeds in Gran Bretagna, e si è recata nel poverissimo Downtown East Side di Vancouver dove centinaia di donne e ragazze native pellirosse vengono prostituite e uccise. Nel Gujarat indiano ha visitato un villaggio che sussiste grazie alla prostituzione di madri, mogli, sorelle e zie, a Istanbul è riuscita a intervistare uomini turchi in fila davanti a un bordello legale, mentre in Cambogia ha conosciuto le prostitute che vivono lungo una linea ferroviaria dismessa a Phnom Penh senza acqua e servizi igienici e su cui la Ong WNU lucra finanziamenti governativi presentando quelle sventurate come “Attiviste per i diritti delle sex workers”.

Nel suo libro Julie Bindel ripercorre la storia del movimento abolizionista contemporaneo, dai suoi esordi con il movimento internazionale WHISPER (Donne in rivolta che hanno subito violenza nel sistema prostituente), fondato nel 1985 negli USA da Evelina Giobbe e che riuniva donne sopravvissute e fuoriuscite dal sistema prostituente, per giungere fino all’attuale SPACE International (Attiviste internazionali provenienti da nove Paesi sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica).

Evelina Giobbe fu la prima trent’anni fa a evidenziare le analogie esistenti nelle moderne società patriarcali occidentali tra l’atteggiamento tenuto dalla Destra e dalla Sinistra relativamente al diritto di accesso del maschio nei confronti del corpo femminile: entrambi gli schieramenti sono interessati a controllare e di conseguenza regolamentare sociologicamente e quindi politicamente l’accesso ai corpi delle donne. La destra lo fa attraverso l’istituto del matrimonio e la sua tutela, la sinistra attraverso le “deroghe” libertarie della prostituzione e della pornografia. “Insomma – ha confidato ancora recentemente Giobbe alla Bindel – puoi sposare oppure comprare questa cosa, e noi siamo questa cosa”.

Mettendone in luce le contraddizioni, in parallelo, nel libro Julie Bindel tratteggia anche lo sviluppo nel mondo anglosassone e americano della potente lobby pro-prostituzione, ai suoi esordi incarnato dal gruppo liberista COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics cioè “Basta con la vostra vecchia morale!”) fondato nel 1973 negli USA da Margo St. James; era stato preceduto da WHO (Whores, House Wives and Others – Puttane, Casalinghe e Altro). St. James era finanziata dalla Fondazione Point, legata alla Chiesa metodista Glide Memorial di San Francisco e ricevette mille dollari dalla Fondazione Playboy. Margo St. James radunò cinquanta personalità di spicco nel comitato consultivo di COYOTE e incaricò alcune prostitute di condurre una campagna per la decriminalizzazione. Nel gruppo operarono donne che si spacciavano come “la voce delle prostitute” – senza però mai essere state nella prostituzione, bensì spesso nello sfruttamento di altre donne – affiancate da uomini anche importanti e potenti che ne sostenevano l’agenda politica e il concetto che la prostituzione fosse un lavoro come un altro: si trattava di politici, studenti, guru di associazioni e compratori di sesso che sdoganavano il marketing di questo abuso sessuale “vecchio come il mondo” rivisitandolo e riproponendolo in una forma socialmente accettabile costruita sul mito della “puttana felice” e della “puttana per scelta” o, paradossalmente, secondo i desiderata femministi più aggiornati dell’empowerment e della autodeterminazione della donna.

Xaviera Hollander pubblicò insieme a Robin Moore nel 1971 il best seller “The happy hooker” – La puttana felice – da cui furono tratti un film e una commedia musicale: grazie a questa sua finta biografia – ammise di essersi prostituita solo per sei mesi – riuscì a rendere popolare l’idea che la prostituzione sia un’attività piacevole. In Gran Bretagna Helen Buckingham, una ragazza squillo d’alto bordo, si promosse portavoce delle donne britanniche nel mercato del sesso. Fondò il gruppo PUSSI (Prostitutes United for Social and Sexual Integration – Prostitute unite per l’integrazione sociale e sessuale) che in seguito divenne PLAN (Prostitution Laws Are Nonsense – Le leggi sulla prostituzione sono una assurdità) e si alleò con Selma James, fondatrice della Campagna per il salario alle casalinghe, che chiedeva soldi allo stato per il lavoro non riconosciuto delle donne in casa. Insieme nel 1975 fondarono l’ECP (collettivo inglese delle prostitute).

Così, risciacquando il linguaggio e sostituendo ipocritamente le parole tradizionali cariche di stigma della prostituzione con altre socialmente accettabili e politically correcti termini sex work e sex workers – lavoro sessuale e lavoratori del sesso – sono diventati nell’arco di un ventennio la parola d’ordine di una lobby fatta di accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort (come Douglas Fox dell’International Union of sex Workers), giornalisti e manager coinvolti nel mercato pornografico e di acquirenti del sesso – una lobby ben finanziata negli USA che è riuscita anche ad accaparrarsi gli abbondanti fondi governativi per la lotta all’AIDS – con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e il suo mercato globale, trasformando dopo la mafia anche i comuni papponi in manager abili nel gestire il diritto degli uomini di abusare impuniti del corpo delle donne.

WHISPER ha rappresentato una sfida diretta all’idea che la prostituzione fosse o una libera scelta o un lavoro come gli altri e sul suo modello sono nati altri gruppi abolizionisti e anti-tratta: nel 1988 è sorta la Coalition Against Trafficking in Women che si è diffusa nelle Filippine, Bangladesh, Indonesia, Thailandia, Venezuela, Portorico, Cile, Canada, Norvegia e Grecia. Erano gli anni in cui il Turismo sessuale in quei Paesi stava diventando molto popolare.

Secondo Evelina Giobbe per mettere fine alla prostituzione e fermare gli uomini che la alimentano – i puttanieri – le donne comuni devono avere il coraggio di guardare in faccia gli uomini che hanno davanti tutti i giorni: i loro uomini. Ma le donne questo gesto che potrebbe destabilizzarle non lo vogliono fare, perciò preferiscono fare un passo indietro e continuare a credere che la prostituzione sia una libera scelta, altrimenti dovrebbero convincersi che i loro uomini sono dei perversi e degli stupratori. Norma Hotaling, sopravvissuta all’abuso sessuale infantile e alla prostituzione di strada, sopportata solo al costo di diventare eroinomane, dopo essersi disintossicata ha fondato SAGE (Standing Against Global Exploitation – Prendiamo posizione contro lo sfruttamento globale) per aiutare altre tossicodipendenti finite nella prostituzione e vittime di violenza.

Nel 1996 nella popolosa città di St. Paul nel Minnesota la sopravvissuta dal mercato del sesso Vednita Carter fonda Breaking Free, associazione che offre sostegno specifico, counseling e corsi di formazione e programmi di uscita per vittime di prostituzione. La maggioranza delle donne che si rivolgono a Breaking Free sono afro-americane, la categoria a maggior rischio di sfruttamento sessuale nel Nord America. Vednita è convinta che i servizi offerti vadano modulati per le donne a seconda dello stadio del loro processo di uscita dalla prostituzione: “Voglio che le donne sappiano che hanno un posto dove andare e che non saranno cacciate solo perché non sono pronte a uscire subito dalla prostituzione; può essere un processo lungo e complicato e se scoraggiamo queste ragazze giudicandole perché non stanno passando a un’altra vita, le perdiamo. Sono talmente emarginate e spesso viste come quelle che “scelgono” quella vita, perché davvero tanta gente bianca le vede in questo modo, invece di vedere l’assenza di alternative per loro”.

Poiché le varie Chiese possono contare su una stabile disponibilità economica, in molti Paesi stanno prevalendo i servizi di assistenza alle donne vittime di tratta e prostituzione gestiti da organizzazioni religiose, che agiscono ottimamente ed eticamente senza obbligo per le donne di diventare religiose praticanti prima di uscire dalla prostituzione, o di diventare religiose perché hanno beneficiato di questi servizi. Ma i programmi di fuoriuscita offerti da gruppi e associazioni femministe abolizioniste si avvantaggiano della fondamentale esperienza delle sopravvissute che collaborano con attiviste, psicologhe, giuriste e mediche esperte sulle cause e le conseguenze della violenza maschile sulle donne. Anche Rae Story, fuoriuscita dalla prostituzione nel 2015 e attivista femminista socialista conferma che “Oggi le necessità prioritarie sono case di accoglienza temporanea, counseling gratuito, assegni statali, servizi di welfare e disabilità per quelle di noi che soffrono di sindrome postraumatica da stress e problemi mentali come risultato della prostituzione”.

Fra le attiviste abolizioniste più attive negli ultimi anni si segnala Rachel Moran, di cui è stato recentemente pubblicato il libro “Stupro a pagamento, la verità sulla prostituzione – nella traduzione di Resistenza Femminista Round Robin Editrice 2017”. Rachel Moran, finita nella prostituzione di strada e poi al chiuso nei bordelli e centri massaggi irlandesi dai 15 ai 22 anni è la sopravvissuta fondatrice di Space International (Survivors of Prostitution-Abuse Calling for Enlightenment – Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica). Dal 2002, nei suoi viaggi in oltre 20 nazioni e in diverse sedi internazionali, incluso il Parlamento Italiano, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite e la Harvard University di Boston, Rachel ha portato la sua testimonianza spiegando che la prostituzione non è “né sesso, né lavoro” e il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede, cioè che si tratta di uno stupro a pagamento, reiterato, traumatico e devastante per la donna prostituita e costantemente “rimosso” nella percezione della maggior parte delle persone comuni perché ipocritamente ignorato, negato e normalizzato anche nella nostra società patriarcale capitalista.

Il sesso infatti esiste solo nella reciprocità del desiderio, mentre la prostituzione è soltanto una compensazione per un abuso sessuale che si è costrette a subire per sopravvivere e non si può in nessun modo parlare di lavoro in quanto la prostituzione è sostitutiva del lavoro, costituendo per migliaia di donne e bambine nel mondo il tentativo di avere una forma residuale ed estrema di sostentamento economico, quando il lavoro non c’è. Si smetta dunque consapevolmente di usare il termine “sex work” che fu inventato nei primi anni Ottanta da Carol Leigh, e adottato dall’industria del sesso di San Francisco nel periodo in cui dilagava l’AIDS per normalizzare e sanitarizzare la prostituzione, ma che soprattutto dopo la diffusione del fenomeno della Tratta si è rivelato per quello che è: un trucco linguistico “politically correct” – denunciato anche dall’icona femminista Kate Millet – che copre e occulta una situazione orribileun linguaggio che normalizza invece che opporsi alla violazione dei diritti umani e alle forme nuove di neocolonialismo funzionali alle società occidentali sviluppate sulla asimmetria e diseguaglianza di potere fra uomo e donna nella domanda di sesso.

Rachel Moran si batte insieme alle ormai numerose attiviste della rete abolizionista mondiale anche in CATW –coalizione contro la tratta delle donne e la European Women’s Lobby perché gli Stati adottino il Modello nordico nella legislazione e combattano il fenomeno della tratta delle donne e delle ragazze dai paesi economicamente svantaggiati verso quelli sviluppati dell’occidente capitalista per impedirne il loro sfruttamento sessuale.

In particolare sono convinte della necessità dell’adozione del modello legislativo nordico le femministe radicali che si ispirano al pensiero della statunitense Andrea Dworkin e della belga Luce Irigaray e in Italia alle pensatrici della seconda ondata del femminismo – quello detto “della differenza” che a partire da Carla Lonzi si esprime negli anni Settanta con personalità come Luisa Muraro, filosofa, linguista, docente e femminista, fondatrice insieme ad Adriana Cavarero e altre della comunità filosofica Diotima, oltreché animatrice a Milano negli anni Settanta insieme a Lia Cigarini, Elvio Fachinelli, Lea Melandri e altri di fondamentali esperienze di didattica antiautoritaria e dell’esperienza intellettuale della “Libreria delle donne”.

In questo continuo passaggio di testimone interno al Femminismo, anche le femministe radicali italiane di fronte al dilagare della Tratta ritengono sia giunto il momento di andare oltre la legge Merlin del 1958 per abbracciare, all’interno di una società capitalista, il Modello legislativo nordico, convinte sia la giusta strategia per contrastare qualsiasi mercato costruito sulla vulnerabilità, lo sfruttamento e la disperazione di un essere umano e sostenere le persone, in gran parte donne, ridotte a vendere l’accesso al proprio sesso, penalizzando invece la domanda maschile e gli sfruttatori. Lina Merlin si rifiutò sempre di definire la prostituzione un lavoro come un altro e con la legge a lei intitolata ha liberato le donne che venivano schedate, rinchiuse nei bordelli e bollate con infamia per l’abuso compiuto su di loro dagli uomini.

Il modello nordico neo-abolizionista

Radicato nella cultura dei diritti umani di matrice scandinava, il Modello nordico si prefigge di frenare la domanda di prostituzione e di promuovere l’uguaglianza delle donne e degli uomini. La logica alla sua base è che la prostituzione è una forma di violenza e dunque il cliente pagando per il sesso commette un crimine. Nel modello nordico si ritiene che la donna che vende sesso a fronte di una compensazione economica resti comunque un partner sfruttato nello scambio e quindi la prostituta in questo sistema non viene perseguita, mentre viene perseguito il cliente che pratica l’adescamento ai fini della compravendita sessuale, oltre che ovviamente chi favoreggia e sfrutta la prostituzione. Questa legislazione – il cosiddetto Sexköpslagen – è stata adottata per la prima volta al mondo in Svezia nel 1999 ed è integrata con politiche sociali che favoriscono la fuoriuscita delle donne dalla prostituzione.

In un’ottica progressista il Modello nordico si è diffuso nel mondo e finora è stato adottato anche da Norvegia, Islanda, Irlanda e Irlanda del nord, Corea del Sud, Canada, Francia. I governi di Israele, Lettonia e Lituania lo stanno valutando e nel 2014 il Parlamento Europeo e l’Assemblea del Consiglio d’Europa hanno approvato una Raccomandazione per implementare questo modello come il più utile per affrontare la prostituzione in Europa.

Il Modello Nordico è sorto dalla consapevolezza del fallimento del modello di “regolamentazione” della prostituzione legale sperimentato da socialdemocratici e verdi in Germania dal 2002 e poi in Olanda: qui la prostituzione legale al chiuso, negli auspici dei socialdemocratici si sarebbe dovuta trasformare in un lavoro come gli altri, con un capo, un contratto di lavoro e un sindacato e avrebbe dovuto svolgersi fuori dalle strade, lontano dagli sguardi dei benpensanti e dei bambini. Nella realtà la prostituzione nel cuore dell’Europa e in Svizzera (dove si possono prostituire anche le ragazze dai 16 anni) è diventata un mega business sotto la supervisione dello Stato in città come Amburgo o Stoccarda o Zurigo e un’enorme possibilità di sfruttamento economico per i tenutari di catene di bordelli – che percepiscono per ogni prostituta almeno 140-160 euro al giorno e alimentano un turismo maschile sessuale europeo dell’ordine di milioni di uomini – e una grande occasione per la rendita immobiliare dei proprietari di case, ma non è invece diventata un lavoro normale per le prostitute che continuano ad aumentare di numero.

Le donne in prostituzione nei Paesi dove essa è “regolamentata” sono diventate ancor più socialmente invisibili e stigmatizzate, povere e intrappolate in un sistema infernale. Lo evidenziava già nel gennaio 2007 il rapporto ufficiale sull’impatto della nuova legislazione pubblicato dal governo tedesco, oltre ad alcuni articoli apparsi nel 2012 sul quotidiano tedesco Der Spiegel nel decennale di entrata in vigore della legge. Anche Eurostat in un rapporto del 2013basato su dati ufficiali evidenziava come la condizione delle donne coinvolte nella prostituzione non era affatto migliorata con una legge che ne regolamentava la pratica.

A fronte di una popolazione di 80 milioni di abitanti, oggi in Germania ci sono 400.000 donne nella prostituzione e si stima che 1.200.000 uomini acquistino sesso ogni giorno. Ciononostante, l’impostazione legislativa in Germania e Paesi Bassi non è ancora stata modificata. La verità è anche che solo una minoranza di donne in prostituzione in Germania sono tedesche, mentre la maggioranza è affluita qui da tutta Europa dopo la caduta del Muro di Berlino soprattutto dai Paesi poveri dell’Est europeo come Ucraina, Moldavia, Romania, e più recentemente dai Paesi africani e asiatici di provenienza della Tratta. Sono ragazze, anche minorenni, in gran parte analfabete che devono mantenere tutta la famiglia; molte anche le Rom e le ragazze-madri, che esercitano mentre i figli crescono in braccio ai papponi. Tutte sono strangolate economicamente, ridotte a schiave e costrette a rimanere in una catena di sfruttamento legalizzata in cui anche lo Stato pretenderebbe la sua fetta di guadagno. Ma nella realtà neanche lo Stato ci ha guadagnato, dal momento che solo una minoranza ridicola, 44 (di cui due uomini) su 400.000 si sono di fatto iscritte e “regolarizzate” negli elenchi delle Camere di Commercio per pagare le tasse in regime forfettario.

Come ha raccontato una sopravvissuta italo-tedesca in un’intervista raccolta da Marina Terragni per Il Corriere della Sera “L’idea un po’ romantica e ingenua che gli uomini vadano a prostitute per farsi una scopata e via, va dimenticata. Una scopata se la possono fare con chiunque. Mica è “Pretty Woman”: vengono da te per ben altro. Vedono il porno (in TV e nel Web ndr.), ti chiedono di indossare falli artificiali, di travestirsi con parrucca o intimo femminile. Ci sono i feticisti, i coprofagi. Vanno molto i giochi con l’urina. Dall’anal sex alla zoofilia, un repertorio sterminato. Sono sporchi, maleodoranti, spesso ubriachi e strafatti. Pagano il diritto di scatenare quello che hanno dentro, e tu sei solo una latrina, né più né meno. Devi tacere, fare e lasciare fare, e saper fingere piacere. Ti pagano, e pretendono anche che tu sia soddisfatta delle loro prestazioni.

Qual è il senso profondo dell’andare a prostitute?Non si tratta di sesso. In questione c’è ben altro. È un mix tra il potere che ti dà il fatto di pagare e il piacere di umiliarti. Il tutto veicolato da una violenza di base. Hai a che fare con qualcosa di guasto. Una specie di camera di compensazione. L’uomo si sveste per un’ora o due dei ruoli che deve sostenere e si concede di manifestare una parte di sé che normalmente devo tenere compressa e nascosta, un suo doppio impresentabile.

Renate Van der Zee, giornalista olandese che non era abolizionista, ma si occupava di violenza sulle donne, nel 2013 ha pubblicato un nuovo studio critico dal titolo tradotto “La verità dietro il quartiere a luci rosse” e nel 2015 una indagine sulla domanda di prostituzione dal titolo “Uomini che comprano sesso”. In Nuova Zelanda la violenza sulle prostitute è aumentata ulteriormente dopo l’adozione del Prostitution Reform Act del 2003, il modello della de-criminalizzazione totale: la prostituzione, come il suo sfruttamento, favoreggiamento, reclutamento o induzione e organizzazione sono stati tutti legalizzati e dunque “normalizzati”. Le attività si svolgono in tutta comodità al chiuso, con controlli sanitari esigui e lasciati alla discrezione di ufficiali sanitari che si sono rivelati spesso inadempienti perché anche loro non sanzionabili e qualsiasi comportamento dei clienti e degli sfruttatori delle ragazze è accettato e normalizzato. Il potere dei papponi è ormai fuori controllo: sono loro a stabilire prezzi e prestazioni, sono loro che nascondendosi dietro la maschera perbenista dell’uomo di affari gestiscono la Tratta delle donne e delle bambine in un regime di totale impunità. A causa della decriminalizzazione anche la polizia non ha più l’obbligo di indagare. Il mercato del sesso nella sua versione più spietatamente neoliberista usa i corpi delle donne sottoponendole a ogni genere di violenza.