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“A proposito di Elena”, Giuseppina Norcia

Fascino. Tradimento. Guerra. “Una guerra per una donna!”. Sono questi i primi pensieri che suscita Elena di Sparta quando il suo Mito viene evocato.

Lei è la donna dalla bellezza “imperdonabile”, desiderata (e temuta) dagli uomini, disprezzata dalle donne quando, “vestali del patriarcato” la additano come causa del Conflitto e strumento di perdizione, in quel gioco di specchi che strategicamente devia l’attenzione dai soggetti all’oggetto del desiderio.



Così, ripercorrendo la Sua storia con uno sguardo rinnovato emergono altre verità, temi antichissimi e urgenti nel nostro presente. L’uso e abuso del corpo delle donne, la fabbrica della propaganda bellica, la bellezza da possedere a tutti i costi o asservire al Potere come strumento di seduzione.

C’è un’ Elena-Lolita rapita da Teseo che vuole “conoscerla tutta”, a soli dodici anni… In quegli istanti sento ancora la mascella di Teseo costringere la mia, il cigolio del carro in fuga lungo strade di polvere, il letto in cui il mio cuore corse per la prima volta incontro all’ombra.

C’è un’’Elena assediata chiusa nella rocca, non così diversa da Briseide, la ragazza su cui si scatena la contesa tra Achille e Agamennone, o dalle Troiane che saranno deportate dai vincitori. Donne ridotte ad essere «il premio più ambito, che suggella lo status nella gerarchia dei guerrieri, belle da esibire, esaltanti da possedere, con quei corpi da espugnare come fossero città. Così il sesso diviene un’espansione del potere e della guerra.»

C’è un’Elena che “merita” di essere molestata perché in fondo le piace: Dimmi, presa la giovane [Elena], non ve la siete ripassata a turno, visto che a lei piace avere tanti amanti? dicono a Odisseo i Satiri che, nel Ciclope di Euripide, sono al servizio di Polifemo nel suo antro, «mettendo in scena la fantasia punitiva e dominatrice del branco verso la donna accusata d’essere di facili costumi. Di essersela cercata».

Afrodite può portare molti doni o trasformarsi in una presenza oscura, quando la donna è costretta a “offrire” l’accesso al proprio corpo. Accade nel III libro dell’Iliade, dove la presunta femme fatale portatrice di guerra è, o almeno è anche, una donna costretta a concedersi a Paride da una “dea maîtresse” che minaccia di punirla; accade alle donne costrette a vendersi in quello stupro a pagamento che, per la violenza ad esso connaturata, smentisce la definizione di sex workers.

Eppure, nelle pieghe del Mito esiste un’altra Elena, una donna “divina” e potente, in grado di rigenerarsi e proteggere, creatura legata alle forze originarie della Vita e a quel tempio d’alberi che è la Natura. È questo il momento di richiamarla, questa Elena in esilio da troppo tempo e viva dentro ognuna, dentro ognuno di noi. È tempo, finalmente, di “guardarla”. 
«Come un uovo si dischiude il mio ventre gravido di nuove parole… “contemplazione, dignità, amore”.
Ascoltate, come un vento, la mia voce. Sono luna, albero, sorgente.
Deponete al suolo le armi. Ascoltate. Li sentite i battiti?
È la Vita che rinasce.»

Leggine un estratto…

Giovane donna E l’hai più vista?

Donna Chi?

Giovane donna Elena.

Donna Da molto tempo nessuno la vede più. Scomparsa. Si dice persino che non sia mai esistita.

Giovane donna La amavano tutti.

Donna Amavano?

Giovane donna Ognuno di loro l’avrebbe desiderata per sé, così andarono a prendersela.

Donna Povera Elena, non la invidio. 

Giovane donna E perché mai? La bellezza è un dono, la tratti come fosse una malattia!

Donna Furono tutti fin troppo pronti ad impugnare lance e scudi per lei, contro di lei. 

Giovane donna Qualcuno ti ha mai detto come era fatta?

Donna Nessuno lo sa, perché nessuno l’ha mai guardata: bisognava adorarla come una dea o possederla come una femmina. 

Credi ancora che la amassero? 

Giovane donna Fino ad esserne terrorizzati…

…Lei appare sempre con un fruscio di vesti leggere e una luminescenza che irretisce.

Gli occhi le si posano addosso, rapiti. Allora, il tempo si ferma sull’orlo dell’abisso e sbiadisce la memoria di ciò che era stato – tangibile, reale – fino a un istante prima. 

È la donna dalla bellezza insostenibile, eppure non è mai descritta.

Non sappiamo se i suoi capelli siano lisci come la seta o indomabili e crespi, del colore del grano o scuri come la notte.

Ditemi, ha qualcosa che la rende unica, qualche amabile imperfezione? Un neo sul labbro, una lieve fessura tra i denti? Come cammina Elena? Ama muovere le mani al ritmo delle sue parole? Nessuno lo sa. 

Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla ma non l’abbiamo mai guardata. È questo il suo paradosso, o forse l’indizio che ci lascia, agli albori di un viaggio nel suo mondo misterioso.

Di lei si conosce, però, l’effetto che ha sugli altri.

Incantamento. L’indicibile desiderio di possederla per sempre. Il piacere frammisto a un terribile senso di libertà. La paura, anche. 

Lei è la grande disvelatrice, lo specchio dei desideri, ma gli esseri umani non sono sempre all’altezza della verità. Come muri mal costruiti, si sfarinano al suo incedere gli intonaci dei vincoli prestabiliti, delle convenzioni sociali, delle apparenze.

Bisogna tenerla lontana. Così, sulle mura di Troia i vecchi la guardano e parlano stridendo come cicale sugli alberi, con voce sottile: “Somiglia alle immortali terribilmente”, dicono. “E se è così bella è meglio che se ne vada”.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: “A proposito di Elena” di Giuseppina Norcia

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Le difensore dei diritti delle donne incarcerate da due anni – Michela Fontana

Michela Fontana

28 maggio 2020

Sono passati poco più di due anni da quando, il 15 maggio 2018, tredici attiviste saudite sono state incarcerate per le loro pacifiche lotte per il diritto alla guida dell’automobile (concesso dal re alle donne nel giugno successivo) e per la modifica della norma sul guardiano, che in Arabia Saudita ha potere assoluto sulla donna di cui è tutore.  Cinque di loro sono ancora in carcere , mentre otto sono state liberate, pur rimanendo tutte  in attesa di processo. Alcune di loro sono state torturate e sottoposte ad abusi. Lo ricorda un comunicato di Amnesty International  del 15 maggio scorso, dove l’organizzazione per i diritti umani chiede la scarcerazione delle attiviste e degli altri attivisti  che sono stati imprigionati nello stesso periodo. 

Durante la mia permanenza in Arabia Saudita, dal 2010 al 2013 ho  incontrato e intervistato tre delle attiviste incarcerate,  Eman al- Nafjan,  Aziza al- Yousef, Hatoon al-Fassi. Racconto le loro storie insieme a quelle di molte altre donne di diverse  estrazioni sociali ed esperienze di vita, nel mio libro Nonostante il velo ( VandA epubishing-Morellini ), premio Femminile Plurale di Allumiere 2018, attualmente in libreria nella versione riveduta.

Le loro testimonianze appassionate, a volte sconvolgenti,  fanno luce dall’interno su una società come quella saudita che considera le donne proprietà degli uomini e le priva di molti diritti elementari. Eman al-Nafjan è stata mia amica, preziosa  testimone  e compagna di viaggio  durante la nostra spedizione nella parte più conservatrice del paese dove anch’io dovevo girare con il viso interamente coperto. Poco dopo la mia partenza nel 2013, due delle donne che ho intervistato Roua e Omaima, sono fuggite dal paese, la prima ha trovato asilo politico in Canada la seconda in Italia,  che ha lasciato da poco per l’Irlanda.

Anche se a partire  dal 2018, l’erede al trono Muhammed Bin Salman, ha alleggerito alcuni divieti sociali, limitando tra l’altro  il potere della polizia religiosa  e ha concesso alle donne alcune libertà prima impensabili, come la possibilità di andare allo stadio con la famiglia e di viaggiare  senza il permesso del guardiano, l’Arabia Saudita rimane uno stato di polizia dove gli attivisti rischiano l’incarcerazione a vita o  la stessa vita, come il giornalista Jamal Khashoggi, barbaramente assassinato nel consolato saudita a Istanbul nel 2018. La strada per una vera emancipazione delle donne è ancora lunga e difficile.

Acquistate “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita” di Michela Fontana qui.
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Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, di Aph Ko e Syl Ko

“Dimenticate ciò che pensate di sapere sul femminismo nero, l’antirazzismo e la liberazione animale. Venite a intraprendere il viaggio insieme a queste due sorelle rivoluzionarie per cambiare il futuro del femminismo, della giustizia razziale, dell’etica e del veganismo”.

Cit. A. Breeze Harper

Nato dal lavoro sul web di due sorelle, “Afro-ismo” è un libro che mette a tema e intreccia animalità, animalizzazione, razzismo e supremazia bianca. 

Le autrici,  Aph e Syl Ko, mescolano gli elementi provenienti dalla cultura pop come i video, i blog e i social network e i concetti degli animal studies, degli studi critici sulla razza, sui neri e sul femminismo con l’intento di mostrare come sia necessario decostruire la relazione che gli umani impostano con gli animali e di come ciò sia un passo fondamentale per iniziare a mettere in discussione tutto ciò che crediamo dato e immaginare nuove vie.

Leggine un estratto…

“Avete mai incontrato qualcuno che mangia carne e vi bombarda
con innumerevoli domande basate su situazioni improbabili
solo per aver messo in discussione le sue abitudini alimentari?
Questa persona solitamente afferma: “Ma cosa faremmo
di tutti gli animali negli allevamenti se questi ultimi
non esistessero più? Dovremmo liberarli tutti in una volta?
Non sarebbe un problema?”. Oppure, avete mai parlato con
qualcuno della fine del sistema carcerario, e questa persona a
un certo punto dice: “Se dovessimo chiudere le prigioni, che
dovremmo fare con tutti i prigionieri, lasciarli semplicemente
uscire?”. Benché queste domande siano frustranti e a volte
prevedibili, mostrano fino a che punto le persone siano colonizzate
dal sistema vigente, tanto da non riuscire nemmeno a
immaginare nuove possibilità. Non sono in grado di figurarsi
un sistema diverso da quello che è stato loro imposto.
Trovarsi in un contesto nuovo e caotico fa parte dell’attivismo,
ed è ciò che ci permette di varcare la soglia di un territorio
concettuale inedito. Quando si abbandonano le più banali
convinzioni, può succedere di non sapere esattamente cosa
fare, ed è questa la situazione in cui dovrebbero trovarsi
molti più attivisti. La confusione è di solito un sintomo della
decolonizzazione del sé dal sistema vigente. Le risposte non ti
vengono semplicemente offerte, dal momento che d’ora in poi
sei costretto a pensare in maniera critica. Devi creare nuovi

schemi e immaginare nuovi modi di interagire con le persone
e di fare le cose. Spesso le persone colonizzate dal sistema contemporaneo
pongono le domande in modo paternalistico,
perché non vogliono che i cambiamenti avvengano, dal momento
che la maggior parte delle persone vive all’interno della
propria comfort zone. Il cambiamento è una minaccia.
Ricordo che una volta dissi a un professore sessista della
mia università che ero femminista. Avevamo appena terminato
una riunione e stavamo uscendo dall’edificio. Mentre camminavamo
verso l’uscita, mi chiese: “So che sei femminista e
non voglio offenderti, posso aprirti la porta? Consenti agli
uomini che ti aprano la porta o ti offendi?”.
Ovviamente, me lo stava chiedendo in tono paternalistico
per deridere le mie convinzioni politiche. Tuttavia, le sue domande
mi hanno fatto capire come fosse lui quello ansioso,
perché non voleva affrontare la sua confusione sulle interazioni
di genere. Era lui a essere ansioso e a non saper cosa fare
quando si trattava di aprire la porta, non io. Del resto, sono
certa che da quando le donne hanno conquistato maggiori diritti
negli Stati Uniti, gli uomini condizionati a considerarci
degli esseri sciocchi hanno reagito negativamente, sottolineando
quanto fossero confusi. Devo pagare la cena? Comprare
fiori? Aprire la porta?
Credo che la confusione sia positiva.
Il discorso sulla cavalleria, con la gente che continua a
chiedere se “la cavalleria è morta” o se dovrebbe tornare di
moda, non riappare per caso: è il contraccolpo all’avanzata
femminista. La mia generazione, quella dei cosiddetti millennial,
prova particolare nostalgia per la galanteria perché evidentemente
era “molto più facile allora”. Era più facile vivere
in un periodo in cui tali comportamenti potevano essere espliciti,
perché non dovevi metterli in discussione: la società ti diceva
cosa fare, come vestirti, come comportarti, e se seguivi il
copione ricevevi la ricompensa.

Molti uomini sciovinisti, aggrappati alle norme di genere
del passato, quando incontrano le donne danno al femminismo
la colpa di aver contribuito alla loro confusione. Sono
convinti che le interazioni di genere siano molto più stressanti
di prima. Tuttavia, non sapere come parlare o come comportarsi
con le donne è qualcosa di prezioso. Significa che non si
guarda più alle donne dal punto di vista univoco che ci vuole
tutte facilmente impressionate da esibizioni di finto rispetto
(aprirle la porta, ma al contempo non prendere sul serio ciò
che dice). Confusione significa che si è entrati in un nuovo
territorio e quel che bisogna fare è pensare. Non sapere cosa
fare perché i tuoi riferimenti stanno cambiando funge da catalizzatore:
dà vita a momenti in cui il tuo sé colonizzato si trova
a confrontarsi, o scontrarsi, con il tuo sé “decolonizzante”.
L’unico modo in cui possiamo ripartire da zero è darci la
possibilità di essere confusi. Gli spazi dell’attivismo sono in
fermento proprio perché le persone non vogliono accogliere
questa confusione necessaria. È divertente buttare lì la parola
“intersezionalità”, ma le persone in realtà hanno paura di creare
connessioni tra i diversi movimenti, perché ciò implicherebbe
creare nuovi schemi per il proprio attivismo. Ed è difficile,
specialmente se l’attivismo che pratichi è diventato la tua
identità.
L’attivismo è fatto quasi sempre di mantra e copioni già
scritti, non incoraggia il pensiero critico o le domande. In
realtà mi sono accorta che, quando ci impegniamo con altre
persone nell’attivismo, spesso si creano situazioni piuttosto
violente, perché riproducono gli stessi problemi contro i quali
si sta lottando. Persino i movimenti di giustizia sociale che si
aggrappano dogmaticamente all’intersezionalità sono spazi relativamente
acritici in cui le persone cercano una struttura da
seguire, non una struttura utile alla riflessione critica. Quando
pensi criticamente, non ti aggrappi necessariamente a un modello
o a un modo specifico di vedere il mondo: cambi continuamente
le prospettive, le dislochi.

Come ho scritto nel terzo capitolo, i vegan bianchi hanno
attaccato il mio articolo sui 100 Vegani Neri perché ritenevano
che spostare l’attenzione sulla razza e sull’animalità nell’ambito
dei diritti animali avrebbe distratto le persone dall’aiutare
“gli animali”. Sebbene molte persone fossero arrabbiate,
alcune sembravano davvero spaventate dal fatto che il
loro movimento stesse cambiando, al punto da affermare che
chi parla di razza e animalità (come me) appartiene a una “setta”
(non sto scherzando). No, non faccio parte di una setta. In
effetti, se non si riesce a interpretare le mie azioni o teorie come
qualcosa di diverso da un culto, allora forse si fa effettivamente
parte di un gruppo con una visione del mondo rigida.
Dato che esiste uno schema già consolidato su come impegnarsi
nell’attivismo per i diritti degli animali, alcune persone
si spaventano quando vedono messe in pratica modalità differenti.
Sono terrorizzate dai tentativi, compiuti da alcuni attivisti,
di mostrare come lo specismo si colleghi al razzismo e al
sessismo, perché “solitamente” non si fa così. Ho incontrato la
stessa ansia nei movimenti antirazzisti tradizionali. Quando
sollevo le questioni relative ad animalità e razza, spesso mi
trovo di fronte una resistenza immediata da parte di gente nera
che non crede che lo specismo abbia qualcosa a che fare con
il razzismo. In effetti, vengo umiliata sia negli spazi fisici sia in
quelli virtuali che hanno già un modo specifico di condurre
l’attivismo antirazzista, in quanto i modi di pensare che li caratterizzano
non sono progettati per interpretare la teoria che
politicizza l’animalità e la supremazia bianca.
Comprendo intimamente quanto possa essere spaventoso
trovarsi esposti a una teoria che trasforma radicalmente il tuo
attivismo. Di recente, mentre mi stavo preparando per una
presentazione e avevo quasi completato gli appunti, mi è capitato
di leggere alcuni articoli di Tommy Curry, docente di filosofia
africana, che sfidano il modo in cui le persone parlano e teorizzano gli uomini di colore e la violenza razziale.

Curry afferma che gli uomini di colore non sperimentano soltanto il
razzismo, ma simultaneamente anche una forma di razzismo
sessuale, considerato che sono regolarmente molestati sessualmente
e violentati dagli agenti di polizia (cosa che i media
mainstream tendono a non menzionare nelle proprie analisi
del razzismo e della violenza della polizia) e sono sottoposti a
traumi sessuali dai tempi della schiavitù. Curry sottolinea in
maniera brillante che, quando inquadriamo la violenza di genere
come un fenomeno che ruota attorno alle donne (in particolare
alle donne bianche), cancelliamo il modo in cui le
donne bianche hanno storicamente aggredito gli uomini di
colore e continuano a commettere violenza sessuale sui corpi
degli uomini neri. Questi articoli hanno frantumato le strutture
intersezionali che avevo usato nel mio attivismo, e ricordo
di essere andata nel panico: ero d’accordo con l’autore e,
proprio per questo, ritenevo che tutta la mia presentazione
non fosse valida perché mi rendevo conto delle mie innumerevoli
lacune concettuali. Tuttavia, ho integrato le sue teorie
perché ero desiderosa di rendere note queste idee provocatorie
e rivoluzionarie a chi mi avrebbe ascoltato.

Sfortunatamente, molti attivisti non permettono che le
teorie e le pratiche a loro care vengano alterate in maniera così
radicale. Alcuni preferirebbero rimanere in un sistema oppressivo
pur di conservare una qualche parvenza di potere, piuttosto
che affrontare nuove idee e nuove voci che destabilizzano
il loro bisogno di controllo.
Nel marzo 2015 sono stata a una conferenza di Angela
Davis nel corso di un ciclo di studi sulle donne. La parte del
suo incredibile discorso in cui mi sono maggiormente ritrovata
è stata l’analisi di come gli attivisti spesso riproducano comportamenti
oppressivi, non permettendo a sé stessi di cambiare
i propri punti di vista. In sostanza, Davis affermava che tutti
noi usiamo schemi nel nostro attivismo. Quando qualcuno
ci offre nuove informazioni capaci di turbare le nostre strutture,
molti di noi si aggrappano ancora più convintamente ai
propri schemi e punti di vista, perché abbiamo paura di cambiare.
Apparentemente non c’è niente di peggio per un attivista
che essere introdotto a una nuova prospettiva o una nuova
teoria capace di sfidare il modo in cui ha fatto le cose fino a
quel momento. Piuttosto che agire come se quella prospettiva
non esistesse, Davis ha suggerito di immergervisi e permetterci
di confrontarci con essa. Il riflesso di girarci dall’altra parte,
che caratterizza anche gli attivisti, è un prodotto della nostra
colonizzazione.
Dobbiamo incoraggiare le persone a mettere in discussione
i propri comportamenti e favorire la confusione, che è una
delle posizioni più rivoluzionarie in cui trovarsi, perché in tal
modo non si è vincolati da comportamenti e norme oppressive.
In questo spazio possiamo tutti essere architetti concettuali.
Le domande smantellano i copioni culturali e la confusione
può produrre nuovi schemi utili al cambiamento. La confusione
è una fase necessaria dell’attivismo e, se ci si accorge di
sentirsi raramente confusi e messi alla prova, allora forse si sta
seguendo un copione”.

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VandA all’Italia Book Festival

VandA Edizioni dal 16 al 24 maggio sarà all’Italia Book Festival, la prima fiera italiana della piccola editoria completamente digitale.

In un periodo complesso come quello attuale in cui non è possibile organizzare fiere dell’editoria a breve termine, abbiamo pensato sia importante non disperdere la grande ricchezza e creatività delle case editrici piccole e medie.

L’unione fa la forza! Nasce “Italia Book Festival”, una fiera dell’editoria virtuale dove gli editori avranno la possibilità di presentare il loro lavoro, i lori autori, fare laboratori e vendere libri. Una fiera dell’editoria reale nei contenuti.

I lettori potranno entrare nelle varie sale e girare fra gli stand degli editori, riempire il carrello con i titoli dei libri preferiti. Partecipare alle presentazione degli autori, ai laboratori, seguire le dirette you tube e facebook, gli approfondimenti, le interviste. Gli autori potranno proporre i loro manoscritti alle case editrici presenti, partecipare ai pitch e ai laboratori di scrittura creativa.

Per dare un’occhiata al nostro catalogo cliccate qui!

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L’Italia non rilascia il nullaosta alle coppie italiane per andare a prendere i bambini nati da maternità surrogata

Sul Corriere online è uscito un articolo di Monica Ricci Sargentini a proposito delle problematiche sorte in merito alla maternità surrogata durante questo periodo di emergenza sanitaria mondiale.

Di seguito uno stralcio dell’articolo:

“Si fa sempre più intricata la vicenda dei neonati bloccati in un hotel di Kiev in attesa che i loro genitori intenzionali (tutti stranieri) li vadano a prendere. Tra loro ci sono anche bambini commissionati da coppie italiane. Una di questi è nata il 22 aprile ed è ancora in attesa di essere registrata all’anagrafe. L’avvocato Giorgio Muccio, che rappresenta la coppia, ha scritto il 29 aprile all’ambasciatore italiano a Kiev, Davide La Cecilia e, per conoscenza, al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, chiedendo di concedere ai suoi assistiti «il permesso di recarsi in Ucraina per stato di urgente e indifferibile necessità» ma non ha ottenuto alcuna risposta: «Siamo sconcertati — dice al Corriere il legale —, abbiamo anche inviato ripetuti solleciti. A questo punto dovremo procedere a una diffida».

A differenza della Spagna, che addirittura nei primi giorni di maggio ha organizzato un volo di Stato per sette coppie che erano ricorse alla Gestazione per altri nello Stato, l’Italia ha scelto la via del silenzio. Lo dimostra la lettera di La Cecilia alla Rete contro l’utero in affitto (Radfem Italia, Snoq, Udi, Arcilesbica e molte altre) che gli aveva scritto sulla vicenda dei bambini «parcheggiati» nell’hotel: «Gentili Rappresentanti delle Associazioni firmatarie della lettera aperta, ho guardato anche io con grande disagio e preoccupazione le immagini del video diffuso in rete dalla Biotexcom di Kiev dei neonati radunati in una stanza in attesa dello sblocco della situazione che li riguarda e non esito a definirle aberranti. (…) Abbiamo infatti ricevuto una serie di richieste di autorizzazione all’ingresso nel Paese da parte di connazionali per motivi di maternità surrogata, che non sono state tuttavia riscontrate, nonostante le ingiunzioni ricevute dai loro legali». Il motivo, probabilmente, è che in Italia la pratica è vietata dalla legge 40 e la registrazione all’anagrafe delle coppie committenti potrebbe rappresentare un falso in atto pubblico come stabilito nel 2018 dalla Cassazione a sezione unite in cui si ribadisce il diritto del minore alla verità sulle proprie origini.

Il filmato dei 46 neonati stipati nella hall dell’Hotel Venezia è sconvolgente. I bambini sono tutti nati da utero in affitto e in attesa di essere ritirati da chi ne ha commissionato la nascita (i cosiddetti «genitori intenzionali»). Il lockdown per Coronavirus ne impedisce il ritiro e Denis Herman, legale di BioTexCom, lancia l’appello: «Genitori rivolgetevi ai vostri Ministeri degli Esteri perché contattino il governo ucraino, in modo che vi sia concesso il ritiro in deroga al lockdown». Si tratta di coppie americane, inglesi, cinesi, spagnole, francesi, tedesche, austriache, italiane. L’Ucraina è una meta gettonatissima per la Gestazione per altri perché il costo è un terzo o un quarto delle tariffe di California e Canada. Ci sono agenzie come Gestlife che nella tariffa de luxe includono la sostituzione del bambino nel caso ti morisse entro il primo anno di vita.”

di Monica Ricci Sargentini

Per leggere tutto l’articolo clicca qui.

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Manifesti femministi

a cura di Deborah Ardilli

Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato? Attraverso quali linguaggi ha presto forma? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto»? 


Il nuovo saggio di Deborah Ardilli, “Manifesti femministi”, è un’occasione per conoscere e interrogarsi sul femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1946-1977). 


Leggine un estratto…  

“Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato (ancorché non esclusivo” nella gemmazione multipla di manifesti firmati ora collettivamente, ora individualmente? Attraverso quali linguaggi ha preso forma quella singolare combinazione di insubordinazione e tensione utopica che ha alimentato il rinnovamento del movimento femminista negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto»?  Fino a che punto le femministe si sono riconosciute nella prescrizione lonziana di «muoversi su un altro piano» rispetto alle forme del conflitto sociale innervate dalla dialettica signoria-servitù e animate prevalentemente da collettività maschili? E fino a che punto hanno invece avvertito la necessità di un intervento puntuale nella storia, in forza dell’estensione della dialettica servo-padrone al territorio inesplorato delle classi di sesso? Quali resistenze è stato necessario vincere per poter strappare il velo di naturalità che avvolgeva (e in larga parte continua ad avvolgere) il rapporto di genere? […] Sono queste alcune delle domande che potrebbero orientare la lettura dei testi confluiti nella raccolta che avete tra le mani.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Manifesti femministi, a cura di Deborah Ardilli


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Trilogia Scum. Scritti di Valerie Solanas

a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli

Per molto tempo il nome di Valerie Solanas è stato associato solo al ferimento di Andy Warhol, in realtà l’autrice di “Trilogia Scum” è stata la pioniera del femminismo radicale. Una figura spesso mal interpretata, strumentalizzata e fino a oggi rimossa sia dagli archivi della controcultura che dal femminismo. 


Trilogia Scum”, pubblicato da VandA Edizioni, ripara questo torto pubblicando tutti gli scritti dell’autrice inserendo anche due inediti importanti “Up Your Ass” e il racconto “Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle”.

Leggine un estratto…

“Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile.

Oggi è tecnicamente possibile riprodursi senza l’aiuto dei maschi (o, se è per questo, delle femmine) e produrre soltanto femmine. Dobbiamo cominciare a farlo subito. Conservare il maschio non serve più nemmeno al pur discutibile obiettivo della riproduzione. Il maschio è un incidente biologico: poiché il gene Y (maschile) è un gene X (femminile) incompleto, ha una serie incompleta di cromosomi. In altre parole, il maschio è una femmina incompleta, un aborto ambulante, abortito a livello genetico. Essere maschio equivale a essere deficiente, emotivamente limitato; la maschilità è una tara e i maschi sono emotivamente storpi.

Il maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di amore, amicizia, affetto, tenerezza. È un’unità completamente isolata, incapace di qualsiasi rapporto. Le sue reazioni sono interamente viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni; è incapace di passioni della mente, di interazione intellettuale; non è in grado di relazionarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche. È un’escrescenza inerte, un morto vivente, incapace di dare o ricevere piacere o felicità; di conseguenza, nel migliore dei casi, è una noia infinita, un inetto inoffensivo, perché solo chi è capace di interessarsi veramente agli altri può essere seducente. Il maschio è imprigionato in una zona grigia a metà strada tra gli umani e le scimmie, ma è molto peggio delle scimmie perché, diversamente da loro, dispone di un’ampia gamma di sentimenti negativi – odio, gelosia, disprezzo, disgusto, senso di colpa, vergogna, insicurezza – e, inoltre, è consapevole di ciò che è e di ciò che non è.

Benché completamente fisico, il maschio è inadatto persino a fare lo stallone. Anche ipotizzando che abbia la competenza tecnica necessaria, di cui comunque pochi uomini dispongono, egli è, in primo luogo, incapace di godersi una bella scopata sensuale e piccante, essendo divorato dai sensi di colpa, dalla vergogna, dalla paura e dall’insicurezza, sentimenti radicati nella natura maschile, che anche l’addestramento più illuminato può soltanto moderare. In secondo luogo, il godimento fisico che ne ricava è prossimo allo zero. E, in terzo luogo, non empatizza con la sua partner, ma è ossessionato dal pensiero di come se la cava, di fornire una prestazione d’eccellenza, di fare un lavoro a regola d’arte. Equiparare un uomo a un animale significa fargli un complimento: è una macchina, un dildo ambulante. Si dice spesso che gli uomini usano le donne. Usarle a che scopo? Sicuramente non per ricavarne piacere.

Divorato dal senso di colpa, dalla vergogna, da paure e insicurezze e capace, se è fortunato, di sensazioni fisiche appena percettibili, il maschio ha tuttavia l’ossessione di scopare; attraverserà a nuoto un fiume di muco, passerà a guado un miglio di vomito immerso fino alle narici, se si convince che ci sarà una figa accogliente ad attenderlo. Scoperà una donna che disprezza, una qualsiasi befana sdentata, e oltretutto pagherà per farlo. Perché? La risposta non sta nel bisogno di alleviare la tensione fisica, visto che la masturbazione è sufficiente allo scopo. E non si tratta nemmeno di soddisfare il suo ego, visto che allora non si spiega come mai scopi anche bambini e cadaveri.

Completamente egocentrico, incapace di relazionarsi, empatizzare o identificarsi con gli altri, colmo di una sessualità debordante, pervasiva e diffusa, il maschio è psichicamente passivo. Odia la propria passività e per questo motivo la proietta sulle donne, definisce il maschio come attivo, quindi si mette all’opera per dimostrare di esserlo (“dimostrare di essere un Uomo”). Il mezzo principale a cui ricorre per dimostrarlo è scopare (il Grande Uomo con un Gran Cazzo che si fa un Gran Pezzo di Figa). Poiché si sta affannando a dimostrare un errore, deve ripetere la “dimostrazione” all’infinito. Scopare, pertanto, è un tentativo disperato e compulsivo per dimostrare di non essere passivo, di non essere una donna; ma lui è passivo, e vuole essere una donna.

Essendo una femmina incompleta, il maschio trascorre la vita cercando di completarsi, di diventare femmina. Prova a farlo mettendosi costantemente alla ricerca di una femmina con cui fraternizzare, cercando di fondersi con lei e di vivere attraverso di lei, e rivendicando come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via – e proiettando sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via.

Bisogna riconoscere, tuttavia, che esiste un campo in cui la superiorità del maschio sulla femmina è lampante: le pubbliche relazioni. (Ha fatto un ottimo lavoro quando si è trattato di convincere milioni di donne che gli uomini sono donne e le donne sono uomini.) La pretesa maschile che le donne si realizzino attraverso la maternità e la sessualità rispecchia l’idea di ciò che i maschi troverebbero gratificante se fossero femmine. In altre parole, le donne non soffrono di invidia del pene; sono gli uomini a invidiare la figa. Quando il maschio accetta la propria passività si definisce donna (tanto i maschi quanto le femmine sono convinti che gli uomini siano donne e che le donne siano uomini) e diventa un travestito, perde il desiderio di scopare (o di fare qualsiasi altra cosa, a dire il vero; essere una drag queen lo appaga pienamente) e si fa tagliare via l’uccello. “Essere una donna” gli permette così di raggiungere una sensibilità sessuale continua e diffusa. Scopare, per un uomo, è una difesa contro il desiderio di essere femmina. Il sesso è di per sé una sublimazione”.

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