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Giulia Mafai

Protagonista della cultura italiana del ‘900, terza e ultima figlia di Mario Mafai e Antonietta Raphael, sorella di Myriam Mafai, intraprende la carriera di costumista e scenografa a partire dal 1950 lavorando con alcuni dei registi più famosi del periodo tra cui Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Damiano Damiani e altri. È stata ideatrice e curatrice del Laboratorio del Carnevale di Venezia dal 1978 al 1985 e curatrice e organizzatrice di mostre di Arte e di Costume in Italia e all’estero. Ha pubblicato un prezioso e dotto volume “Storia del Costume dall’Età  Romana al Settecento” (Skirà , 2011), il romanzo “La ragazza con il violino” (Skirà, 2013) e il testo “Ebrei sul Tevere” (Gangemi, 2017).

Agenda rossa racconta del casuale ritrovamento di una vecchia agenda da parte di una giornalista che si metterà sulle tracce della legittima proprietaria: una storia feroce, tra fascisti e partigiani che, fra echi morantiani e squarci neorealisti, ci racconta la dura lotta che le donne di quella generazione hanno condotto per aprire la strada alla nostra emancipazione e alla nostra libertà.

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Donne afghane, vivere tutti i giorni nella guerra

Con Corrispondenze afghane Nico Piro, inviato speciale del TG3, si pone un solo, chiaro obiettivo: raccontare la complessità di un paese problematico come è quello dell’Afghanistan per il quale gli stereotipi cui ci affidiamo per comprenderlo rivelano, alla realtà dei fatti, tutta la loro inefficacia.

Quella che si combatte in Afghanistan è un tipo di guerra in cui “a morire, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono né i buoni né i cattivi, ma persone che non c’entrano nulla”. Le guerre non si combattono solo sui campi di battaglia, ma anche nelle case e nei villaggi. Attraversano la vita dei civili e la cambiano irreparabilmente.

Le condizioni di vita di tutti sono difficili ma quelle delle donne lo sono in particolare.

Leggi l’estratto che abbiamo selezionato per te da Corrisponde afghane di Nico Piro, pubblicato dal nostro marchio associato Poets & Sailors

ADDIO AL BURQA

di Nico Piro

Proprio non riesce a venderne più. Sulle pareti della sua bottega ce ne sono tanti, ormai ridotti a far tappezzeria. Ne afferra uno, se lo stende tra le braccia, e ce lo mostra. Sul viso, l’espressione di chi sa di avere in mano un prodotto di prima qualità e non si rassegna all’idea che nessuno lo compri.
Haji Abdul Sabur è uno storico produttore – l’ultimo di Kabul – di burqa sartoriali, altra roba rispetto a quelli fatti in Pakistan e venduti sulle bancarelle del mercato. La sua bottega è nel bazar lungo il fiume, il cuore della capitale che ne conserva l’antico fascino40. Per anni i suoi burqa si vendevano in automatico, oggi Abdul deve sperare nella visita di clienti che arrivano dalle campagne. Questa tunica che copre le donne dalla testa ai piedi, lasciando loro solo il varco di una finestrella retata per provare a guardarsi intorno, è stata per anni un’icona di Kabul.
Celeste nella capitale, di altri colori – nero e persino giallo sgargiante – nelle province, il burqa è stato anche uno dei simboli più strumentalizzati e agitati dalla politica occidentale per giustificare la presenza internazionale nel Paese.
Ogni volta che la politica ha tentato di sostenere quella missione poi rivelatasi “incompiuta” ha ripetuto lo slogan: “Liberare le donne dal burqa” forse ancor di più che “fermare la produzione di oppio” o “siamo lì per garantirci sicurezza qui, a casa”.
L’obiettivo, quasi due decenni dopo la caduta dei talebani, pare finalmente raggiunto: nelle strade di Kabul ormai di donne in burqa se ne vedono sempre di meno. Molte vanno in giro solo con il chador, il velo intorno alla testa che spesso passa solo intorno alla gola, senza coprire il viso dal naso in giù. A voler fare un paragone limitandosi solo al tema del velo, la situazione a Kabul assomiglia a quella del confinante Iran (ma senza le sanzioni di legge imposte alle donne che il velo non lo indossano) mentre le cose vanno molto meglio rispetto all’ Arabia Saudita, principale alleato occidentale e luogo dove l’estremismo si è fatto Stato. Un cambiamento ben testimoniato anche dai manifesti elettorali. Com’è potuto accadere tutto questo in una città dove fino a sei-sette anni fa le uniche donne coperte solo con il velo le trovavi negli uffici e in generale in luoghi chiusi al pubblico, dove per giunta ricoprivano ruoli importanti?
Non è merito della “democrazia” né del miglioramento della condizione delle donne, un miglioramento certo importante ma limitato e fragile come del resto dimostrano le mai cessate violenze domestiche e i matrimoni combinati, come da antica tradizione tribale.
Per capire cosa sia accaduto, dobbiamo andare sull’Airport Road. Alcune donne in burqa spiccano ai lati della strada, all’apparenza sono lì di passaggio, in attesa di qualcosa. In realtà sono prostitute che usano il burqa per non rendersi riconoscibili, lavorano su questa come su altre strade. Questo tipo di prostituzione – assieme a quella che impiega donne cinesi, cominciata sin dalla fine della prima decade del 2000 – è diventata sempre più una delle attrazioni di Kabul, almeno per gli uomini che vengono dalle province. Si parte da dieci dollari in su a seconda del rapporto ma se prima di pagare vuoi vedere il viso della donna che hai appena fatto salire in auto, devi versare un’altra somma – in moneta locale circa 500 afghani. A questo punto puoi decidere se quella donna va bene per te oppure se farla scendere.
Questa è la prostituzione di “livello” più basso offerta dalla capitale tanto che i clienti occasionali sono spesso bersaglio di furti, le prostitute li borseggiano sapendo che non andranno mai a denunciarle per vergogna, anzi per doppia vergogna: erano con una prostituta e si sono fatti fregare.
Lavorano su strade come la Airport Road, dove c’è meno traffico ed è facile per i clienti fermarsi e farle salire a bordo. Portano il burqa esattamente come quelle donne che trovi accovacciate sui marciapiedi oppure che vedi aggirarsi tra le auto nel traffico, sono poverissime e mendicano la “zakat”, l’elemosina che ogni buon credente ha il dovere di lasciare ai bisognosi.
Le mendicanti e le prostitute hanno in comune due cose: sono vedove di guerra o donne cacciate di casa dai mariti, diseredate di solito per “crimini morali”; nascondono la loro vergogna dietro il burqa.
Le altre donne che non vogliono essere prese né per mendicanti né per prostitute, il burqa l’hanno abbandonato forti anche di una giustificazione morale che ha reso il gesto più socialmente accettabile; fermo restando che è stata comunque una liberazione da quella prigione tessile.
“Le donne che vestono il burqa fanno cose brutte, io e le mie amiche non l’abbiamo mai indossato”. Farzanà avrà sedici, forse diciotto anni, vive a Kabul ma la sua famiglia viene dalla provincia di Logar, dove invece – racconta – indossare quella tunica oppressiva è obbligatorio, per la tradizione e per difendersi dai comportamenti aggressivi degli uomini. Ma, come sempre in Afghanistan, la spiegazione non è mai unica: “Il problema del burqa sono le esplosioni. Le donne hanno smesso di usarlo anche per i problemi che si creavano ai posti di blocco in città, dove c’è più controllo e dove comunque gli uomini hanno cambiato atteggiamento”.
In alcuni quartieri, come il PD22 dove vivono famiglie Pashtūn più conservatrici, al posto del burqa sta prendendo piede lo hijab41, il velo nero, integrale, che copre il viso della donna come in Arabia Saudita, scendendo poi fino ai piedi oppure è accompagnato da un camicione anch’esso nero. Fino a qualche anno fa, a Kabul non se ne vedeva nessuno, oggi lentamente cominciano a spuntare nelle strade ma ancora in maniera episodica visto che la stragrande maggioranza delle donne indossa solo il velo.

Poi ci sono donne come Samira che il burqa non lo indossano perché lei non lavora in strada, si prostituisce solo su “chiamata”, per quanto orribile sia questa definizione.
Ha ventotto anni, i capelli lunghi quasi fino ai fianchi e i tratti mongoli degli Hazāra. A guardarla non capisci se la sua bellezza sia già sfiorita come capita a tante donne afghane, già vecchie a quarant’anni, oppure se quella bellezza semplicemente non ci sia mai stata.
A nove anni, nel suo villaggio nella provincia di Bamyan, è andata a casa del suo vicino, che all’epoca aveva trenta-trentacinque anni. “Mi ha dato dei soldi in cambio di una cosa che non sapevo nemmeno cosa fosse, il sesso”. Quando l’uomo l’ha penetrata, lei è svenuta. “Ricordo solo che al risveglio, intorno a me c’era tutta la mia famiglia che piangeva”.
Una vita segnata sin dall’infanzia, continuata in un campo profughi iraniano dove Samira ha capito che l’unico modo per fare soldi era vendersi. Ha cominciato a prostituirsi a sedici anni per poi scoprire che non avrebbe mai potuto avere figli. Nel 2011 è tornata in Afghanistan ma non ha mai smesso di fare il “mestiere”.
“Io il burqa non lo uso perché ho i miei clienti, non devo andare in strada a cercarmeli. Loro mi chiamano e prendiamo un appuntamento”. “Mia mamma sa che lavoro faccio ma se non lavoro la mia famiglia non va avanti”.
Nell’industria della prostituzione a Kabul, Samira è un gradino sopra rispetto alle donne che vestono il burqa. Non è solo una questione di abito ma di consapevolezza, lei sa che può contrarre malattie sessuali gravissime (l’HIV è una delle nuove piaghe dell’Afghanistan)42 e quindi prova a tutelarsi.
Il mercato del sesso nella capitale è una delle amare novità del post-2001, figlia dell’economia di guerra e quindi di quattro decenni di violenza. E’ un mercato articolato e vario seppur invisibile. Oltre Samira e le altre “squillo”, per i ricchi afghani ci sono le bellezze esotiche in vendita a Dubai, a prezzi altissimi.
Nell’ipocrita Kabul lacerata dalle bombe, il burqa – prigione per il corpo delle donne – da simbolo dell’integralismo religioso è diventato uno strumento di quella che gli zeloti definirebbero corruzione morale.

Se il burqa è stato sconfitto dai miliardi di investimenti occidentali, quest’ultimi non sono riusciti nemmeno a garantire un’effettiva tutela delle donne: in quel baratro che è la giustizia afghana, la protezione delle donne è forse il recesso più recondito.
Dal 2009 in Afghanistan è in vigore una legge contro la violenza sulle donne, la EVAW (Elimination of Violence against Women) ma in realtà è inapplicata.
In generale, per svariati motivi, sono poche le donne che trovano il coraggio di denunciare violenze domestiche o matrimoni combinati e subiti. Il fenomeno viene quindi sottostimato dai dati ufficiali.
Le poche che denunciano si trovano di fronte autorità che, al posto di occuparsi del caso come imporrebbe la legge, le spingono verso la tradizionale mediazione condotta dagli anziani del villaggio43; mediazione che può partire solo dopo aver formalmente ritirato la denuncia penale. Più della metà dei 237 casi vagliati dall’UNAMA tra il 2015 e il 2017 si sono conclusi con una mediazione, un atto che viola la legge ma che è incoraggiato da chi quella e altre leggi dovrebbe applicare.
Il risultato è che gli uomini – anche in caso di reati gravissimi come l’omicidio – se la cavano con impegni del tipo “non lo farò più” assieme al pagamento di risarcimenti di sorta alla famiglia della vittima (e all’anziano che ha condotto la mediazione).
Ci sono poi casi in cui il rimedio “concordato” altro non è che un ripetersi del crimine: per esempio, un matrimonio combinato salta per il rifiuto della sposa “designata”. I mediatori tacitano il marito “mancato” e la sua famiglia, stabilendo una nuova “baar”. Una sorella o un’altra donna della famiglia viene ceduta allo stesso uomo, al posto di quella “ribelle”.
In generale da questa prassi la giustizia, lo Stato, l’autorità nazionale ne escono profondamente indebolite e delegittimate agli occhi delle vittime, presenti e future.
Tra il 2016 e il 2017 dei 280 casi di femminicidio e delitti d’onore documentati dalle Nazioni Unite in Afghanistan, solo 50 sono andati avanti per via giudiziaria con la condanna finale del colpevole.
Una giustizia che – attraverso ordini di giudici, procuratori e poliziotti – fa anche altro per allontanare le donne: continuando a sottoporle a test di verginità scientificamente inconsistenti oltre che umilianti, invasivi e – per giunta – vietati da un ordine del presidente Ghani del 2017 e da un provvedimento del Ministero della Sanità del 2018 44.
Metà delle donne in carcere in Afghanistan (la percentuale arriva al 95% quando si tratta di detenute minorenni) sono dietro le sbarre per “crimini morali”, molti dei quali provati proprio con l’esame dell’imene45.
L’altro paradosso che indebolisce la EVAW è che non tiene conto delle necessità economiche delle vittime: “Come evidenziato dalle donne in questo rapporto, un motivo pratico che influenza le vittime, nel rinunciare alla via giudiziaria a favore di una mediazione, è il fatto che l’EVAW ricorre esclusivamente a pene detentive. (…) La donna che ha denunciato e i suoi bimbi faticano a sopravvivere durante la detenzione del colpevole e quindi la stessa detenzione rappresenta un indesiderato e non sostenibile rimedio ai problemi iniziali. Inoltre, le «sopravvissute» (alle violenze denunciate) hanno paura dello stigma sociale e della marginalizzazione ad opera delle proprie famiglie e del villaggio dove vivono, una volta lasciate sole senza un marito”46. Insomma a queste condizioni perché denunciare? Senza considerare poi che anche quando l’iter giudiziario va avanti, il livello di corruzione nel sistema è tale che non c’è certezza né di una sentenza giusta né della pena.
In sintesi, è come se in Afghanistan avessimo costruito un sistema che alimenta speranze nelle donne ma non garantisce l’incolumità di quelle donne che provano a trasformare speranze e sogni in realtà, né di quelle che si ribellano alla mafia della moschea in nome della loro radicata religiosità né di quelle che non riescono più a subire violenze domestiche e vanno dalla polizia.

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