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“Mio figlio è femminista” su Aosta Sera

La scrittrice e formatrice Monica Lanfranco: “Insegnate ai vostri figli maschi che no significa no”.
In “Mio figlio è femminista” l’educazione diventa uno strumento per dire no alla violenza contro le donne. Sabato 25 novembre l’autrice femminista Monica Lanfranco presenterà il suo “manuale di istruzioni” per arginare la cultura misogina.

“Se vi state chiedendo, essendo madre, padre o comunque punto di riferimento educativo di un bimbo o un ragazzo, se sia possibile trasferire le idee del femminismo in un giovane maschio d’oggi la mia risposta è decisamente sì”. Lo afferma la giornalista Monica Lanfranco, autrice del libro “Mio figlio è femminista”.

In questi giorni in cui il dibattito si è acceso su femminicidi e patriarcato, considerato causa della violenza di genere, il libro, che sabato 25 novembre alle ore 17 sarà presentato ad Aosta, risulta più attuale che mai.

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Recensione di “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco su Letterate Magazine

Le vacanze, ahinoi, sono quasi giunte al termine.

In dirittura d’arrivo Silvia Neonato consiglia “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco edito VandA Edizioni.

Folgorante e sincero, un libro snello e profondo che mai come in questi tempi andrebbe letto, per incamerare nel cervello e nel cuore ciò che l’autrice illustra. Parlo di “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato”, VandA edizioni, 2023 di Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice, formatrice femminista di lunga esperienza e, anche questo conta, madre di due maschi ora adulti. Lanfranco – che è stata una delle ideatrici di Punto G, il progetto femminista del G8 di Genova nel 2001 e che dirige la rivista Marea – spiega, senza far lezione, come educare un bimbo fin da piccolo a rispettare le donne, dandogli esempi concreti del proprio valore di donna e combattendo con fermezza gli stereotipi anche con i/le docenti dell’asilo e delle superiori. C’è un capitolo dedicato alle parole e un altro ai giocattoli e ai colori: fondamentali per contrastare il machismo e lui deve imparare, accettando la frustrazione, che “no” significa no e che può essere un’occasione. Nei capitoli a seguire ci incita a insegnare ai cuccioli i lavori domestici e la cura di piante, persone e animali, a parlare con loro di violenza maschile sulle donne, spiega come è importante che faccia amicizia con le bambine e che impari a cucinare e a presentare bene i piatti, quando è adolescente, perché la seduzione comincia dalla gola. E infine, ma ci sarebbe tanto da dire, Monica è convinta che il patriarcato si può smontare, che la non violenza si può insegnare, che la sessualità dei genitori va raccontata perché è da quel gesto d’amore che loro, i figli, nascono. Altrimenti resta solo la scuola violenta e senza gioia dei filmati porno che, scrive l’autrice, bimbi e bimbe consumano già a 8/9 anni.

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Il corpo lesbico – Articolo su Dinamo Press

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Uscito nel 1973 per le Éditions de Minuit, ed oggi riproposto in una traduzione di Deborah Ardilli per i tipi di VandA, “Il corpo lesbico” è uno dei testi in cui Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale e dove il lesbismo diventa qualsiasi soggetto che pratica la sovversione dell’ordine eterosessista e patriarcale. Attraverso un’opera di sabotaggio dei codici ideologici e linguistici che hanno dominato secoli di letteratura sull’amore, Wittig incarica la scrittura e il linguaggio di reinventare un mondo libero dal giogo della norma eterosessuale e maschile

Se per il primo femminismo la questione della liberazione era incentrata sulla lotta all’oggettivazione della donna da parte dell’ordine patriarcale, per Monique Wittig la donna non esiste se non come corpo lesbico. Vista l’importanza che negli anni Settanta del secolo scorso, nel pieno della conflittualità che animava tutti i movimenti di liberazione, rivestiva l’orientamento sessuale all’interno delle Questions Féministes, l’oggetto, o meglio, il soggetto del contendere è proprio il lesbismo come pratica di sovversione dei rapporti di forza materiali e simbolici che strutturano la norma eterosessuale capitalista. Per Wittig parlare della “donna” esclusivamente nei termini di differenza sessuale è fuorviante in quanto, seppur inconsapevolmente, va a rinforzare la lingua dell’economico – l’obbligo per la donna di riprodurre e prendersi cura della forza-lavoro – e a legittimare la lingua del Significante Fallo – la Donna esiste in quanto non-tutto castrato e assoggettato.

Per il movimento delle donne di allora era quindi poco percepita la «possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni» (Ardilli, p.12), come sostiene nella sua sapiente prefazione Deborah Ardilli, curatrice e traduttrice della nuova edizione di Il corpo lesbico per i tipi di VandA, che segue e “restaura” quella del 1976 curata da Christine Bazzin e Elisabetta Rasy per le Edizioni delle Donne. Per questa ragione, prosegue Ardilli, il lesbismo politico teorizzato e vissuto in prima persona da Wittig era visto come rischioso: nel migliore dei casi, il rapporto di sessaggio denunciato dalla scrittrice francese – lo stato di soggezione al potere dell’uomo e di assoggettamento alle dinamiche sociali del patriarcato –  era  considerato velleitario rispetto alla forza primaria e “trascendentale” della Legge (di Natura). Proprio per questo Psychanalyse et Politique, il gruppo che ruotava intorno alla figura carismatica di Antoinette Fouque, stigmatizzava il pensiero lesbico di Wittig come grottesca imitazione del modello maschile, tanto che Il corpo lesbico è stato più volte, e sconsideratamente, definito il frutto dell’“allucinazione onirica” di un’omosessuale in preda a deliri erotici vergati sotto l’egida di Saffo. Per il femminismo storico, insomma, il riconoscimento della libido femminile si riduceva a mera valorizzazione simbolica in grado di ripristinare un’equa e sana relazione eterosessuale, in cui libertà e amore costituivano i poli su cui far convergere le aspirazioni di emancipazione delle donne. La radicalità politica del lesbismo non può pertanto che essere invisibilizzata in nome di una critica dei rapporti di forza tra uomo e donna basata esclusivamente sulla sovversione delle norme e non dei rapporti sociali che tali norme giustificano e realizzano, consentendo la materializzazione del «rapporto di appropriazione generalizzata della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (Ardilli, p. 19).

Quando Il corpo lesbico venne pubblicato nel 1973 dalle Éditions de Minuit, Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale, autorevole esponente dell’avanguardia letteraria dei nouveaux romanciers, in cui militavano figure di spicco del dissenso narrativo quali Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor, Claude Simon e Nathalie Sarraute. Alcuni anni prima Wittig aveva pubblicato L’Opoponax, il primo volume della silloge pronominale successivamente integrata da Le guerrigliere e, appunto, da Il corpo lesbico.L’Opoponax, creatura anti-mitica – inscritta cioè in quella fenditura, in quel margine, che turba e interrompe la solida permanenza assiomatica dell’immagine del mondo cristallizzata dal realismo etero-capitalista –, ibrido né animale né vegetale, che irrompe saltuariamente anche tra le pagine di Il corpo lesbico,anticipa gli attuali grafemi con cui si sta smantellando il falso mito dell’identità di genere. Inoltre, il ricorso straniante ad aggroviglianti ed aggrovigliati neologismi e l’uso ossessivo del pronome io lesbica, che confligge con quello io donna, costituiscono il corpo politico di un’espressività che si batte contro la tradizione del romanzo, con le sue trame, le sue psicologie, le sue logiche narrative e i suoi segretucci edipici, aggiungerebbero Deleuze e Guattari.

Ma, infine, che cosa è Il corpo lesbico, e come si legge? Il nodo da cui partire, non per interpretare la creatura mostruosa di Wittig ma, semmai, per misinterpretarla (o disinterpetrarla), aderendo così all’alternativo mondo amazzone della scrittrice è prendere le mosse, come sottolinea Ardilli, dalla celebre affermazione di Simone de Beauvoir secondo cui donna non si nasce. Questo enunciato miliare non solo è assunto da Wittig in tutta la sua dirompenza, ma la scrittrice sviluppa anche un suo completamento e una sua deriva, portando in scena una realtà ancor più oscena: se donna non si nasce sicuramente donna si muore. Questo è, in sintesi, quello che “succede” nei suoi scritti di finzione, come pure Il corpo lesbico testimonia. L’isola abitata, più che descritta, da Wittig, questo Eden anfibio, al contempo e indissolubilmente paradisiaco e infernale, in cui vivono solo “femmine” e dove tutto è declinato in grammatica lesbica – animal(e), cos(e), uman(e), personagg(e) mitich(e) –, è la libido femminile stessa, la cui scrittura è già di per sé lettura. Scrittura e lettura sono femmine e lesbiche, in quanto corpi testuali da eviscerare nella diffrazione soggettiva/possessiva di un’autrice che dà del tu alla lettrice amante. Il pronome personale e possessivo in prima persona è barrato graficamente e pertanto i/o è un attante relazionale, affettivo e sessuale più che il personaggio di un racconto erotico omosessuale. Inoltre i/o tu, «le due istanze di enunciazione che nel testo danno corpo alla passione lesbica» (Ardilli, p. 34), sono i pronomi che pongono la questione ideologica e storica dei soggetti femminili, come sottolinea la stessa Wittig in un suo intervento del 1975.

In fondo, quindi, Il corpo lesbico è un romancenient’altro – si fa per dire – che una storia d’amore tra l’i/o della scrittrice e il tu della lettrice. È tra queste due polarità che prende forma il divenire lesbico del mondo-tutto. Ma a chi si rivolge Wittig con quel tu? Certo non alla donna, categoria conosciuta e, per questo, vittima del discorso e della letteratura, bensì alla m/ia più sconosciuta, all’amante complice – in tutte le accezioni del termine – all’apice della raffigurazione dell’amore lesbico, a partire dalla sua posizione privilegiata di intellettuale che dispone del plus/valore delle parole: «I/o sono colei che muggisce con i suoi tre corni, i/o sono la tripla, io sono la benevola infernale, i/o sono la nera la rossa la bianca, i/o sono la grandissima l’altissima la potentissima colei il cui alito deleterio ha intossicato migliaia di generazioni e così sia, i/o siedo nell’alto dei cieli nel cerchio stellare dove sta Saffo dalle guance viola […], ma tu vieni subito m/ia più adorabile i/o abbandono la m/ia posizione indubitabilmente gerarchica […] mi getto ai tuoi piedi di cui la m/ia lingua lecca la polvere, i/o ti dico benedetta fra le donne tu che per prima sei venuta a sollevarm/i dal m/io posto di guardia situazione quanto mai eclatante tuttavia triste a causa della m/ia grande solitudine» (p. 191).

Con questo solo brano già si evince la maestria poetica di una scrittrice pienamente a proprio agio con i riferimenti della “grande” letteratura – da Saffo ai libri fondativi dell’onto-teologia occidentale, passando per le sue e i suoi contemporane* –, nonché la parentela per contagio e alleanza – non per filiazione ri/produttiva – con il pensiero deleuziano. Il divenire lesbica/animala – tutte le animali che convivono con le amazzoni dell’isola sono sempre declinate al femminile (la cangura, la serpa, la giumenta…) – significa tessere relazioni nonumane – ossia, come afferma Deleuze nella videointervista rilasciata nel 1988 a Claire Parnet, avere un rapporto animale con l’animale. Analogamente, la lettrice deve intrattenere un rapporto lesbico con la scrittrice lesbica. E ancora: quello che affascina Deleuze è che tutti gli animali hanno un mondo che gli umani non considerano o si limitano a descrivere e analizzare dall’alto della loro supposta posizione privilegiata. Allo stesso modo, Wittig crea un mondo lesbico, dove i corpi lesbici sono anatomie rovesciate, decostruzioni de-evolute, processi invertiti da un corpo a un altro corpo, corpi con così tanti organi, esposti e descritti in maniera talmente minuziosa, da divenire insostenibili per l’Eteronormatività, il Patriarcato, la Storia, il Capitale, la Razza e l’Umano.

Il teriomorfismo, l’ibrido femmina/animale è allora da considerarsi non solo oltre l’umano ma più in profondità oltre la specie: «Tocco le tue mammelle dure, le stringo nella m/ia mano. Tu ti reggi ritta sulle zampe con una di loro a momenti raspi il suolo. La tua testa sulla m/ia nuca pesa, i tuoi canini m/i incidono la carne nella parte più sensibile, m/i tieni tra le zampe […], m/i strappi la pelle con gli artigli delle tue quattro zampe […], m/i aggrappo alla tua pelliccia […], a un tratto tutta febbrile m/i prendi sulla tua schiena m/ia lupa […] le m/ie gambe serrandoti i fianchi il m/io sesso sussultante contro i tuoi lombi, ti metti a galoppare» (pp. 67-68). Correndo sensualmente con questo ibrido, in un processo di perenne ibridazione, Wittig descrive con inusitata potenza una sessualità in cui i corpi lesbici vengono sottratti al genere etero-pornografico: corpi letteralmente fatti a pezzi per essere poi ricomposti in un divenire in cui il piacere/dolore, la carnefice/vittima, la predatrice/preda sono ecceità magnetiche e cortocircuitanti che strappano visioni alla misera realtà dell’erotismo omologato: «I/o sono da te montata a pelo. Le tue cosce m/i stringono i fianchi. […] La m/ia testa è scossa tirata per tutta la criniera dalle tue mani. […] Tu armi i tuoi talloni allora e le tue gambe. Premi su di m/e con tutta la tua forza voce stridente, m/i laceri i fianchi con le tue numerose punte d’acciaio, li scortichi, ne fai uscire la carne viva […]. Allora così tormentata in tutte le m/ie parti i/o m/i slancio in una galoppata furiosa, i m/iei zoccoli martellano la terra con violenza, nitrisco senza fine, urlo con tutte le m/ie setole rizzate, ti porto via» (pp. 102-103).

Wittig, che nel 1976 abbandona la Francia per gli Stati Uniti, sembra così anticipare il post-porno americano, che reifica le posizioni del femminismo storico per poi riappropriarsene nella ricomposizione di soggettività eterodosse, sia rispetto alla categoria “eterosessualità” sia rispetto alla categoria “donna”, soggettività che diventano immediatamente soggett* rivoluzionar*. È proprio in questo frangente storico, infatti, che assistiamo all’emergere di soggettività politiche – nere e latine, migranti e precarie, prostitute e queer – relegate ai margini delle elaborazioni teoriche del femminismo bianco, soggettività rivoluzionarie che aprono inedite questioni sul sesso e pro-sesso, fino ad allora ignorate, invisibilizzate o del tutto trascurate. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla decostruzione pansessuale di Annie Sprinkle che materializza, come afferma Preciado, «uno spazio di azione politica attraverso il quale le donne e le minoranze sessuali possono ridefinire il loro corpo e inventare nuove forme di produzione del piacere che resistano alla normalizzazione pornografica dominante».

Wittig scrive il suo romance, la sua storia d’amore con la lettrice – su/a molto tormentata, amante impaziente, esultante, interdetta, solare, celestiale, amante sovrana  come se fosse già morta e vagasse nei meandri di uno spazio-altrove, dove ad esprimersi non è più il soggetto-oggetto donna, ma il corpo lesbico in quanto cadavere squisito. La confidenza con cui la scrittrice gioca con il proprio corpo vivo/morto è la stessa con cui dispone, sovvertendola, la relazione impossibile dell’amore con la morte. Se il mito, incluso quello di Eros e Thanatos, «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze […] organizza un mondo senza contraddizioni […], dispiegato nell’evidenza» (Roland Barthes, Miti d’oggi, p. 223-224), al mito eterosessuale che performa uomini e donne come gruppi naturali, Wittig contrappone l’anti-mito dell’al-di-là, una cosmologia dei desideri che si consumano su un’isola in/umana (postuma e postumana), cioè letteralmente priva di uomini e donne: «Di tanto in tanto le m/ie braccia gialle e putrefatte da cui escono lunghi vermi ti sfiorano, qualcuno di loro ti striscia sulla schiena, tu fremi […]. Lungo gallerie sottosuoli minati cripte grotte catacombe ci muoviamo mentre canti con voce vittoriosa la gioia di ritrovarm/i» (p. 65).

Come sottolinea Marcuse in L’uomo a una dimensione a proposito della letteratura d’avanguardia succeduta alla produzione artistica dell’alta cultura che, pur sostenuta dalle classi privilegiate, già conteneva in nuce la contraddizione tra il potere che concede e l’artista che sublima la propria alienazione da un mondo che rifiuta, la nuova dimensione dell’arte nelle società tecnologicamente avanzate è contrassegnata dalla rottura della comunicazione. È questa dimensione a connotare la scrittura di Wittig che proprio sulla distruzione del linguaggio a favore delle parole – isolate dal mare della comunicazione – fonda il proprio discorso poetico. Aderendo alle semiotiche di Barthes e rinunciando alle regole della proposizione, Wittig «designa un universo intollerabile, autodistruttivo, privo di continuità» (Marcuse, p. 88), crea un mondo che sovverte l’esperienza prestabilita della natura che homo (sapiens, hetero, pater)si è storicamente dato. Le parole di Wittig, per riprendere Il grado zero della scrittura di Barthes, sono segni «senza legami, forti della violenza del loro prorompere in luce […] queste parole poetiche escludono gli uomini» (p. 72).

L’opera di politicizzazione del lesbismo di Wittig sta suscitando sempre più interesse non solo in ambito accademico. L’horror femministaper esempio, sembra incarnare la visione della scrittrice francese, che situa nell’occhio – globo oculare, retina, nervo ottico – e non nello sguardo – in cui si annida il potere vivisettorio del regista – le lacrime amare della messa in scena. Quello che registe come Julia Ducournau – autrice di Raw Titane, due dei più emblematici film del filone cinematografico de-genere de-generato – vogliono esplicitare è proprio la dimensione sublime del corpo come nuova poetica della carne, profetizzata a suo tempo dal maschilismo esasperato di Cronenberg. Come nella scrittura di Wittig, in questi film il corpo lesbico è una macchina da guerra che affronta polisemicamente il corpo sociale, il corpo testuale e il corpo fisico come proiezioni del mito eterosessuale da distruggere.

Ma, allora, cosa può un corpo lesbico? Può senz’altro afferire a un altro corpo, a un corpo altro. La relazione tra due corpi, lo stato di affezione descritto da Spinoza, è una forma di conoscenza che Wittig descrive minuziosamente, immaginandola come una serie di infiniti processi di composizione e di decomposizione. Le lezioni deleuziane su Spinoza ritraggono il male come un cattivo incontro tra due corpi, una cattiva combinazione tra un corpo che disgrega, taglia e smembra e un altro che subisce questa alienazione dell’agire. In questo senso, l’isola delle lesbiche diventa il luogo dove è possibile comprendere di che cosa sia capace un corpo. Le personagge teriomorfe di Wittig rappresentano mappe affettive che, oltrepassando i presunti confini di specie, razza e genere, rimettono in discussione anche la “natura” eterosessuale delle “donne”: «Decomporre il corpo in parcelle infime, s/marcarlo dalla valorizzazione selettiva (labbra, seno, glutei, apparato riproduttivo) che compongono il mito della Donna» (Ardilli, p. 50). Il che ci riporta, come lungo il bordo di un’isola, al punto di partenza: distruggere la costruzione materialsemiotica eterosessuale del corpo significa affermare che non esistono donne ma corpi lesbici.

Forse il solo modo per de/finire questo libro è restituire alla parola il carattere, il peso e la dimensione che la logica propositiva della letteratura le ha irrimediabilmente tolto. Utilizzare il grado zero della letteratura per renderla indipendente dalla lingua degli uomini e dalla scrittura connotativa del romanzo borghese. A cominciare da prima della prima pagina: «LA CIPRINA LA BAVA LA SALIVA IL MOCCIO IL SUDORE LE LACRIME IL CERUME L’URINA LE FECI GLI ESCREMENTI IL SANGUE LA LINFA LA GELATINA L’ACQUA IL CHILO IL CIMO GLI UMORI LE SECREZIONI IL PUS LE….».

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Robin Morgan

Robin Morgan, scrittice, saggista politica, attivista femminista, giornalista (ha diretto il bimestrale “Ms”), ha pubblicato ventidue libri, fra cui le ormai classiche antologie Sisterhood is powerful (1970) e Sisterhood is global (1984), ed è tradotta in tredici lingue. Ricopre un ruolo di primo piano nel movimento femminista internazionale.

Ne Il demone amante, con scrittura poetica e sguardo implacabile, Morgan decostruisce il tema della violenza, svelandone funzione e moventi, sia quando si manifesta in privato nella violenza domestica, sia come violenza di Stato e guerra, sia quando prende il volto della rivoluzione.

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Marta Correggia

Marta Correggia è magistrato dal 2002, vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste letterarie (Perrone, Storie, Tina la rivistina) e ha curato pubblicazioni di carattere giuridico (Guida al diritto – Sole 24 ore, Giuffré, Simone editore) “Il mio nome è Aoise” è il suo primo romanzo.

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“Il valore simbolico dei monumenti: dall’effigie del cane marrone alla statua di Margherita Hack” su rewriters.it

Il 4 febbraio 2022 Gianluca Felicetti ha citato Il caso del cane marrone di Peter Mason all’interno di un interessante articolo pubblicato su ReWriters.it, testata giornalistica digitale.

A seguire un estratto:

I monumenti sono simboli, nel bene e nel male: celebrazioni di potenti o ex tali, in genere, che hanno visto non tanto tempo fa, sulla scia del Black Lives Matter, manifestazioni e abbattimenti, per andare indietro con il tempo e ricordare il picconamento di statue di dittatori defenestrati in Europa o miti che si volevano cancellare. […] E’ uscita infatti l’edizione italiana de “Il caso del cane marrone. La storia di un monumento che ha diviso un Paese” per VandAedizioni. Lotte convergenti fra femministe, classe operaia e antivivisezionisti, portarono il Consiglio distrettuale, a stragrande maggioranza progressista, a far erigere un monumento a un cane usato qualche anno prima per efferati esperimenti nell’Università, contestati da due studentesse femministe svedesi e dibattuti in un causa legale per diffamazione con relativo processo. Si susseguirono manifestazioni con migliaia di persone a Trafalgar Square, tentativi di sabotaggio, riunioni pubbliche sciolte per intemperanze, giornali dell’era edoardiana schierati da una parte e dall’altra e piantonamenti della polizia a difesa della contestata opera.

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Recensione di “Manifesto SCUM” su 27esimaora.it

Su 27esimaora.it, blog femminile del Corriere.it è uscito un interessante articolo su Manifesto SCUM scritto da Silvia Morosi; inoltre è possibile leggere un capitolo in esclusiva del libro.

Pubblichiamo un estratto:

“Il pamphlet si propone di ribaltare un pregiudizio antico e radicato, ma falso: a essere inferiore non è la donna, come ci hanno sempre raccontato, ma l’uomo che, essendo privo di un cromosoma x, è una donna mancata. […] Un testo che – con uno stile provocatorio, diretto, tagliente – diventa in breve un riferimento per generazioni di femministe, anticipando tematiche ancora oggi al centro del dibattito: l’uso della tecnologia (inclusa quella riproduttiva); l’esclusione delle donne dalla cultura e dalla gestione delle risorse economiche; il lavoro domestico non retribuito.”

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Recensione “Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna” su ilmanifesto.it

Copertina Se la felicità...

Il 16 gennaio 2022 è stata pubblicata su ilmanifesto.it un’interessante recensione sul libro “Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna” scritta da Laura Fortini.

Riportiamo un estratto:

Per leggere l’articolo completo clicca QUI.

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Recensione di “Aphra Behn. L’incomparabile Astrea” su ilmondodisuk.com

Il 27 dicembre 2021 sul sito ilmondodisuk.com è stata pubblicata un’interessante recensione di “Aphra Behn. L’incomparabile Astrea” scritta da Francesca Vitelli.

 

A seguire un estratto:

«Riuscire a far sì che non vi sia distinzione nel mondo del lavoro tra uomini e donne è una battaglia, iniziata secoli fa, ancora in corso. Alcune donne, con coraggio e tenacia, hanno aperto la strada sfidando le regole sociali che ne impedivano l’accesso alla sfera pubblica e a un qualsiasi impegno remunerato. Aphra Behn (1640-1689) fu una di loro. […] Il testo pubblicato da VandA edizioni è interessante sotto diversi aspetti e chiavi di lettura: l’analisi letteraria, la ricostruzione storica, la visione femminista. Donne che, attraverso un passaggio di testimone nei secoli, scrivono di letteratura, sociologia, politica, spionaggio e altro perché non esistono lavori da uomini e lavori da donne. Esistono il talento, il coraggio e la tenacia.»

 

Clicca QUI per leggere l’articolo completo.

 

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Katia M.

Katia M. è un nome fittizio. Per VandA ha scritto “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre“. Lo pseudonimo è una cautela usata dall’autrice per salvaguardare la privacy degli affetti più cari, dal momento che la storia che racconta è vera.

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Giulia Mafai

Protagonista della cultura italiana del ‘900, terza e ultima figlia di Mario Mafai e Antonietta Raphael, sorella di Myriam Mafai, intraprende la carriera di costumista e scenografa a partire dal 1950 lavorando con alcuni dei registi più famosi del periodo tra cui Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Damiano Damiani e altri. È stata ideatrice e curatrice del Laboratorio del Carnevale di Venezia dal 1978 al 1985 e curatrice e organizzatrice di mostre di Arte e di Costume in Italia e all’estero. Ha pubblicato un prezioso e dotto volume “Storia del Costume dall’Età  Romana al Settecento” (Skirà , 2011), il romanzo “La ragazza con il violino” (Skirà, 2013) e il testo “Ebrei sul Tevere” (Gangemi, 2017).

Agenda rossa racconta del casuale ritrovamento di una vecchia agenda da parte di una giornalista che si metterà sulle tracce della legittima proprietaria: una storia feroce, tra fascisti e partigiani che, fra echi morantiani e squarci neorealisti, ci racconta la dura lotta che le donne di quella generazione hanno condotto per aprire la strada alla nostra emancipazione e alla nostra libertà.

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Vita Sackville-West

Vita Sackville-West (1892-1962), nata da famiglia aristocratica e sposata al diplomatico Harold Nicolson, da cui ebbe due figli, condusse una vita audace e fuori dagli schemi. Grande viaggiatrice e apprezzata scrittrice, fece parte del circolo di Bloomsbury. È nota la sua relazione amorosa con Virginia Woolf, che a lei si ispirò per il romanzo “Orlando”, trasfigurazione letteraria del loro amore. Altri suoi scritti pubblicati in Italia sono “Ogni passione spenta”, “La signora scostumata” e il carteggio con Virginia Woolf, “Adorata creatura”.

Con Aphra Behn ci racconta la storia della prima scrittrice professionista della letteratura inglese: Vita Sackville-West fu la prima a riscattare Aphra Behn dal disprezzo della critica misogina, con questa biografia pubblicata nel 1927.

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François Koltès

François Koltès, cineasta, architetto, scenografo, romanziere, personalità  eclettica dal timbro artistico fortemente originale, ha lavorato nel teatro a fianco di grandi nomi, come Bernard- Marie Koltès (suo fratello) e Patrice Chéreau. Nel cinema si è affermato con film documentari, fra i quali: ” Rêves égarés”; “Bernard-Marie Koltès, comme une étoile filante e Sommeil sans retour”, di carattere poetico e insieme politico, ottenendo grandi riconoscimenti. Ha pubblicato i romanzi “Petit homme, tu pleures” (2007), “Des Vêpres noires” (2010) e il libro di racconti “Les Croix des champs” (2015).

Racconti italiani è il suo primo libro pubblicato in Italia.

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Monica Lanfranco

Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice e formatrice, ha insegnato “Teoria e Tecnica dei nuovi” media all’Università  di Parma e conduce corsi di formazione sulla comunicazione e il linguaggio non sessista, sulla storia e il pensiero del movimento delle donne, sulla risoluzione non violenta dei conflitti nel lavoro e nelle dinamiche collettive. Ha pubblicato “Uomini che odiano le donne”, “Virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi”, “Parole madri”. Dal 1994 dirige il trimestrale femminista “Marea”.

Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo racconta a vent’anni dalle manifestazioni del G8 di Genova il punto di vista delle donne che c’erano e che le hanno vissute sulla loro pelle. Mio figlio è femminista è il suo libro più recente.

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Erella Shadmi

Erella Shadmi è una femminista radicale, attivista pacifista, antirazzista e studiosa. Ha co-fondato il Kol Ha’Isha (Centro femminista di Gerusalemme) e il Fifth Mother (Movimento per la pace delle donne). Già a capo del Women’s and Gender Studies Program, è lettrice senior di Criminologia e di Applicazione della legge presso il Beit Berl College in Israele.

Il sentiero della madre supporta da plurimi punti di vista una reale e saggia alternativa per l’evoluzione dell’umanità: un nuovo modello materno e matriarcale al posto di quello patriarcale e capitalista.

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María-Milagros Rivera Garretas

María-Milagros Rivera Garretas, storica, filologa, traduttrice, saggista, insegna all’Università  di Barcellona. Specialista di Emily Dickinson, ha tradotto in spagnolo con Ana Maňeru Mèndez, l’intero corpo delle poesie delle Dickinson (2012 -2015).

In Emily Dickinson. Vita d’amore e poesia individua in un gruppo di poesie la testimonianza di un incesto subito dalla poeta, la sublimazione di un dolore insopportabile nella poesia e nell’amore e un grande infinito amore per la sua amica e poi cognata Susan.

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Mariam Irene Tazi-Preve

Docente femminista, si occupa di politica e riproduzione, insegna all’Università  negli Stati Uniti e in Austria. Ha pubblicato “Motherhood in Patriarchy” (2013), in Italia “Contro la maternità patriarcale” (VandA edizioni, 2020).

Il suo ultimo libro è “Il fallimento della famiglia nucleare” (VandA 2021).