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Le motivazioni del Premio Letterario Femminile Plurale a Michela Fontana per Nonostante il velo


Nonostante il Velo: Donne dell’Arabia Saudita
di Michela Fontana, Vanda-epublishing, giugno 2018

Nonostante il velo di Michela Fontana è un lungo, affascinante viaggio in una società e in una cultura, quella dell’Arabia Saudita, di cui sappiamo ben poco, nonostante il paese rivesta un ruolo fondamentale e delicatissimo nello scenario geopolitico contemporaneo. Tra i tanti divieti imposti alle donne nei paesi islamici c’è anche quello di guidare. Un’azione che molte di noi compiono quotidianamente senza pensare che sia un diritto, un’azione negata ad altre donne come noi per cui la repressione di genere è talmente alta da impedirne addirittura la mobilità. Il 6 novembre 1990 a Riad viene organizzata una manifestazione per il diritto alla guida per le donne. Aisha, una delle promotrici della protesta, viene allontanata dalla capitale saudita. Nel 2011 la ribellione si riaccende grazie a una nuova generazione di attiviste che sfruttano anche i mezzi di comunicazione globale di cui disponiamo oggi grazie all’evoluzione di internet. Michela Fontana, attraverso la voce di undici donne dell’Arabia Saudita racconta la loro lotta e le loro paure, la loro storia, il loro quotidiano e la straordinarietà di una disubbidienza che è appannaggio soprattutto delle donne più abbienti di Riad che possono contare sulla copertura della famiglia, donne ritenute eversive dal governo e spesso allontanate.

Motivazione
Nominare, rinominare le cose per farle esistere: questo dovrebbe essere uno dei compiti della letteratura. Sottrarre all’oblio volti, storie, i nomi che nessuno pronuncia, per riconsegnarli infine al presente, con la forza della narrativa e dell’inventiva. Oppure con l’inchiesta, con la scrittura giornalistica. Michela Fontana, attraverso la testimonianza diretta di alcune donne saudite – l’Arabia Saudita resta un paese sconosciuto, anche perché impenetrabile, un vero e proprio inghiottitoio per le donne che devono confrontarsi con la proibizione, la vessazione, la sottoposizione a un guardiano che non si distrae mai – ci racconta da una prospettiva che ha a che fare con la quotidianità (una quotidianità che talvolta diviene intima) come proprio le donne si siano fatte portatrici di una clamorosa istanza di rinnovamento, sfidando con coraggio il proprio tempo e uscendone sì segnate, ma non sconfitte. Come richiede una scrittura di testimonianza, la lingua che sceglie l’autrice per raccontare di queste donne è schietta e sincera. A questa chiarezza di fondo contribuisce un utile glossario di servizio che spiega i tanti termini arabi che costellano il racconto-reportage. Michela Fontana ha anche uno spiccato interesse per l’onomastica araba, come spiega fin dalle prime pagine, e si preoccupa di tradurre sistematicamente il significato dei nomi delle donne che costituiscono il coro di voci di Nonostante il velo. Aisha, Nura, Hessa e le altre donne saudite, con le loro testimonianze, ci restituiscono un quadro sfaccettato e autentico della condizione della donna in uno dei Paesi islamici più repressivo, invitandoci a riflettere anche sulla condizione della donna in Italia, in una prospettiva femminile e plurale. Un grande paradosso aleggia intorno a questo libro: le donne che con i loro racconti hanno dato vita a Nonostante il velo non possono leggerlo, perché in Arabia Saudita è haram, cioè proibito. Il taglio di questa opera è veramente femminile e plurale : una donna che guarda, interroga, racconta da vicino altre donne, diverse da lei e fra loro per classe sociale, temperamento, esperienze di vita. Il calore del racconto in prima persona e la vividezza del reportage si alternano alla chiarezza del resoconto storico; seguiamo le vicende politiche di un intero paese, ma entriamo anche nelle case e negli ambienti di lavoro di chi lo abita, e soprattutto vediamo e ascoltiamo le protagoniste: donne più o meno giovani, più o meno ribelli, più o meno privilegiate. Mescolando con mano sicura memoir e giornalismo, Michela Fontana ha saputo creare un ritratto collettivo delle donne saudite pieno di dettagli e sfaccettature, lontano dai cliché e dalle generalizzazioni: in un’epoca in cui sembra sempre più difficile trovare chi guarda l’Altro da Sé con reale curiosità, il suo sguardo attento e rispettoso – ma anche lucidamente critico – e la sua scrittura precisa e mai banale sono strumenti preziosi di indagine e comprensione del mondo. Un lavoro meticoloso, empatico a tratti, condotto entrando nelle case, sedendo alle tavole, raccogliendo gli umori di professioniste, studentesse, attiviste, islamiste, scrittrici, mogli, madri – che ci aiuta a far luce su una delle tante prove a cui le donne sono costrette nella loro storia universale, e che faremmo bene a recuperare al nostro immaginario, perché il medioevo dei diritti non è mai scongiurato una volta per tutte.

Motivazione Primo Classificato 2018 – Premio Letterario Allumiere

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Michela Fontana, premiata per il suo sguardo Femminile, Plurale

Michela Fontana ha vinto l’importante premio letterario Allumiere, Femminile, Plurale, con il suo libro-inchiesta Nonostante il Velo, un racconto corale delle donne dell’Arabia Saudita. Un riconoscimento importante, per il lavoro di Michela e per VandAePublishing.

“L’Arabia Saudita resta un Paese sconosciuto, anche perché impenetrabile, dove le donne devono confrontarsi con la proibizione, la vessazione, la sottomissione”, si legge nelle motivazioni al premio. Un riconoscimento, dunque, al lavoro di Michela Fontana, che “ci racconta da una prospettiva che ha a che fare con la quotidianità (una quotidianità che talvolta diviene intima) come proprio le donne si siano fatte portatrici di una clamorosa istanza di rinnovamento, sfidando con coraggio il proprio tempo e uscendone sì segnate, ma non sconfitte. Come richiede una scrittura di testimonianza, la lingua che sceglie l’autrice per raccontare di queste donne è schietta e sincera”. Così, lo sguardo dell’autrice si fa acuto, e penetra nei meandri delle vite sin qui nascoste delle donne intervistate. Leggiamo ancora nelle motivazioni del Premio.

“Aisha, Nura, Hessa e le altre donne saudite, con le loro testimonianze, ci restituiscono un quadro sfaccettato e autentico della condizione della donna in uno dei Paesi islamici più repressivi, invitandoci a riflettere anche sulla condizione della donna in Italia, in una prospettiva femminile e plurale.  Il taglio di questa opera è veramente femminile e plurale: una donna che guarda, interroga, racconta da vicino altre donne, diverse da lei e fra loro per classe sociale, temperamento, esperienze di vita. Il calore del racconto in prima persona e la vividezza del reportage si alternano alla chiarezza del resoconto storico; seguiamo le vicende politiche di un intero Paese, ma entriamo anche nelle case e negli ambienti di lavoro di chi lo abita, e soprattutto vediamo e ascoltiamo le protagoniste: donne più o meno giovani, più o meno ribelli, più o meno privilegiate”.

Insomma, uno sguardo tutto al femminile, che riesce a raccontare in presa diretta le vite, le emozioni, i desideri delle donne incontrate, mettendo in scena un coro che restituisce tutto il peso che la condizione femminile rappresenta.

“Mescolando con mano sicura memoir e giornalismo, Michela Fontana ha saputo creare un ritratto collettivo delle donne saudite pieno di dettagli e sfaccettature, lontano dai cliché e dalle generalizzazioni”, concludono i giurati di Allumiere. “In un’epoca in cui sembra sempre più difficile trovare chi guarda l’Altro da Sé con reale curiosità, il suo sguardo attento e rispettoso – ma anche lucidamente critico – e la sua scrittura precisa e mai banale sono strumenti preziosi di indagine e comprensione del mondo. Un lavoro meticoloso, empatico a tratti, condotto entrando nelle case, sedendo alle tavole, raccogliendo gli umori di professioniste, studentesse, attiviste, islamiste, scrittrici, mogli, madri – che ci aiuta a far luce su una delle tante prove a cui le donne sono costrette nella loro storia universale, e che faremmo bene a recuperare al nostro immaginario, perché il medioevo dei diritti non è mai scongiurato una volta per tutte”.

Leggi Le motivazioni della giuria

In foto, un momento della premiazione, che si è svolta sabato 3 novembre ad Allumiere (Roma). Accanto alla nostra autrice, Dacia Maraini.

 

 


 

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Le parole delle donne

– LE SUPERNOVE, IL NUOVO COLLETTIVO DI POETE

Parole vitali, parole che significano agire e parole che consentono di dire il mondo inter(n)o.
Parole per costruire ponti e abbattere muri. Sono le parole delle donne che oggi, nel frastuono sgraziato che spesso la rete rappresenta, tornano a impregnarsi di senso.
Nasce da qui il progetto Le Supernove, un collettivo di poete che si raccoglie attorno a un’idea messa a punto con VANDA E- PUBLISHING, che rompe il reale per ricostruirlo con occhi di giovani donne.

Supernove: stelle che esplodono e arrivano con la loro energia.
Sono Roberta Durante, Francesca Genti, Francesca Gironi, Manuela Dago e Silvia Salvagnini, poete che da anni cercano nessi inediti per riscrivere la vita e le emozioni che la animano.
Silvia Salvagnini, conosciuta per Il seme dell’abbraccio e per le performance tra musica e poesia, Roberta Durante autrice dell’ originale audio-libro Nella notte cosmica, Manuela Dago, con la sua attitudine al collage e la passione per la rilegatura, Francesca Genti, poeta, che con il suo saggio del 2018 La poesia è un unicorno (quando arriva spacca) ha creato un caso e Francesca Gironi, attivissima nel terreno della performance poetica e teatrale, si sono cimentate insieme nel creare poesie come “cura”, linguaggio necessario per rintracciare il senso di ciò che siamo.
Noi siamo un innesto di poete a contagio. Siamo poete unite in tentativi di esperimenti e medicamenti” recita il loro Manifesto, che si conclude con una nota che è una dichiarazione d’intenti: “Chi crede nella rima crede nell’amore”.
La loro prima antologia collettiva, pubblicata in formato digitale da VANDA E- PUBLISHING e in formato cartaceo da Sartoria Utopia, è attesa per dicembre.


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© Manuela Dago, Poesage, 2016

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Parole, immagini e social: noi donne abbiamo ancora molto da dire


di Chiara Monateri (D Repubblica, 22 ottobre 2018)


– Dal femminismo contemporaneo alla liberazione di parole, immagini e lyrics: le autrici sono la nuova meraviglia da seguire. Da Ariana Grande a Lena Dunham, passando per Tess Holliday, Chimamanda Ngozi Adichie e Adwoa Aboah ecco chi sono le donne della consapevolezza al femminile.

 

Questa volta i semi sono stati piantati a fondo e per bene e l’ondata di nuova consapevolezza al femminile non si è limitata ad essere un sussurro tra i vari trend mediatici, ma è diventata una vera corrente della quale le voci continuano a moltiplicarsi nelle più diverse forme artistiche: dai testi delle interpreti pop che mettono la figura femminile e le sue storie al centro, alle poetesse di Instagram, fino alle fotografe e videomaker e alle sceneggiature dei nuovi film e serie. Con la voglia di propagare un milione di scintille attraverso una società che ancora ha bisogno di destarsi del tutto. Le ragazze,le millennials, da Londra e New York all’Italia non sono disposte a fermarsi e stanno creando un movimento artistico tenuto insieme da fili invisibili, fatto di personalità e di valori che non possono più essere messi in discussione.

Dio è una donna
Le prime a non tirarsi indietro e a giocare nel ring delle lyrics e dell’esposizione mediatica sono le dive del pop. Ariana Grande, nonostante i suoi 25 anni, ha le idee chiarissime: in un’intervista a BBC Radio aveva dichiarato di sentire pressione, non per il fatto di essere una star globale, ma perché: «Io voglio lottare a nome di tutti, e non solo riguardo a tematiche femminili, altrimenti non avrebbe senso che venga ascoltata la mia voce: non sono solo un’entertainer e voglio aiutare non solo con la mia musica. Voglio cercare di dare a chi mi segue un vero senso di empowerment». Nel video del suo ultimo singolo God is A Woman, trend result su Spotify, Ariana canta dal centro delle galassie, e come ultima immagine ripropone l’opera di Michelangelo La creazione di Adamo prendendo il posto di Dio e circondandosi di figuranti solo donne. A seguirla a ruota è la nuova star Dua Lipa: in una intervista dell’edizione britannica di GQ ha parlato senza peli sulla lingua dell’industria musicale, dicendo che gli atteggiamenti inappropriati emersi dal dibattito #MeToo sono ben presenti e che spesso le donne vengono considerate, a priori, solo interpreti, ribadendo che lei scrive tutte le sue canzoni. Il suo singolo IDGAF (acronimo per I don’t give a f**ck) è diventato il nuovo inno pop della solidarietà al femminile per dimenticare le storie che vanno lasciate per sempre nel cestino.

Condividere l’empowerment
Lena Dunham dopo il successo di Girls ha vissuto un momento difficile riguardante la sua posizione nell’olimpo del nu feminism: attaccata da body shamers e haters che sminuivano il suo ruolo di innovatrice, se ne è liberata senza più finte ipocrisie. Non solo continua a scrivere e produrre serie con tematiche femminili decisamente interessanti come Camping, che ha come protagonista Jennifer Garner, ma non si nasconde più ed esce allo scoperto come esempio di body positivity per le nuove generazioni. Lei stessa ha condiviso sul suo Instagram un “prima e dopo” della sua figura pubblicato da un tabloid in cui racconta l’infelicità che caratterizzava la sua vita nel momento considerato “in forma”, e la gioia nell’essere più curvy, capendo l’importanza dei complimenti “solo dalle persone che contano per motivi che contano”. E sostenitrice della body positivity è anche la modella curvy Tess Holliday che è diventata la prima digital cover star del magazine americano Self: col suo libro The Not So Subtle Art of Being A Fat Girl: Loving The Skin You’re In ha messo l’accento sulla percezione che dobbiamo avere noi stesse di chi siamo, di come ci sentiamo e del nostro corpo, prima di ricevere qualsiasi impressione e pressione che possa arrivare dall’esterno.

Parole e immagini di una storia collettiva
Il mosaico di voci si moltiplica. Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana, è diventata una voce predominante, confermando la possibilità concreta di poter credere in nuove prospettive dopo l’ascesa del movimento #MeToo. Chimamanda, in grado sempre di trovare la voce appropriata, ha dichiarato in una intervista su Vulture che vede tanta tristezza in Melania Trump, nonostante lo sdegno che possa sollevare, individuando l’unico spiraglio di umanità della Casa Bianca proprio nella figura della First Lady. La sua però non è l’unica voce all’attivo. Diablo Cody ha realizzato l’ultimo tassello della sua trilogia al femminile di sceneggiature cinematografiche: Juno, Young Adult e Tully, con Charlize Theron, raccontando storie reali di donne in bilico, ma che al tempo stesso potrebbero essere un sincero ritratto di chiunque. La blogger Karley Sciortino è diventata la nuova paladina delle relazioni e della sessualità, una versione aggiornata di Carrie Bradshaw che non disdegna una buona dose di Samantha Jones: colonnista di Vogue, il suo blog Slutever.com racconta la sua vita e le sue riflessioni, dal BDSM al pro-sex feminism, ovvero il movimento che interpreta la libertà sessuale come uno dei punti irrinunciabili della libertà femminile.

Voci più forti, più vere
Alcune autrici sono diventate di culto per il loro punto di vista penetrante che non teme di svelare anche i lati più intimi. Anne Helen Petersen ha sfondato una porta con il suo Too Fat, Too Slutty, Too Loud, scrivendo un’ode alle donne anticonformiste, le uniche a suo avviso che possono portare luce in questo periodo storico ancora troppo poco illuminante. Su Instagram non mancano le everyday inspirations: Petra Collins e Rupi Kaur seducono con i loro ritratti, in immagini e parole, della nuova bellezza e intimità delle donne contemporanee, e la supermodel Adwoa Aboah porta avanti la pagina Instagram Gurls Talk come luogo di ritrovo ed empowerment “per condividere senza giudizio o stigma”. La youtuber Lucy Fink, entrata a far parte della famiglia di Refinery29, invece di dare lezioni di makeup o stile si lancia alle prese con le sfide ironiche della vita delle ragazze, dal vivere con 50 Dollari per 5 giorni a trovare degli hobby che ci facciano stare davvero bene.

Il collettivo? È di ‘poete’
Anche in Italia le ragazze hanno molto da dire, e lo fanno insieme. Un gruppo di poetesse attive non solo con la pubblicazione ma anche con altre forme d’arte come la performance, il teatro, la musica e i laboratori hanno deciso di far parte di un esperimento tutto nuovo. Non si definiscono “poetesse”, ma un collettivo di poete, e hanno scelto il nome di Supernove. Roberta Durante, Francesca Genti, Francesca Gironi, Manuela Dago e Silvia Salvagnini si sono unite nel progetto di VandAePublishing, la casa editrice al femminile per un progetto sulle parole che curano e che sanno creare un abbraccio collettivo a catena, senza limiti: a Dicembre sarà pubblicata la loro antologia sotto forma di e-book che raccoglie i versi del collettivo. Roberta Durante racconta: «Ci chiamiamo Supernove perché in questo fenomeno la stella esplode e arriva lontano con tutta la sua energia, e questo è quello che vogliamo fare noi, questo è il senso della parola: vogliamo che possa arrivare a chiunque e che sia una cura e anche un’informazione utile che aiuti a trovare idee e soluzioni. Il lavorare insieme è una sfida in un mestiere così individualista, e lo sarà anche esporci insieme sui social. Il nostro obiettivo è la sostanza, ovvero dare qualcosa a chi ci leggerà: anche Instagram può essere un mezzo potentissimo, se porta il messaggio giusto».


 

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A new wave from the Middle East


di Sofia Celeste (L’officiel, settembre 2018)


– La mostra “Contemporary Muslim Fashion” dal 22 settembre al De Young Museum di San Francisco esplora la vastità del repertorio moda del mondo islamico. A Riyahd, in Arabia Saudita, lo scorso aprile si è tenuta la prima fashion week locale e le spettatrici, per l’occasione, si sono tolte il velo. L’emancipazione sta passando per la via delle passerelle. Un’apertura reale verso l’autonomia femminile o solo una strategia economica in vista della fine dell’egemonia petrolifera nei Paesi arabi?

È la settimana della moda a Riyadh e tutta l’élite dell’Arabia Saudita è in prima fila. Durante un evento per sole donne, spettatrici e designer si sono tolte il velo per indossare abiti occidentali in occasione della prima fashion week organizzata al Ritz-Carlton. Di fronte a un pubblico internazionale, le designer saudite hanno presentato le loro collezioni di moda – accanto a marchi europei del calibro di Jean Paul Gaultier – come vere imprenditrici emancipate facendo a pezzi lo stereotipo occidentale che vede la donna musulmana oppressa. Le riforme sociali, come quella che ha concesso alle donne il diritto di guidare, continuano a galvanizzare una nazione da tempo paludata in un sistema sociale basato sulla sharia (la legge islamica). La moda si è rivelata un potente strumento per dimostrare che le donne possono avere tanto talento quanto gli uomini. In passerella, Arwa Al Banawi, del brand The Suitable Woman, e Mashael-Alrajhi, hanno optato per abiti alla moda “occidentali” – una decisione chiaramente incoraggiata dalle nuove riforme del principe ereditario Mohammad bin Salman, il 32enne reale conosciuto come MBS, il quale ha sancito che le donne possono scegliere di indossare abiti convenzionali invece del tradizionale abaya nero con il velo.
Allo show di aprile, le collezioni di Al Banawi erano caratterizzate da look androgini come blazer oversize, pantaloni larghi e felpe da surfista: «Stiamo assistendo a un vero e proprio movimento per l’emancipazione delle donne in tutto il mondo. Sono felice di sostenere le mie connazionali», ha affermato. La fashion week di Riyadh fa parte di un più ampio progetto di MBS il “Vision 2030” ideato per attirare nuove industrie al fine di prevenire un’inevitabile crisi petrolifera. La Riyadh fashion week fa anche parte dell’Arab fashion week, con sede a Dubai, il cui obiettivo è sviluppare una catena di vendita al dettaglio e manifatturiera nei centri produttivi della moda araba che prevede di non delocalizzare l’economia legata al settore mantenendo la produzione in paesi come l’Egitto, noto per il suo cotone pregiato, la Tunisia per la sua seta e il Marocco per le sue concerie. Questo accontenterebbe le crescenti esigenze dei consumatori di beni di lusso ad Abu Dhabi, Riyadh e Dubai. Secondo Thomson Reuters (multinazionale canadese del settore dei mass media e dell’informazione), si prevede che i consumatori musulmani spenderanno più di 368 miliardi di dollari in modest fashion entro il 2021. Più della metà della popolazione saudita ha meno di 25 anni e oltre la metà di tutti i suoi laureati è di sesso femminile. Creare posti di lavoro e pari opportunità è in cima alla lista delle priorità economiche ed è anche un modo per il governo di rafforzare le piccole e medie imprese che attualmente contribuiscono solo per il 20% all’economia nazionale.
«È chiaro che una cassiera non può permettersi di spendere tutto il suo stipendio per pagare un autista che la porti a lavoro, quindi è più logico lasciarla guidare», ha affermato Michela Fontana, autrice italiana del libro “Nonostante il velo” (Morellini editore in co-edizione con VandA. ePublishing), che per due anni e mezzo ha vissuto a Riyadh intervistando donne di ogni ceto sociale.
Nel centro della capitale saudita si erge il monumentale Kingdom Centre di 99 piani su una città che conta cinque milioni di abitanti. L’edificio ospita brand internazionali come Victoria’s Secret, Gucci e Roberto Cavalli. Al suo interno, offre una visione più intima della società saudita: le donne velate vengono scortate dai mariti, mentre le ragazze più disinibite indossano degli abaya semiaperti, con i capelli al vento. Molti negozi impediscono alle donne di entrare senza il proprio guardiano, sfoggiando cartelli che recitano “Solo famiglie”. «Le donne sono considerate eterne minorenni a cui non è permesso nemmeno viaggiare senza l’autorizzazione di un uomo», ha spiegato Fontana, dichiarando che l’emancipazione passa per l’abolizione della figura del guardiano maschile. Lubna Suliman Olayan, per esempio, amministratore delegato donna della Olayan Financing Company (inserita tra le 100 persone più influenti del 2005 dal “Time”) ha potuto puntare al successo senza la zavorra di un patriarca (il marito è americano). «Penso si debba fare attenzione prima di dare per scontato che si tratti di riforme autentiche», avverte Nadine Naber, professoressa di studi di genere e delle donne e di studi asiatici americani all’Università dell’Illinois a Chicago e autrice di “Arab America: Gender, Cultural Politics, and Activism”. «È importante ricordare che questa è una strategia comune in Medio Oriente, in cui leader non democratici offrono riforme selettive legate ai diritti delle donne così da apparire riformisti agli occhi dei media in Occidente», ha affermato Naber, sottolineando che il governo Usa ha ignorato le notizie di maggio sulla carcerazione degli attivisti Eman al-Nafjan, Loujain al-Hathloul, Aziz al-Yousef e Nouf Abdulaziz.
Dal 22 settembre al 6 gennaio al De Young Museum di San Francisco ospiterà la mostra “Contemporary Muslim Fashion”, esibendo lo stile della comunità musulmana. «La diversità della popolazione di fede islamica nella Bay Area e il contributo del nostro gruppo di sostegno hanno avuto un’influenza determinante sull’organizzazione della mostra e sul desiderio di produrre un’istantanea globale delle mode musulmane contemporanee», ha affermato la curatrice Jill D’Alessandro, aggiungendo che San Francisco ospita una delle più grandi comunità degli Stati Uniti. Gli stessi designer hanno abbracciato lo stile mediorientale per soddisfare i bisogni dei loro maggiori consumatori – da qui i burkini, i hijab e gli abaya nelle collezioni di Alberta Ferretti e Max Mara per esempio – a dimostrazione che le donne musulmane sono una forza da non sottovalutare.


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Com’è cambiata la vita delle donne saudite ora che possono guidare? Parla Michela Fontana, scrittrice che ha vissuto in Arabia Saudita


di Anna Ditta (TPI, 10 settembre 2018)


Michela Fontana è autrice di Nonostante il velo”, un libro che raccoglie decine di interviste a donne saudite. TPI l’ha intervistata.

“Guideremo quando il re ci permetterà di farlo. Non ce la possiamo fare da sole”.

Quando Michela Fontana ha sentito pronunciare queste parola da una donna e scrittrice saudita di nome Munira, ha pensato che fosse “una risposta realista” da parte di una persona che sa di vivere in un paese in cui “il potere è nelle mani degli uomini”.
Alcuni anni dopo, le parole di Munira sono diventate realtà. Dal 24 giugno scorso le donne in Arabia Saudita possono guidare. Possono farlo perché è stato il re – o meglio, il principe ereditario Mohammad bin Salman – a concedere loro questo diritto.
Eppure le proteste per il diritto alla guida in Arabia Saudita ci sono state, le prime manifestazioni risalgono addirittura al 1990. Come mai allora la svolta è arrivata proprio adesso?
TPI.it ne ha parlato con Michela Fontana, giornalista e saggista milanese autrice di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita.
Michela Fontana ha vissuto a Riad da luglio 2010 a dicembre 2012. In questo periodo ha incontrato e intervistato decine di donne saudite. Ha vissuto nelle loro città, è entrata nelle loro case, ha incontrato le loro madri o i loro fratelli, ha mangiato con loro, è stata ai loro matrimoni.
In questo modo ha potuto raccontare l’universo femminile dell’Arabia Saudita “dall’interno”: un’esperienza unica, se si considera che il paese è praticamente inaccessibile agli stranieri.
Unico è anche il racconto che l’autrice lascia fare alle donne stesse, senza giudizi o preconcetti, offrendo loro lo spazio per resentarsi con la loro stessa voce.
Attiviste e conservatrici, madri e lavoratrici, giovani e anziane, docenti universitarie e giornaliste: ci sono tutte queste voci nel resoconto che Michela Fontana ha pubblicato in edizione digitale a marzo 2015, e arrivato nelle librerie a maggio 2018 grazie a una collaborazione tra VandA.ePublishing e Morellini editore.

Dal 24 giugno le donne in Arabia Saudita possono guidare. Ma si tratta di una concessione del sovrano più che di una conquista frutto delle lotte delle donne. Possiamo definirla una vittoria a metà?
Sì, assolutamente. È senza dubbio un passo avanti, ma allo stesso tempo è una concessione del re, come se lui fosse il “grande guardiano” delle donne saudite.
Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.
Non dimentichiamoci che alcune delle donne che hanno lottato pacificamente per avere il diritto di guidare sono state arrestate proprio un mese prima che le donne saudite si mettessero al volante.
Con la sua benevolenza concede questo diritto, ma lo fa nei suoi termini e se ne prende la paternità.
Ha voluto mandare un segnale alle donne: vi concedo quello che vi voglio concedere, che nessuna se ne prenda la paternità.
Queste donne ora si trovano in prigione senza avvocato, senza processo e senza la possibilità di comunicare con la famiglia.
Detto ciò, il diritto di guidare è comunque una vittoria, perché ci sono delle aperture.

In Arabia Saudita continuano comunque ad essere negati molti diritti alle donne. Uno dei punti cruciali è la figura del guardiano (generalmente il padre o il marito). Il diritto di guidare cambierà la quotidianità delle saudite? Se sì, come?
Potranno prendere la patente e, per esempio, andare a vedere una partita di calcio o al cinematografo col padre o col marito.
Non è stato ancora chiarito ufficialmente se la donna può mettersi al volante da sola o deve avere accanto a sé un parente maschio che l’accompagni.
Ma se il guardiano di una donna decide che lei non può guidare o non può uscire di casa – neanche a piedi – può farlo.
Quando negli anni Sessanta le bambine hanno avuto il permesso di frequentare la scuola, all’inizio molte famiglie erano contrarie.
Negli anni, a poco a poco, la società si è evoluta e sempre più famiglie hanno mandato le figlie a scuola.
Oggi mandare è una cosa del tutto normale in Arabia Saudita.
Può darsi che anche con la guida sarà così. All’inizio soltanto poche avranno il permesso di guidare, ma lentamente tutti lasceranno che le figlie si mettano alla guida.

Che ruolo ha il guardiano nella vita di una donna saudita?
Il guardiano mantiene ancora il potere assoluto sulla vita di una donna che, ad esempio, non può viaggiare senza la sua autorizzazione.
Ora però sembra che ci siano alcuni campi in cui le donne possono agire senza l’autorizzazione del guardiano.
Ho letto che possono, ad esempio, aprire una piccola impresa senza l’autorizzazione del guardiano, ma bisogna vedere se questa regola viene applicata.
Possono anche accedere a determinati lavori o entrare in ospedale senza l’autorizzazione del guardiano, ma solo in alcuni casi.
Il diritto di guidare è sicuramente un passo avanti, ma non vuol dire che ora le donne saudite siano libere o siano considerate al pari degli uomini.
L’Arabia Saudita è uno stato basato sulla disparità di genere. Ancora oggi, le saudite sono considerate cittadine di serie B.

Come emerge dalle tue interviste, molte donne vedono il guardiano come una figura di protezione e sono contrarie alla sua abolizione, nonostante questo possa limitare la loro libertà. Come si innesca questo meccanismo?
L’Arabia Saudita è molto intrisa di cultura tribale e in tutta la tradizione dei paesi arabi la donna è sottomessa all’uomo. Ma mentre è sottomessa la donna è anche protetta.
Nella tradizione locale la donna è il bene prezioso della famiglia e della tribù, è quella che dovrà partorire i figli – possibilmente figli maschi – e deve essere protetta.
Per esempio, per la legge islamica il marito deve mantenere completamente la moglie. Anche se lei lavora, può non spendere un centesimo per la famiglia, perché è il marito che deve provvedere a lei.
Mi è capitato che alcune donne saudite mi chiedessero: “Ma voi come fate? Voi siete abbandonate. Voi pagate le cene se andate al ristorante, se lavorate dovete dare i soldi alla famiglia. Voi non siete protette”.
Delle giovani ragazze mi hanno detto: “Ma il mio papà con me è buono, mi garantisce tutto quello che ho, sono contenta”.
Diciamocelo, la libertà è un valore in cui noi crediamo, ma una persona libera è anche meno protetta. Costa fatica rinunciare a questa protezione, ma non dimentichiamoci che colui che protegge può diventare anche un feroce carceriere.

È un’assenza di parità di diritti ma anche di doveri quindi. Pensi che si arriverà all’abolizione della figura del guardiano?
Può anche darsi. Ma sarà un processo molto lento e dovrà passare per movimenti sociali significativi.
È difficile prevedere come queste culture possano evolvere in tal senso, però altri paesi di culture diverse, incluso il nostro, hanno cambiato il modo di considerare le donne.
Può darsi che ci riescano anche i paesi arabi e l’Arabia Saudita, che tra tutti esprime queste leggi di segregazione delle donne in modo più estremo.

Dalle tue interviste emergono due linee di pensiero da parte delle donne che auspicano le riforme. Ci sono quelle pronte a lottare per dare una scossa alla società e quelle che vogliono un cambiamento graduale. Chi di loro ha ragione?
In ogni società c’è chi ha lo spirito dell’attivista e chi invece attende la riforma graduale.
Le suffragette si sono fatte anche mettere in prigione e sono anche morte per la lotta, delle cui conquiste hanno goduto le altre.
Nessuno può chiedere alle donne saudite di rischiare la prigione e rinunciare a tutto ciò che hanno per avere un diritto.
In Arabia Saudita le donne che hanno lottato sono finite in prigione o hanno dovuto lasciare il paese.
Se si vuole vivere tranquillamente nel paese, è chiaro che conviene di più aspettare riforme graduali. Chi vuole accelerare, deve essere disposto a pagare conseguenze terribili. Ma io non posso dire chi ha ragione.

Però se il primo diritto concesso è stato quello di guidare, forse è proprio per le proteste delle donne che si sono messe alla guida e hanno attirato l’attenzione a livello internazionale sulla questione.
Probabilmente questo è dovuto più al fatto che adesso l’Arabia Saudita vuole dare un’immagine di modernizzazione al mondo e, in particolare, agli Stati Uniti, con cui ha un ottimo rapporto da quando c’è Trump alla Casa Bianca.
Spesso le autorità saudite, anche mentre io vivevo nel paese, dicevano che più le donne avrebbero manifestato e meno diritti avrebbero ottenuto.
Per le autorità saudite non c’è nulla di più terribile che vedere sui media stranieri un’accusa sul modo in cui trattano i loro sudditi.
Infatti una delle accuse che hanno rivolto alle donne che hanno incarcerato adesso è di aver parlato con i media stranieri. Quindi non me la sento di dire che il diritto di guidare sia arrivato anche grazie alle lotte. Certamente queste hanno dato visibilità e hanno fatto sì che se ne parlasse all’estero.
La guida ha un valore simbolico molto forte e hanno cominciato da quella, anche perché l’Arabia Saudita era l’unico paese al mondo in cui le donne non potevano guidare.

Quindi Mohammed bin Salman ha voluto avviare questa stagione di riforme per una ragione di convenienza politica?
Direi di sì. Prima della rivoluzione del 1979 in Iran c’erano stati anche momenti in cui l’Arabia Saudita aveva cominciato ad aprirsi. Poi c’è stata una regressione.
Può anche darsi che il principe creda genuinamente in una società più aperta, però c’è anche la volontà di sedersi al tavolo con le potenze Occidentali, e non lo si può fare senza che le donne guidino.
Poi ci sono anche spinte economiche. Il governo saudita vuole che alla lunga l’Arabia Saudita non sia più dipendente dal petrolio. Vuole che uomini e donne lavorino. E se vuoi farle lavorare devi farle guidare.

Un’altra spina nel fianco delle donne saudite sono i mutaween, la polizia religiosa che a volte si accanisce con loro, come racconti nel tuo libro.
Una delle innovazioni che è stata fatta da Mohammad bin Salman limita il potere dei mutaween, che ora non possono più arrestare persone ma devono sempre passare attraverso la polizia.
Bisognerebbe verificare se questa riforma è stata attuata. Si tratta di un modo per togliere un po’ di potere alla classe religiosa. Anche questo è un passo avanti oggettivo.

Come ha recepito la classe religiosa l’annuncio della stagione di riforme?
La storia dell’Arabia Saudita è proprio un tiro alla fune tra la casa regnante dei Saud e i religiosi.
Quando il re impone delle riforme, i religiosi non saranno contenti ma devono accettarlo.
Questo è successo anche quando il re Faisal negli anni Sessanta concesse alle bambine di andare a scuola come i bambini, in scuole femminili ovviamente. Anche in quel caso i religiosi si opponevano, ma poi hanno accettato la questione.
A meno che non ci siano rivoluzioni islamiche, è casa Saud che ha il vero potere.

Le riforme sono state affiancate anche da una feroce repressione che in alcuni casi ha colpito anche membri della famiglia reale saudita.
Più che una feroce repressione, il fatto di aver incarcerato molti principi, accusandoli di corruzione, è stato un segno fortissimo che Mohammad bin Salman vuole avere saldo il potere nelle sue mani.
Non vuole che i principi possiedano troppe ricchezze e vuole far vedere chi ha il potere. Bisogna vedere se riuscirà a mantenere questo polso di ferro senza essere criticato da altri membri della casa reale.
Sotto esame c’è il suo piano Vision 2030, per ridurre la dipendenza del paese dal petrolio, ma anche la guerra che sta conducendo in Yemen, che è costata moltissimi soldi e finora non ha portato ai risultati sperati.

Con le tue interviste hai scavato nella società saudita e nelle dinamiche familiari delle donne saudite. Uno degli aspetti che colpisce di più è quello della violenza domestica, che spesso non viene neanche denunciata. Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?
La violenza domestica è diffusa come in tutto il mondo, ma in Arabia Saudita non è perseguita.
Se una donna va dalla polizia a denunciare la violenza del guardiano, gli agenti poi comunque la riportano da lui e, anzi, magari accusano la donna di disobbedienza.
Non penso che la situazione in questi anni sia cambiata molto. So che una riforma adesso consente alle donne di andare dalla polizia senza il guardiano, ma anche qui bisogna vedere se viene applicata.
Se le riforme riusciranno a mettere il dito in questa piaga allora davvero riusciranno a mordere sui fattori contro la libertà e l’emancipazione delle donne.
Ma ricordiamoci che l’Arabia Saudita è un paese chiuso, che non pubblica di certo inchieste giornalistiche o dati sul fenomeno, quindi tutto quello che sappiamo sulla violenza domestica si basa sul passaparola.

Nonostante le riforme annunciate molti attivisti e attiviste saudite restano in carcere. Penso a Raif Badawi ma anche ad attiviste donne. Pensi che la comunità internazionale possa fare di più per chiedere la loro liberazione?
Non penso. Quando il Canada ha preso posizione per chiedere di liberare questi attivisti, l’ambasciatore canadese in Arabia Saudita è stato espulso ed è iniziata un’operazione di boicottaggio del Canada.
Era l’unico paese che aveva preso una posizione ufficiale sui prigionieri sauditi. Sinceramente non credo che l’America di Trump avvierà una battaglia sui diritti civili in Arabia Saudita. Se non lo fanno gli Stati Uniti cosa possono fare gli altri paesi?

Ti sei sentita giudicata dalle donne saudite in quanto occidentale e non musulmana?
Non mi sono sentita giudicata. La stragrande maggioranza delle donne che ho intervistato hanno avuto con me un atteggiamento positivo.
Credo sia stato dovuto al fatto che neanche io le ho mai giudicate, ho sempre cercato di rispettarle come parte di una cultura che non conoscevo. Loro mi hanno ripagato con una bellissima apertura. Ho sentito una comunanza anche femminile, oltre che come persone.
Ma non posso generalizzare. Ci sono intere classi di saudite donne che hanno diffidenza verso gli occidentali, e alcune le ho anche conosciute.
Hanno dei pregiudizi molto forti nei nostri confronti. Pensano che veniamo violentate per strada, che qui da noi c’è la libertà sessuale più sfrenata.

Qual è il tuo ricordo più bello del paese?
Per me tutta l’esperienza di vita in Arabia Saudita è stata bella. Sapevo che sarebbe stato un periodo limitato e poi ero anche una privilegiata: ero un’occidentale e ovviamente mio marito mi lasciava uscire liberamente col mio autista.
Avevo anche circuiti occidentali in cui mi sentivo accettata e conoscenze di sauditi che avevano un atteggiamento di accettazione nei miei confronti.
Naturalmente non andrei mai a vivere in Arabia Saudita. Dopo un po’ che si vive lì, se si prende un aereo e si torna in Europa si sente finalmente di respirare di nuovo.
Svanisce qualsiasi opprimente sensazione di segregazione: vestito nero, velo nero, abiti lunghi fino ai piedi. E non bisogna stare attenti se si entra in un bar maschile o femminile.


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Helena Janeczeck, Premio Strega, un brano

Dopo “soli” 15 anni finalmente il Premio Strega a una donna! L’ultima era stata Melania Mazzucco nel 2003. Ed è un premio due volte al femminile: al centro del racconto una donna, la giovanissima compagna del celebre fotoreporter Robert Capa, ribelle ed entusiasta, che è stata il simbolo dell’ultimo anelito anti-dittatoriale prima dell’avanzata nazista in Europa. «Lei lo ha aiutato a diventare una celebrità. Ho voluto rendergliene merito», ha detto la scrittrice.

“Adesso spero che dopo di me possano vincerlo tante altre donne e che le donne continuino ad avere la giusta attenzione. Quest’anno eravamo in sei su dodici concorrenti, tutte con libri diversi che dimostrano la ricchezza delle storie raccontate. In Italia tutto questo è possibile perché ci sono bravissime scrittrici”.
“… il lavoro di una scrittrice fatica a ottenere, quando lo merita, il giusto riconoscimento. In settant’anni il Premio Strega è stato vinto appena dieci volte da una donna. È un rilievo sociologico piuttosto che critico-letterario, visto che molti autori che consideriamo grandi non appaiono in quell’elenco. Però l’aggettivo “grande” è quasi sempre associato agli uomini, mentre le scrittrici sono “brave”, come le prime della classe. Producono libri “belli”, raramente “importanti”. Personalmente non posso lamentarmi, ma ho trattato “temi importanti” come la Grande Storia o addirittura prettamente maschili come la guerra. Gli stereotipi di genere esistono nella testa sia degli uomini che delle donne: fanno sì che se racconti storie private con molti personaggi femminili, forse soltanto il Nobel, come quello vinto da Alice Munro, riesce a consacrare l’universalità del tuo valore letterario. L’universale è concepito come maschile: ancora oggi gli uomini – inclusi parecchi scrittori – tendono a non leggere le donne, partendo dal presupposto che ci sia poco da scoprire o da imparare dai loro libri. Ma non si fanno un gran servizio, nella sostanza, visto che noi colleghe nel frattempo possiamo aver amato e assimilato sia le “trame da matrimonio” di Jane Austen, sia la caccia alla balena di Herman Melville.”

Helena Janeczeck, scrittrice, traduttrice e giornalista, è nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca; vive in Italia da oltre trent’anni. Dopo aver esordito con il libro di poesie Ins Freie (Suhrkamp, 1989), ha scelto l’italiano come lingua letteraria. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori 1997; Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), Bloody Cow (Il Saggiatore, 2012). Ha co-fondato il blog collettivo Nazione Indiana, inoltre ha collaborato con le riviste Nuovi Argomenti, alfabeta2, Lo Straniero, pagina99 e scritto per la Repubblica, l’Unità, Il Sole 24 Ore.

Nel nostro catalogo Helena Janeczeck ha partecipato con un brano nel saggio Gestazione per altri, il titolo è Le madri surrogate, soggetti e non oggetto del desiderio altrui potete scaricarlo qui.

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Via all’Invasione di libri

 

– Si parte martedì con Pierangelo Dacrema. Anche quest’anno il Festival delle Invasioni – Stagioni d’estate dedica una sezione di “Beni parlati”, luoghi di rilevanza storica che diventano location per la presentazione di novità editoriali.

Si comincia dal Chiostro di San Domenico martedì 10 luglio (ore 19), con l’economista Pierangelo Dacrema, che presenta il suo libro “La buona moneta” (ed. All Around). Docente di economia degli Intermediari finanziari all’Università della Calabria, Dacrema ha scritto diversi libri, e non solo di carattere accademico.

Conversando con il sindaco Mario Occhiuto e il prof. Franco Piperno, ci dirà qual è la sua ricetta per azzerare il debito pubblico e – come dice nel sottotitolo al libro – ‘vivere felici o solo un po’ meglio’.

A distanza di un anno, torna a Cosenza, di cui è cittadino onorario, Antonio Monda. Il suo ultimo romanzo, il sesto della sagra newyorkese, ancora per i timbri di Mondadori, è “Io sono il fuoco” e lo presenta, sempre nel Chiostro di San Domenico venerdì 13 luglio (ore 19).

Questa volta Monda – scrittore, giornalista, professore alla New York University, Direttore Artistico della Festa del Cinema di Roma e del festival letterario “Le Conversazioni” – ci porta nella New York degli Anni Quaranta, dove si rifugia il protagonista Baldur Cranach, “uomo pavido e mediocre” perché non ha salvato alcuni ebrei dal campo di concentramento.

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#Per approfondire: Arabia Saudita, dietro il velo delle donne


di Roberto Roveda (L’unione Sarda, 4 luglio 2018)


– La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita […].

La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa con enfasi un po’ su tutti i media: dallo scorso 24 giugno le donne possono guidare anche in Arabia Saudita, uno degli stati più chiusi di fronte a ogni tipo di emancipazione femminile. La revoca del divieto è stata voluta dal principe ereditario Mohammed Bin Salman ed è stata interpretata da molti come un segnale di rinnovamento importante nel Paese più integralista del mondo islamico, celebre per la segregazione femminile, per la poligamia e per il mancato rispetto dei diritti umani.

Non bisogna infatti dimenticare che nel mondo saudita le donne sono confinate nel ruolo di mogli e madri disegnato per loro dalla Sharia, la legge islamica, e che dipendono da un guardiano – il marito, il padre, un fratello oppure un parente maschio – per qualsiasi scelta e decisione che debbano prendere. Senza il consenso del guardiano una donna saudita non può lavorare ma neppure uscire di casa oppure viaggiare. Insomma, le donne saudite vivono ancora in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni, di ingressi separati.

Un harem in cui è entrata la giornalista Michela Fontana, che ha vissuto e lavorato a Riad per due anni e mezzo e ha avuto l’occasione di entrare in contatto con le donne saudite, dietro la rigida cortina che le separa dal resto della società. È nato così Nonostante il velo (Morellini editore, 2018, Euro 17,90, pp. 416. Anche EBook), libro-inchiesta che permette di cogliere attraverso le voci delle donne saudite i paradossi e le ambiguità del Paese, e di scoprire che sono proprio loro a esprimere le più forti istanze di rinnovamento. In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, infatti, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi.

Tutto questo sta avvenendo in un momento chiave per la storia del Paese, con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte, l’erede al trono, che ha intrapreso un percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

Ma veramente le cose stanno cambiando in Arabia come il permesso di guida sembrerebbe indicare? Oppure qualcosa sta mutando perché tutto resti uguale? Lo chiediamo a Michela Fontana:
“Sono vere entrambe le cose. Da un lato sono in atto cambiamenti epocali e il permesso di guida è un atto rivoluzionario in un Paese come l’Arabia dove alcune donne che hanno provato a infrangere il divieto sono finite addirittura in carcere. Sicuramente l’erede al trono punta a modernizzare il Paese e ha deciso di fare aprire i cinematografi e di concedere visti turistici, mentre prima si poteva entrare in Arabia solo se si era musulmani e si voleva andare alla Mecca. Allo stesso tempo l’Arabia rimane un Paese governato da una monarchia assoluta e anche il permesso di guidare alle donne è una concessione reale non un diritto acquisito”.

Perché allora queste concessioni?
“La ragione principale riguarda l’economia saudita. A lungo il Paese si è sostenuto solo con i proventi del petrolio. Ora si vuole realizzare un vero sviluppo economico e tutti, uomini e anche donne, devono contribuire con il loro lavoro. Chiaramente se una donna non può guidare difficilmente può lavorare. Se fa la cassiera di un supermercato non può certo pagarsi l’autista”.

L’erede al trono punta anche a limitare il ruolo dei religiosi, così influenti nel Paese?
“C’è anche questo obiettivo, anche se già le riforme sono un segnale che i religiosi più radicali sono indeboliti. Intendiamoci, il sovrano saudita è il custode della Medina e della Mecca, ha un ruolo fortissimo in campo religioso, però ora la monarchia vuole limitare le frange religiose più estreme e integraliste. Sono stati, per esempio, ridotti i poteri della polizia religiosa che interveniva in maniera spesso violenta anche di fronte a un velo fuori posto. Però l’Arabia è comunque la patria di una forma di Islam repressivo, dogmatico e restrittivo, pieno di regole estremamente rigide e in questo non è cambiata”.

Il suo è un libro di dialoghi e interviste con donne saudite. Le donne che ha conosciuto guardano all’Occidente e ai suoi valori come punti di riferimento?
“Direi di no. Sono certamente influenzate dallo stile di vita occidentale ma anche se una donna o un uomo saudita studiano e lavorano in Occidente questo non cambia la loro cultura di fondo. I valori in cui sono cresciute le donne rimangono molto sentiti: l’attaccamento alla famiglia, l’importanza dell’appartenenza tribale, l’adesione a una forma molto rigida di Islam”.

Cosa pensano allora di noi occidentali?
“Il più delle volte pensano che le nostre libertà sono eccessive. Se vengono in Occidente e vedono che noi donne qui godiamo di molti diritti e libertà non per questo ci apprezzano necessariamente. Anzi, a volte ci ritengono poco serie, quasi della prostitute”.

Cosa le attira allora del mondo occidentale?
“Sto generalizzando naturalmente perché non esiste un modello unico di donna o uomo saudita. Però in generale l’Occidente offre ottime scuole, grande preparazione e possibilità lavorative e questo attira anche se non si condividono i valori occidentali. Una donna mi ha detto: ʻQuando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioielloʼ. Oppure mi è capitato di parlare con una donna che aveva studiato in Occidente, aveva i suoi figli negli Stati Uniti però mi ha confessato di essere stata felice quando i terroristi – che ricordiamo erano per la maggior parte sauditi – hanno fatto crollare le Torri gemelle a New York. Insomma dobbiamo sempre ricordarci – e il discorso vale non solo per i sauditi ma per molta parte del mondo arabo – che il fatto che frequentino il nostro mondo non significa che ci sia apprezzamento o ammirazione”.

Nel suo libro colpiscono le tante regole, limitazioni, norme a cui devono sottostare le donne e in una certa misura anche gli uomini. Cosa, tuttavia, l’ha colpita positivamente dell’Arabia Saudita?
“La forza dei legami famigliari, l’ospitalità, ma soprattutto mi ha colpito positivamente la vivacità delle donne che ho incontrato, la loro energia positiva, il loro desiderio di emanciparsi pur rimanendo all’interno della loro cultura e della loro religione. Certo la strada è ancora lunga, oggi le donne possono guidare ma dipendono ancora per tutta la vita da un guardiano. Solo quando la figura del guardiano sarà abolita in Arabia Saudita allora le donne potranno considerarsi membri della società al pari degli uomini. Come, con quali tempi e se questo avverrà è tutto da vedersi”.


 

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Le difficoltà vanno abbracciate. Come sulla bici


di Marco Voleri (L’Avvenire, 5 luglio 2018)


Pietro era pronto a salire sulla sua bicicletta nuova fiammante, che desiderava da mesi. «Dobbiamo imparare ad andarci!», gli disse il padre. Scesero le scale di casa e andarono in un piazzale poco distante. «Pietro, sei pronto ad abbracciare la tua bici?». «Abbracciare?», chiese il bambino al padre, perplesso. Salì in sella e grazie all’aiuto delle ruote piccole cominciò a guidarla. «Bene Pietro! Adesso togliamo una ruota piccola». Il padre andò avanti con pazienza, finché non arrivò il momento di togliere tutte le protezioni. Pietro senza ruote piccole cadde più volte, arrabbiandosi. «Questa bici fa schifo, non ci salgo più!».
Gli scienziati ci dicono che il cervello insegue la comodità ma impara dalle difficoltà. Di fatto non c’è un metodo preciso per imparare ad andare in bicicletta: bisogna cadere per imparare a stare in equilibrio. La capacità di rimanere in piedi si acquisisce abbracciando la difficoltà, provando tutti i modi possibili per riuscirci. La fiducia in noi stessi non è un dono ma il frutto delle esperienze affrontate, il risultato dei piccoli o grandi problemi risolti.
Dall’altro lato del piazzale siedono madre e figlia di dieci anni. «Gilda, pouvez-vous me passer ce sac, s’il vous plaît?». «Sì mamma, eccola». Un’anziana signora di passaggio non riesce a trattenersi: «Che brava, così piccola sa già il francese?». «Da quando è nata le parlo in francese – risponde la mamma – e lei risponde in italiano. Poco male, una lingua in più l’ha imparata».
In mezzo a qualsiasi difficoltà si trova un’opportunità, ogni sfida è un modo per crescere. Per un bimbo è magari un gioco da vincere. Di fatto rispondere in italiano a una domanda fatta in un’altra lingua significa superare un ostacolo quotidiano, come se fosse un vero e proprio allenamento. La fatica e la costanza accresce in Evìta, dieci anni, la consapevolezza del proprio valore, giorno dopo giorno. Attraverso le asperità si arriva alle stelle, diceva Seneca. E noi cosa decidiamo di fare oggi? Siamo pronti ad abbracciare le nostre difficoltà?

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Donne e Arabia Saudita: non basta la patente


di Valeria Palumbo (La 27esima ora, 28 giugno 2018)


– «Ti ho amato al primo twit».

Ammetto che, di 400 pagine densissime e tutte da leggere di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore), la prima cosa che mi viene in mente è: «Ti ho amato al primo twit». Perché è forse l’espressione che, nell’indagine di Michela Fontana, matematica, saggista e giornalista, riassume meglio le contraddizioni e le difficoltà delle saudite (e, in parte, dei sauditi). Ovvero l’assurdità di una segregazione totale che non solo rende impossibili i rapporti tra i giovani (in un Paese giovanissimo) ma, di fatto, complica perfino la possibilità di sposarsi, obiettivo per il quale le ragazze vengono ancora educate. Al tempo stesso la diffusione di Twitter svela la scappatoia formidabile offerta, pur tra mille ostacoli, da Internet.

Orgoglio e pregiudizio
La situazione è paradossale perché ricorda incredibilmente quella dell’Inghilterra georgiana di Jane Austen, unita all’ossessione per “l’onore” di pirandelliana memoria e all’abbigliamento delle donne sarde ancora negli anni Sessanta. “Ricorda” non vuol dire che la situazione è uguale ma la somiglianza smonta un pregiudizio (loro e nostro). Ovvero che il mondo islamico non può vivere la progressiva conquista dei diritti umani e civili dell’Occidente, in particolare per quanto riguarda le donne, perché è “diverso”. Le donne Occidentali hanno subito gran parte dei soprusi che oggi opprimono le saudite. Fuori tempo massimo: secondo il World Economic Forum l’Arabia Saudita è al 138esimo posto su 144 nell’indice mondiale delle pari opportunità.

Il peso del guardiano
Così, se è vero che anche le italiane hanno avuto, fino al 1919, la tutela maritale, che non potevano testimoniare nelle cause di diritto civile fino alla riforma post-unitaria del 9 dicembre 1877, voluta da Salvatore Morelli, e che le antiche romane avevano un tutore per qualsiasi atto, proprio come le saudite oggi (teoricamente, le matrone dovevano pure uscire di casa velate), è anche vero che 2mila anni, come pure cento fanno la differenza. E un istituto surreale come quello del wali al-amr, del guardiano (padre, marito, fratello, figlio, zio…), che fino a qualche tempo fa autorizzava persino una donna ad andare in ospedale a partorire, appare fuori dal tempo in quasi tutto il mondo musulmano. E se è vero che una certa segregazione vale anche nel maggior e avversario dell’Arabia Saudita, l’Iran (dove le donne si battono ancora per andare allo stadio, al contrario delle saudite che possono farlo dal gennaio 2018), la totale divisione dei sessi è un ricordo a Teheran. E una realtà a Riad.

Un mondo di sole donne
Michela Fontana ha passato due anni e mezzo, dal luglio 2010 al dicembre 2012 a intervistare saudite di classi, età, istruzione, idee, inclinazioni diversissime. Ha potuto farlo proprio in quanto donna. Come già notava la scrittrice statunitense Edith Wharton in Harem, moschee e cerimonie (nella traduzione italiana di Editori Riuniti) gli uomini occidentali non sanno nulla degli harem e ci fantasticano su (con un buon grado di perversa fantasia) semplicemente perché non possono entrarci. In Arabia Saudita nemmeno le sale d’attesa degli ospedali sono miste. La segregazione è ossessiva ma, a spiega Fontana, così interiorizzata che spesso le saudite non ci fanno caso. Almeno le più anziane. Perché le giovani appaiono sempre più diverse: rappresentano, non a caso, il 58% della popolazione universitaria. Paradossalmente sono oggi spesso i padri a spingerle a studiare: una donna istruita può valere di più sul mercato matrimoniale.

Internet piace a progressisti e conservatori
Quello che appunto rende prezioso Nonostante il velo è il tempo che Michela Fontana ha dedicato agli incontri e anche la sua totale “laicità”, nel senso che ha accettato senza ribattere qualsiasi risposta (soprattutto i giudizi tranchant sulle donne occidentali), ha insistito davanti alle ritrosie, ha cercato di capire anche gli atteggiamenti più contraddittori. Che non mancano: la poligamia, molto diffusa, è sostenuta sul web da alcune ragazze istruite. La religione, onnipresente, non ha eliminato le credenze magiche. I social piacciono ai progressisti come ai conservatori. I divorzi sono diffusissimi e le single sono sempre di più. Ma spesso a rendere impossibile un matrimonio è il radicato razzismo tra tribù. La segregazione rende gli abiti sexy e i discorsi sul sesso ben più diffusi che tra noi. La maternità è un totem, ma il numero di figli è crollato. L’inglese è diffuso, come pure la tendenza di studiare all’estero. Ma alla fine i progressi che la società sta facendo, con la concessione della guida alle donne, la riapertura dei cinematografi e la nomina di alcune donne in posti di rilievo, sono dovuti a un principe ereditario, Mohammad bin Salman Al Saud, che ha studiato in patria.

Vision 2030
Condensare qui le 400 pagine di Michela Fontana senza banalizzare le risposte delle donne intervistate e senza dimenticare aspetti importanti (per esempio la violenza familiare, l’ipocrisia dei matrimoni “a termine”, la povertà diffusa, non soltanto tra vedove e divorziate) è impossibile. Una cosa è certa: rispetto al periodo della sua indagini anche l’Arabia Saudita è cambiata. Vision 2030, il programma reale di sviluppo, pur viziato da una caratteristica di fondo (il Paese è una monarchia assoluta ed è proprietà della famiglia regnante), sta imponendo mutamenti rapidi, anche in opposizione con una potentissima classe religiosa, quella degli ulema, che garantiscono da quasi cent’anni l’esistenza stessa del Regno. Per questo le saudite sanno che tutto può cambiare. O tutto può tornare indietro all’improvviso. È successo, in Iran, ma non solo. E, come diceva Primo Levi, se è successo può ancora accadere.


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Le donne arabe tra harem e futuro


(Repubblica, 26 giugno 2018)


Les Mots
Via Carmagnola angolo via Pepe ore 18.30.

È appena caduto il divieto di mettersi al volante, ma c’è ancora molta strada da fare per le donne dell’Arabia Saudita. Michela Fontana ne parla nell’inchiesta Nonostante il velo, nuova versione di un ebook VandAePublishing pubblicato ora in cartaceo da Morellini Editore. La giornalista, avendo vissuto e lavorato due anni e mezzo a Riad, è riuscita a conoscere dall’interno un Paese in cui fino a due giorni fa le donne da sole non potevano neanche portare i figli a scuola. Il libro descrive una società in bilico tra harem, divieti, regole e riforme per renderla più moderna. Con Valeria Palumbo.


 

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Intervista a Michela Fontana

Il 24 giugno è entrata in vigore la legge che permette alle donne dell’Arabia Saudita di sedersi al volante. Si tratta di un evento di portata epocale, per il quale le donne arabe si sono battute con forza, sfidando il potere degli uomini, dei propri padri, dei fratelli e dello stesso governo.

Michela Fontana, autrice di “Nonostante il velo“, ne ha parlato a Radio Capital: qui l’intervista (al minuto 1.46).

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Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita, di Michela Fontana


di Mimma Zuffi (Sognaparolemagazine, 10 giugno 2018)


Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.

Ha fatto una grande sensazione al mondo che da giugno 2018 le donne dell’Arabia Saudita potranno guidare un’auto: la rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture in un Paese celebre per la segregazione femminile.
Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio le donne a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento.
Nel corso di un soggiorno di due anni in Arabia Saudita la giornalista Michela Fontana ha avuto modo di conoscere e intervistare attiviste, donne d’affari, studentesse, scrittrici e di raccoglierne i pensieri, i sogni, le battaglie. Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita è un libro inchiesta di grandissima attualità per conoscere “dal di dentro” il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha, fra l’altro, intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile.

«Negli anni vissuti a Riad ho scoperto che sempre più donne saudite si fanno protagoniste del loro destino. Non più rassegnate e sottomesse, ma attive ecoraggiose. […] Sono loro il tesoro nascosto del paese». Michela Fontana

In una società dove solo il 17% delle donne cerca un impiego, sono sempre più numerose quelle che superano le barriere della tradizione e si cimentano nelle professioni notoriamente esclusive del sesso maschile – architetto, finanziere, ingegnere, artista o scrittore – anche sfidando i pregiudizi (come dimostrano la partecipazione alla Biennale di Venezia o il successo del coraggioso libro Ragazze di Riad di Rajaa Alsanea), incoraggianti segnali di una presa di consapevolezza del proprio ruolo, ora non più strettamente legato al volere dell’uomo.

Il libro è una polifonia di voci, di storie uniche di donne di diverse provenienze sociali – donne d’affari, professioniste, islamiste o semplicemente figlie, mogli o madri -, ognuna con il suo vissuto sempre teso in una costante dicotomia tra libertà e restrizione.
Sono diciassette storie che indagano – e rappresentano – le diverse sfaccettature,talvolta contraddittorie, di una società in trasformazione, stralci di vita raccolti oltrepassando muri invalicabili, felici istantanee di sudate conquiste.

È altresì una consapevole presa d’atto di una situazione che, come ben illustra l’autrice, ha «rafforzato la convinzione che non si può chiedere a un popolo cresciuto in una cultura diversa dalla nostra di seguire una strada tracciata da altri. Né si può forzare la storia, che in ciascuna nazione deve fare il suo corso, con i suoi tempi».

«La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare» mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano. – Harem

«Mio padre era molto religioso, ma non era un conservatore. A lui devo tutto, la mia istruzione e il mio coraggio. […] “Sii te stessa” mi ripeteva. È lui che ha indirizzato la mia vita. Avevo dieci anni, avevo appena finito la scuola religiosa e nessuno in famiglia voleva che continuassi gli studi, perché ero una donna. Allora lui mi ha rapito. Mi aveva iscritto a un collegio in lingua inglese senza dirlo a nessuno, nemmeno a me. […] Quando gli ho chiesto piangendo se avrei potuto vedere ancora la mamma mi ha detto che sarebbe trascorso molto tempo, ma che era per il mio bene, per avere una vita migliore della sua.»- Aisha: puttane e comuniste.

«Quando sono all’estero posso fare molte cose, e riconosco che le università che i miei figli e le mie figlie frequentano sono fantastiche. […] Ma non capisco la vostra cultura e soprattutto non approvo la libertà che viene concessa alle donne. Le ragazze escono con i ragazzi quando sono giovani, si vestono in modo sconveniente e magari rimangono incinte. Per noi è inconcepibile. Da noi la donna è considerata un bene prezioso, è protetta, trattata come un gioiello. Quando parlate di noi in Occidente vi preoccupate soltanto del velo e della guida, ma non sapete niente delle nostre tradizioni. Io non voglio che le donne guidino nel nostro paese perché è troppo pericoloso. Che bisogno c’è di guidare, è tanto comodo avere l’autista! E il velo io lo metto volentieri. È il mio modo di ringraziare Dio di avermi dato dei figli sani, Al Hamdulillah. (Grazie a Dio)!» – Oro nero: i ricchi

Michela Fontana, giornalista e saggista milanese, ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese, spagnolo e inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

 

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Rebecca Town in giro per l’Europa

(Thriller Magazine,  3 ottobre 2014)


– Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

Stanno riscuotendo sempre più successo i romantic suspense in digitale con protagonista una moderna signora in giallo. Il genere romantic suspense sta conquistando fette sempre più ampie di lettori, e l’editoria digitale gli ha dato quelle possibilità di espressione che purtroppo il cartaceo troppo spesso nega.

L’autrice torinese Manuela Siciliani sta portando  avanti per la VandA.ePublishing una serie di titoli  con protagonista Rebecca “Becky” Town: una versione moderna e digitale della Signora in Giallo. In attesa del nuovo titolo – Rebecca Town a Praga -ecco gli eBook usciti finora.

Il primo intricato caso di Becky segna l’esordio sulla scena del delitto di una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Questo è infatti il primo di una serie di romanzi ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… chissà? A Parigi incontra il sexy Benjamin Green e l’ambigua Margareth Wallace, lanciandosi in una spirale di cospirazioni che coinvolgono l’ambasciata americana. E mentre a New York la sua amica Jessie e la zia Cecil la crederanno al sicuro nella romantica città, Becky, con l’aiuto di un ispettore francese che tanto ricorda il celebre Poirot, risolverà il caso, grazie soprattutto alla sua intraprendenza. Disponibile anche in versione cartacea (su Amazon).

Rebecca Town a Londra

Doppia indagine è il secondo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante protagonista.
Dopo il successo della guida viaggio su Parigi, la Writers & C. le a da una nuova meta turistica: Londra, una delle città più cool e trendy d’Europa. Londra è però la città natale di Becky, da cui è stata allontanata quando aveva quindici anni, in seguito alla morte dei genitori, e dove incontra il resto della sua famiglia. Qui riscopre i luoghi tanto amati da bambina, fish and chips…
Ma Becky non sarebbe Becky senza la sua curiosità innata che la trasforma in detective. Non si tratta solo di scoprire come sono morti i suoi genitori (è stato davvero un incidente?), un omicidio viene consumato proprio nel ristorante del futuro marito della cugina Emma. In suo aiuto verrà Luke Logan, intrigante figlio dell’ispettore. Riuscirà il giovane Luke a farle dimenticare il sexy Ben, che ha tinto di rosa il suo soggiorno parigino?

Rebecca Town a Roma

Passione e mistero è il terzo romanzo della serie che ha come protagonista Rebecca Town, detta Becky. Una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche. Ogni romanzo è ambientato in una città diversa, descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più de lati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. E poi c’è la personale vicenda della nostra esuberante guida.
Cupido aveva fatto scoccare la sua freccia nella romantica Parigi, e Becky e Ben erano entrati prepotentemente nella vita uno dell’altra. Si erano però lasciati male. A Londra una telefonata di Ben aveva schiarito il cielo sopra una Becky arrabbiata dopo l’inaspettata verità sulla morte dei suoi genitori.
Nello scenario della caput mundi, al colmo della felicità per un sogno d’amore che sembra essere divenuto finalmente realtà, mentre è intenta ad ammirare la Cappella Sistina, un uomo si accascia privo di vita sotto gli occhi di Becky. All’apparenza una morte naturale. Le indagini sono presto ostacolate dall’alto, ma non sarà questo a rendere la nostra protagonista sempre più inquieta. Dubbi e paure pian piano l’assalgono, finché il suo fiuto da detective la mette di fronte a una scelta difficile, quella tra l’uomo che ama e l’amore per la verità. Quale dei due sceglierà Becky?

Manuela Siciliani è nata a Torino nel 1978. Laureata a Milano in Relazioni Pubbliche, oggi vive a Sanremo. Mamma e moglie prima di tutto, fa l’agente di viaggi per passione e scrive per diletto. Rebecca Town, la protagonista dei suoi romanzi, vi porterà alla scoperta di meravigliose città dove, suo malgrado, si troverà a risolvere complicati casi di omicidio. Il tutto condito da leggerezza e love story.


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Eppure c’era metodo nella sua follia


di Serena Guarracino (Leggendaria, maggio 2018)


– Trilogia S.C.U.M. ripropone i testi della femminista passata alla storia per aver quasi ucciso Andy Warhol nell’ambito della guerra dichiarata ai maschi. Ma Solanas ha molte cose da dire anche al femminismo di oggi.

La settima puntata della serie televisiva American Horror Story: Cult, dal titolo Valerie Solanas è morta per i nostri peccati, ripercorre la vita dell’attivista e scrittrice americana; interpretata qui da Lena Durham, a sua volta attivista femminista nella Hollywood contemporanea, la Valerie tradotta nel linguaggio pop barocco della serie tv riprende e problematizza lo stereotipo della femminista squilibrata che odia gli uomini, di cui pianifica l’estinzione insieme alla sua setta (il cult, tema centrale della stagione), la S.C.U.M. o Società per l’Abolizione del Maschio. Ma il disagio mentale di Valerie impedisce il compimento del piano e porta allo sgretolamento della setta: al fondo della sua discesa nel delirio paranoico, l’attivista si trova faccia a faccia con la visione di un Andy Warhol irritante e compiaciuto, che le rinfaccia che l’unica cosa per cui sarà mai ricordata è di avergli sparato, senza peraltro ucciderlo, quel 3 giugno del 1968.

Trilogia SCUM, volume che per la prima volta raccoglie in italiano i testi fondamentali di Solanas, si confronta sin dall’inizio con lo stereotipo quasi fumettistico di questa autrice «impudente, incendiaria, rabbiosa e tragicamente comica», come la definisce Stefania Arcara in apertura della sua ricchissima introduzione al testo. Questa raccolta registra il bisogno attuale di rileggere Valerie Solanas e di emanciparla dalla narrazione egemonica che la riduce al gesto fallito di ribellione contro il sistema. Operazione che però offre il fianco a un altro rischio, quello di guardare a Solanas in maniera nostalgica rendendola una martire dell’ineguaglianza di genere, morta davvero “per i nostri peccati” in solitudine e miseria in una stanza del famigerato Bristol Hotel di San Francisco. Ma Trilogia SCUM evita anche questa trappola rendendo giustizia alle molte sfumature della sua scrittura, e soprattutto all’intreccio paradossale di rabbia e ironia caustica che permette oggi di leggerla come una delle voci più dirompenti del femminismo occidentale.

Il volume offre tre testi fondamentali per indagare il suo pensiero e la sua influenza sulle diverse anime del femminismo contemporaneo. Il primo è il Manifesto scum, privato di quel valore di acronimo (Society for Cutting Up Men) mantenuto dall’altra traduzione disponibile in italiano (S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione del maschio, trad. di Adriana Apa, L’Ortica 2010) e che è invece il risultato di un intervento dell’editore Maurice Girodias per l’edizione del 1968. Il testo era già stato pubblicato indipendentemente nel 1967 dall’autrice, che ne vendeva le copie per strada nel Greenwich Village di New York, al prezzo di un dollaro per gli uomini e di venticinque centesimi per le donne; Solanas lo ripubblica poi nel 1977, ed è su questa versione che si basa la traduzione (con il testo originale a fronte) inclusa in Trilogia SCUM.

Letto attraverso il filtro delle diverse ondate di femminismo che ci separano e allo stesso tempo ci riconducono da Solanas – come dimostrano le introduzioni approfondite e ben documentate delle curatrici Stefania Arcara e Deborah Ardilli – oggi il Manifesto SCUM dimostra un’attualità non scontata tratteggiando un mondo ribaltato in cui le donne utilizzano gli strumenti inventati dagli uomini, come la tecnologia e le armi, per liberarsi finalmente di questo «incidente biologico» che è il maschio e di tutte le formazioni socioculturali che ha prodotto, dall’istituzione matrimoniale al sistema bancario. La sua struttura retorica si basa sul rovesciamento parodico delle attribuzioni essenzialiste di date caratteristiche esclusivamente a uno dei due generi sessuali: se la società che oggi definiremmo etero-patriarcale confina le donne in un orizzonte limitato, sostiene Solanas, è perché il maschio vuole «rivendica[re] come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via, e proietta[re] sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via».

La strategia del rovesciamento, tuttavia, non risulta in una celebrazione acritica del femminile. Non solo il Manifesto identifica anche tra le donne le nemiche del nuovo ordine SCUM (letteralmente «feccia») – in particolare le «garbate Figlie di Papà, passive, accomodanti, ‘colte’ […], mentecatte, insicure, avide di approvazione»; ma soprattutto Solanas tocca una nota estremamente attuale per il dibattito femminista contemporaneo, così diviso sulle questioni della gravidanza per altri e della maternità biologica. Il Manifesto propugna infatti l’emancipazione delle donne dal lavoro riproduttivo mediante la tecnologia: «la risposta è la riproduzione artificiale dei bambini». La maternità, nel Manifesto, è infatti sempre rappresentata esclusivamente come lavoro, uno dei tanti modi in cui la ricchezza del femminile viene messa a valore nel sistema socio-economico capitalista, nonché base di quello che la teoria queer (da Lee Edelman a Jack Halberstam) chiamerà poi «futurismo riproduttivo», l’ipoteca del desiderio presente in nome della felicità futura. Nel suo stile dissacrante e provocatorio, Solanas pone la domanda che anche oggi, a cinquant’anni di distanza, ben poche sono in grado di proferire: «Perché dovrebbe importarci di quello che accadrà quando saremo morte? Perché dovrebbe importarci se non ci sarà una generazione più giovane a succederci?».

La rivoluzione parte quindi dal rifiuto del lavoro o meglio dallo «slavoro», neologismo che per Solanas indica il rifiuto di partecipare all’economia oppressiva capitalista e patriarcale. Contro la retorica della forza-lavoro Solanas propone infatti la «forza-slavoro […] la forza che fotte il sistema» inceppandone il ciclo di produzione e riproduzione fino al collasso. Protagoniste di questa rivoluzione sono le «femmine SCUM», «le femmine dominatrici, determinate, sicure di sé, cattive, violente, egoiste, indipendenti, orgogliose, avventurose, sciolte, insolenti, che si considerano adatte a governare l’universo». L’aggettivazione ipertrofica, una delle caratteristiche più macroscopiche dello stile di Solanas a cui la traduzione rende il giusto merito, fa sì che il testo proceda quasi per associazioni libere, attivando un processo che più che alle facoltà razionali fa appello all’inconscio. In questo modo, attraverso il sorriso sollecitato dall’ironia e dal paradosso, il Manifesto accompagna lettrici e lettori verso una consapevolezza degli orrori del presente che, nonostante i cinquant’anni passati dalla sua scrittura, suonano terribilmente attuali.

Prendiamo per esempio l’affermazione «il maschio è per sua natura una sanguisuga, un parassita delle emozioni e perciò non ha un diritto morale a vivere, giacché nessuno ha il diritto di vivere a spese di qualcun altro». Il testo sfrutta la generalizzazione biologico-sociale («il maschio») per generare una risposta dissociativa in chi legge («non tutti i maschi!», penseranno lettrici e lettori benintenzionati). La conclusione assume però un’evidenza catastrofica, che riporta alla mente i numerosi femminicidi a cui assistiamo quasi quotidianamente e che sono ben rievocati da quei «momenti di tregua» descritti da Solanas, momenti che il maschio ricerca ma «che possono essere raggiunti soltanto a spese di qualche femmina». L’unica risposta possibile a questa minaccia continua è lo slavoro anche emotivo, il rifiuto di fungere sostegno per una soggettività insicura e violenta ossia, per Solanas, per il maschio.

Prototipo della nuova posizionalità psicologica e socio-economica della «femmina SCUM» è Bongi Perez, protagonista di In culo a te, testo teatrale che ha visto le scene solo nel 2000 e che vedrà presto una messa in scena a cura di Nicoleugenia Prezzavento, che ne cura la traduzione. Questo testo e il breve Come conquistare la classe agiata. Un prontuario per fanciulle fanno da corollario alla lettura del Manifesto e ne illuminano alcuni passaggi fondamentali con il loro stile a metà tra l’anti-naturalismo e l’autobiografia: Bongi, accattona, barbona, prostituta, è in buona parte un surrogato dell’autrice, così come lo è voce narrante del Prontuario che racconta delle sue strategie di accattonaggio, «un’occupazione estremamente remunerativa, dai grandi stimoli creativi e fortemente incentrata sulle relazioni interpersonali […] un’occupazione, dunque, perfetta per la sensibilità femminile». Entrambi i testi offrono anche una panoplia di personaggi/e tra i più svariati/e: in particolare In culo a te presenta uno stuolo di uomini (il Tipo Bianco e il Tipo Nero, il cliente Alvin e l’artista Russell) tutti mediamente ripugnanti, nonché Ginger, Figlia di Papà a cui Solanas dona una delle battute più memorabili: «è universalmente noto che gli uomini hanno tanto più rispetto per una donna quanto più questa eccelle nel mangiare merda».

Trilogia SCUM si chiude con una ricca appendice in cui le curatrici raccolgono tributi e opere ispirate all’attivista americana dalla sua morte fino al 2016. Tra esse manca American Horror Story: Cult, uscita nel 2017, che pur nella rappresentazione stereotipa della sua figura, ne recupera la potenzialità creativa: la setta di donne SCUM è infatti l’unica a sopravvivere a tutte quelle fondate da leader maschi come, per esempio, David Koresh e Charles Manson. La sopravvivenza di Solanas resta il segno di un tempo difficile, ma anche pieno di possibilità, per il femminismo contemporaneo: ed è significativo che il suo lavoro riemerga oggi, a cinquant’anni da quel ’68 ormai soggetto a un impietoso revisionismo, grazie al lavoro di studiose che non temono a confrontarsi con questa autrice anticonformista e difficilmente irreggimentabile ma che invece la offrono a lettrici e lettori come chiave di lettura imprescindibile per il presente.

 


 

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Patriarcato, lotte e diritti: il femminismo secondo Daniela Pellegrini


di Michela Pagarini (Lettera Donna, 24 maggio 2018)


– È stata una delle prime in assoluto in Italia, quando un giorno del ’64 convocò una riunione di donne. Dall’utero in affitto a #MeToo, intervista a una pioniera.

«In molti miti e racconti il patriarcato è nato dopo anni di prevalenza del femminile. Gli uomini a un certo punto hanno cominciato ad innervosirsi e alla fine hanno ribaltato gli equilibri di potere».
Cinquantaquattro anni di femminismo attivo alle spalle, tre libri di cui due autoprodotti, un gruppo di autocoscienza che ha fondato e che da quattro anni si incontra alla Casa delle Donne di Milano e una presenza quotidiana su Facebook, dal quale racconta in pillole la sua visione del mondo. Daniela Pellegrini – fondatrice del Demau, uno dei primi gruppi femministi italiani e più tardi – insieme a Nadia Riva – del circolo delle donne Cicip & Ciciap a Milano – una vita intera dedicata e immersa nella passione femminista, non ci gira intorno e sempre di più sogna «un risveglio collettivo delle donne, che le renda libere prima di tutto dalla fascinazione del maschile e dalle sue scale di valori». Come si può riassumere la differenza fra i generi? «Semplice: da sempre le donne rischiano la morte per dare la vita. Gli uomini, invece, rischiano la vita per dare la morte». Con Daniela, in libreria con La materia sapiente del relativo plurale, abbiamo parlato delle lotte del ’68, ma anche di utero in affitto e ovviamente #MeToo.

DOMANDA: Lei è una delle femministe più longeve d’Italia, come è iniziato il suo percorso?
RISPOSTA: 
Da giovanissima mi angosciava molto il mio destino. La specie umana, con i suoi meccanismi violenti e le logiche di sopraffazione su tutto e tutti, ma essenzialmente sulle donne, non mi sembrava il posto adatto a me. «Cosa ci faccio qui, cosa c’entro con questa umanità?», mi chiedevo con inquietudine. La mia visione del futuro era così opprimente che, mentre crescevo, ho pensato spesso al suicidio perchè non vedevo alcuna collocazione felice né come essere umano né, men che meno, come donna.

D: E poi cos’è successo?
R:
 Dopo tanto riflettere, nel 1964 ho avuto l’intuizione di convocare una riunione di donne, le uniche con cui sentivo di avere un terreno comune da cui partire a riflettere. È nato così il primo gruppo femminista in Italia: Il suo nome era DACAPO (Donne a Capo). Quel gruppo è stata la mia salvezza.

D: Perché?
R: Col senno di poi, credo che non sarebbe potuto andare diversamente: per come mi sentivo e per come vedevo il mondo, l’unica cosa possibile per me era cambiarlo, o almeno provarci. E così ho fatto.

D: E vi ha dedicato praticamente tutta la vita.
R: Molte donne l’hanno fatto oltre a me, anche se io certamente sono una delle più vecchie. Ma come avrei potuto farne a meno? È il senso stesso della mia esistenza ad essere messo a tema. È l’unica passione che mi ha preso davvero nella vita, ed è anche rassicurante, perchè ho sempre pensato che sarà il soggetto donna a dare un altro significato all’esistenza della specie. Su questa convinzione ho basato tutte le mie passioni e, ahimè, da lì sono derivati anche tutti i miei dolori.

D: Per esempio?
R: 
L’inizio dell’inquinamento patriarcale. Oggi si dice che tutto è partito dal ‘68? Molte donne che avevano appena cominciato ad interrogarsi e riflettere, soprattutto attraverso l’autocoscienza – che si faceva in condizioni di intimità nelle nostre case, sono fuggite davanti all’invasione delle donne attiviste, ai loro toni, alle piazze. Dal ‘68 in poi fu chiara la differenza enorme che c’era tra la politica delle donne e quella tradizionale della delega. Le «compagne» contavano sulla complicità dei compagni di altro percorso, evidentemente supponendo che un movimento avrebbe appoggiato l’altro.

D: E invece non ha funzionato…
R: No, perché la commistione distraeva le donne e sottraeva forze ai nostri obiettivi più specifici e soprattutto dalle nostre pratiche, che si stavano ancora strutturando. E infatti alla lunga la presenza delle sessantottine ha sbilanciato completamente il movimento delle donne, a cui prima di quel momento partecipavano anche quelle non politicizzate, le casalinghe e quelle senza riferimenti precisi. Tutte sparite, dopo quella fase. Dopo quel passaggio il movimento ha perfino cambiato nome: ha preso a chiamarsi femminismo quando dalle case siamo scese nelle piazze.

D: Ve ne siete accorte solo a posteriori?
R:
 No anzi, lo vedevamo chiaramente, tant’è che all’inizio (io ma anche altre due pioniere come Carla Lonzi e Serena Castaldi) non accettavamo nemmeno che entrassero nei nostri gruppi donne che militavano contemporaneamente in ambiti misti. Se volevano stare con noi, allora dovevano abbandonare l’attività con gli uomini. Quella sì era radicalità di scelta politica e di movimento, oggi non credo esista più niente di simile, e mi piacerebbe ricostruirla.

D: Cosa facevate, su cosa vi interrogavate?
R: 
La nostra modalità principale di confronto era l’autocoscienza, pratica che tutt’oggi ritengo ancora necessaria per mettere in luce i meccanismi del patriarcato e ciò che hanno prodotto. Ci siamo tutti convinti che il mondo si divida in opposti che o si attraggono o si uccidono, una visione che contempla solo la possibilità di essere alleati o nemici e che prevede sempre e solo un vincitore e un vinto. È un’idea del mondo che purtroppo è diventata anche la base del movimento delle donne, ma per quanto mi riguarda è soltanto la base del grande bluff del patriarcato.

D: Che sarebbe?
R: Tutto ciò che è stato elaborato ed è substrato delle nostre vite si basa sul fatto che metà dell’umanità ha preso il potere, basando il suo predominio sulla denigrazione, l’espulsione e lo sfruttamento dell’altra metà e prendendo potere sulla materia e sui corpi, attuandone poi la separazione forzata dal pensiero. Anche termini banali come maschile e femminile per esempio, concorrono a questo meccanismo, perché si portano dentro tanti e tali stereotipi imposti che inevitabilmente si finisce in un braccio di ferro.

D: Come si cambia la narrazione di un’intera realtà?
R:
 Bisogna sfatare il mito del leader e l’idea che sia forte chi ce l’ha più duro. Oggi, per esempio, moltissime donne vogliono risultare vincenti, un concetto tipicamente legato al potere e alla viriltà dal quale spesso originano anche scelte disastrate e disastrose per loro stesse. Per inseguire quelle scale di valori è necessario infatti deformare di parecchio il concetto di autodeterminazione, fino ad arrivare alla svalorizzazione di sé e ad accettare che il proprio corpo venga sfruttato e la propria esistenza posseduta o governata da altri.

D: Si riferisce a questioni come la gestazione per altri? Che ne pensa?
R: 
Beh, anche quella. Cosa posso dirti? Capisco ma non intendo (ride), mi è difficile entrare in una critica vera e propria di questa questione, almeno per come viene posta normalmente, perché non è niente di nuovo, anzi. La retorica del dono d’amore (il figlio) al maschio, è sempre stato il violino suonato dal patriarcato alle donne, esiste da secoli. Adesso, semplicemente, il dono non è più al maschio prescelto ma a chiunque si prenda quel potere o trovi il modo di farselo dare. Ora è sempre più accettata la loro monetizzazione: il denaro sostituisce e cancella la sacralità dei corpi, la relazione e il senso del rispetto.

D: Insomma una donazione un po’ coatta.
R:
 È sempre stato così, perché diciamo la verità: non tutte le donne desiderano partorire e non credo che tutti gli uomini vogliano inseminare qualcuno, anche se si dà per scontato il contrario. La procreazione tradizionale prevede due parzialità che si devono mettere insieme per poter fare un figlio, tentare altre vie implica la scelta di un rapporto di potere anziché la scelta di una relazione autentica. Ed è qui che secondo me c’è il nodo di tutto, la dipendenza che ogni relazione mette in atto e che nella famosa scala di valori patriarcale non è contemplata. Va rivalutata e accolta invece, e bisogna farla diventare un valore anziché una sudditanza.

D: E come si fa?
R:
 Beh, basta accettare che nessuno può vivere senza dipendere da tutto il resto, la materia vivente è legata indissolubilmente a tutte le altre materie, dalle piante alle api, dalle quali dipende la nostra sopravvivenza. Ecco perciò l’importanza anche del linguaggio, altro punto caro al femminismo: quanto ci piace pensare di non dipendere da nessuno? Smettiamola di raccontarci storie: non è possibile.

D: Men che meno nell’autonomia fra uomini e donne?
R: 
Ho letto da qualche parte che nei ventri tutti i feti all’inizio partono come XX, e questo mi fa ben sperare che questo femminile alberghi e rimanga anche nei DNA che poi si trasformano in XY. Siamo tutte e tutti pieni di cromosomi misti, nessuno è puro, né nel sesso né nel pensiero. Data quest’evidenza, vorrei allora che emergesse ciò che c’è di buono in questa base comune e che ci aiutasse ad accettare tutte le nostre parzialità. Le differenze ci sono e ci saranno sempre, non serve definirle, combatterle o imporle, che senso ha basarvi un intero sistema esistenziale?

D: Come facciamo ad analizzarle, essendovi immerse?
R: Il separatismo è un altro strumento molto utile in questo senso, perché permette di individuare e assumersi la responsabilità del doppio che ognuno di noi ha dentro di sé. Così come mi piace pensare che in ogni uomo ci sia un po’ di quella doppia X femminile originaria, altrettanto so che in ogni donna alberga la cultura patriarcale in cui siamo cresciute.

D: E quando i contesti separati si dividono, come nel caso dei diversi femminismi?
R:
 Il concetto di femminismi è la negazione stessa del femminismo, che ha sempre avuto una base unica e comune da scardinare, il patriarcato e la cultura che ne deriva, basata su contrapposizioni e abusi. Nel movimento delle donne peraltro era già prevista ogni differenza individuale, libertà di pensiero, opinione e diversità, perché ognuna aveva come mandato, ancora prima della battaglia sociale, l’attenzione alla propria autenticità. Perciò il termine femminismi per me non ha senso, riporta tutto alle contrapposizioni e alle differenze.

D: I famosi conflitti fra donne… che si fa?
R:
 La cosa più semplice è ricominciare a fare autocoscienza, che si differenzia da tutti gli altri modi di parlare e confrontarsi grazie alle sue basi di ascolto e non giudizio. Ti insegna a riportare tutto a te e alle tue contraddizioni, abbatte le distanze con le altre donne e ti mette dentro di te anche quando discuti di qualcosa di apparentemente esterno. Senza queste modalità si arriva a poco, ma può essere molto difficile riuscirci, perché significa mettersi in discussione davvero nel profondo, soprattutto sui propri traguardi. Per me non si è mai arrivate a un punto di arrivo.

D: Parliamo di #MeToo e delle denunce che si levano da molti settori: qualcosa sta cambiando?
R:
 Sta mutando la consapevolezza dei danni che fa questa cultura, ma mi sembra che ancora non si mettano in risalto le basi su cui poggia questo potere di fare malversazioni sulle donne. Sono avvisaglie di un inizio, dall’Ottocento a ora ci sono stati miglioramenti, almeno qui da noi, ma per ora mi sembrano rimanere all’interno di un paradigma che non viene nominato. Se non cambia il sistema, se non cambiano le donne, non cambieranno nemmeno gli uomini, al massimo ci staranno un po’ più attenti.

D: Insomma dobbiamo cambiare ancora noi…
R: Beh sì. Qualche tempo fa ho assistito all’entusiasmo di un gruppo di donne per una rappresentazione dell’Otello, erano davvero ammirate, bei costumi, bella regia. Però io dico: è una rappresentazione storica e «artistica» del femminicidio, nella quale si dice che è giusto che Otello sia geloso e che lui abbia il potere di uccidere Desdemona. Da secoli le donne assistono a questa rappresentazione, applaudendola e finanziandola perché opera di un genio, senza riflettere sui suoi contenuti e messaggi. Questa è la fascinazione del maschile che dobbiamo combattere o certe cose non cambieranno mai.

D: La strada è ancora lunga, insomma.
R:
 Sono ottimista. A parte certe donne acute che sono sempre esistite, il femminismo è assai giovane e non si può pensare che in pochi anni possa cancellare e superare tutti i secoli di patriarcato che abbiamo sulle spalle e tutti questi crimini che vengono perpetrati contro di noi (e contro altri uomini) da secoli.

D: La politica può aiutare?
R:
 Una volte le femministe non dialogavano volentieri con la politica, nell’idea che un sistema a misura d’uomo non potesse essere utile per scardinare quel sistema stesso. Oggi invece c’è la corsa, tutte vogliono esserci, e allora penso che chi ci crede dovrebbe unirsi alle altre e fare un partito di donne, o come pensano di fare un cambiamento insieme a chi non vuole cambiare? Non credo sia la strada adatta agli obiettivi del femminismo, ma posso capire chi vi punta per cambiare leggi che vietano libertà alle donne o al contrario costringono loro a cose che non desiderano.

D: Quindi non condivide la politica come mezzo ma ne comprende il desiderio?
R: 
Credo sia inevitabile, a un certo punto, desiderare di entrare all’interno di quel potere di cui cerchiamo di smontare dalle basi. Una volta provata l’ebbrezza di aver partecipato o vinto una battaglia, è difficile rinunciarvi. Tale gioia ti incastra nella contraddizione tra il volerci essere ancora e il desiderio di provare altre vie per cambiare la situazione. Questa è la cosa che mi fa soffrire di più: non poter fare a meno di queste gioie che da, un lato ti nutrono e dall’altro ti mantengono dentro quella situazione, impedendoti di uscirne. Ma provo rabbia, perché mi rendo conto che poggia su basi infide, di cooptazione.

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Per concludere ecco la risposta dell’autrice: «GRAZIE Michela, sei riuscita a rendere lievi anche le mie durezze e fierezze così come la mia radicale anima di donna con le donne… L’hai fatto anche per riuscire a farmi ascoltare da chi non mi conosce ma può intendere… SONO FELICE che questo faccia parte della relazione che con te ho potuto e voluto avere. Riconoscersi perfino nelle diversità tra noi (e con le altre donne) che tu riesci a mettere “a” contatto e  “in” contatto é il vero piacere che sanno esprimere i corpi di donna… e su cui un nuovo paradigma dei rispetti può iniziare».

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Intervista – La buona moneta

Pierangelo Dacrema è stato ospite lunedì 14 maggio a TGR Piazza Affari: ha parlato di economia e del suo libro La Buona Moneta. Come azzerare il debito pubblico ed essere felici (o solo un po’ meglio) pubblicato da VandA ePublishing in collaborazione con Edizioni All Around.

Qui l’intervista.


La buona moneta
Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto.
Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta.
Ma come procurarsela in presenza di un debito pubblico abnorme e di regole europee che ne impongono il drastico ridimensionamento?
L’unica risposta a esigenze così contrastanti è che il nostro debito pubblico venga rimborsato con una nuova moneta nazionale a corso forzoso. In più occasioni, Lega e M5S hanno preso le distanze dall’euro e caldeggiato la creazione di una moneta italiana. La posizione di Pierangelo Dacrema è radicalmente diversa. In modo chiaro, asciutto e convincente, questo libro mostra che il benessere della nostra nazione non sta nell’uscita dall’euro. E che un’Italia alleggerita dal debito e dotata di una propria moneta diventerebbe più forte, a tutto vantaggio dell’euro e dell’Europa.


Autore: Pierangelo Dacrema
Titolo: La buona monetaCome azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)
Collana: VandA.Original
Luogo e data di pubblicazione: Milano, febbraio 2018
ISBN e-book: 9788868993382
ISBN cartaceo9788899332198 – in coedizione con Edizioni All Around

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‘Rebecca Town a Parigi’, il primo dei romanzi ‘gialli’ della scrittrice sanremese Manuela Siciliani


di Andrea Di Blasio  (Riviera24.it, 15 luglio 2014)


– Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda. Un’autrice esordiente locale si affaccia al mondo della narrativa pubblicando la prima trilogia della serie: Rebecca Town.

Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda.

Un’autrice esordiente locale si affaccia al mondo della narrativa pubblicando la prima trilogia della serie: Rebecca Town. Manuela Siciliani di 36 anni che vive a Sanremo raggiunge il suo sogno: scrivere un romanzo. Becky, la protagonista dei suoi libri, è una scrittrice di guide turistiche, newyorkese, bellissima, intraprendente e patita della moda; ma deve improvvisarsi detective, perché ogni luogo che ci porterà a visitare, attraverso i suoi occhi, descrivendone i monumenti, le strade e il cibo, diverrà scenario di un terribile omicidio. Il genere è stato de nito “ibrido” perché i romanzi nascono come gialli, ma all’interno troviamo anche storie d’amore e descrizioni così particolareggiate delle città da sembrare davvero delle guide turistiche. La prima uscita è Rebecca Town a Parigi. Il primo intricato caso di Becky, a seguire la VandA. epublishing ha pubblicato Rebecca Town a Londra. Doppia indagine. Ora non ci resta che aspettare il terzo: Rebecca Town a Roma. Passione e mistero. In accordo con la casa editrice si sta già lavorando al quarto, ambientato a Praga.

Tuffiamoci alla scoperta di Becky visitando la sua fan-page (https://www.facebook.com/pages/Becky-Town/) che Manuela aggiornerà costantemente, e visto che i romanzi sono in corso d’opera l’autrice vorrebbe lanciare una sPda: interagire con i lettori e capire le preferenze del pubblico attraverso i commenti e le recensioni (Ben è l’uomo giusto per Becky? Meglio Peter? Quali città vorreste visitare insieme all’esuberante protagonista?) Un po’ come avviene per le serie televisive, i produttori sondano il terreno… e quasi sempre la maggioranza vince! I libri sono acquistabili su Amazon a prezzi abbordabili: 3,99 per l’ebook e 7,20 per il cartaceo.

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La buona moneta, ovvero come azzerare il debito pachiderma


di Fausta Chiesa (Il corriere, 9 maggio 2018)


– Il debito pubblico italiano viaggia sui 2.256 miliardi e le regole europee ci impongono di ridurlo drasticamente. Ma come? La proposta «forte» dell’economista Dacrema: «Una valuta parallela». Se ne discute il 14 maggio a Milano.

Come convivere felicemente con un elefante che pesa 2.256 chilogrammi, anzi pardon 2.256 miliardi di debito, cioè il debito pubblico italiano? È il tema sul quale Bankitalia è intervenuta il 9 maggio nell’audizione sul Documento di economia e finanza, mettendo così in evidenza il grande rimosso dell’intera discussione post elettorale fra i partiti. Il vicedirettore generale, Luigi Signorini, ha infatti ricordato che il debito pubblico italiano nell’eurozona è inferiore solo a quello greco e che supera rispettivamente di 68, 35 e 34 punti percentuali quello dei suoi vicini di casa, ovvero Germania, Francia e Spagna. Per Bankitalia, non c’è alcun rischio imminente ma tenere conto della capacità di assorbimento dei mercati è obbligatorio. E riportare il debito pubblico su un percorso di «stabile e duratura riduzione» è indispensabile.

Già, ma come? Una proposta fuori dal coro l’ha fatta un economista – Pierangelo Dacrema, docente di Intermediari finanziari all’Università della Calabria – che non è nuovo a lanciare idee contro corrente: basti ricordare il libro «La dittatura del Pil». Ora Dacrema esce con il libro (in versione cartacea e ebook) «La buona moneta». La buona moneta sarebbe emessa a rimborso dei titoli del debito pubblico dello Stato italiano – essenzialmente BOT, CCT, BTP – in una nuova valuta a corso forzoso in Italia a partire dalla più vicina possibile data futura, con un rapporto 1 a 1 sull’euro. La gestione della circolazione della nuova valuta, della quale non sarebbe quindi prevista una versione “contante”, né cartacea, né metallica, sarebbe riservata al sistema bancario. Inoltre, non potrebbe essere investita in attività finanziarie. Avrebbe corso forzoso: nessuno potrebbe rifiutare pagamenti.

Se la conversione cominciasse subito – calcola Dacrema – permetterebbe di abbattere 480 miliardi di debito nel biennio 2018-2019 e di scendere al 60% del Pil in sei anni. Altrimenti, come rispettare il «Fiscal Compact», con cui l’Italia si è impegnata, per il prossimo ventennio, a ridurre il debito di una cinquantina di miliardi l’anno? Il dado è tratto, chi vorrà raccoglierlo? Intanto, se ne parla. Un’occasione è la presentazione del libro lunedì 14 maggio a Milano (ore 18, Biblioteca Sicilia), con l’autore e Renato Mannheimer.