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“Nonostante il velo”, donne in Arabia Saudita: il reportage


(Corriere del Trentino, 23 febbraio 2019)


– La giornalista Michela Fontana e l’inchiesta sulle differenze e le trasformazioni in atto nei paesi islamici, tra rivendicazioni e integralismi

«Sarà capace il futuro re di cambiare la profonda cultura paternalista fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano (padre, marito, fratello, figlio maschio), che ha ancora sulle donne potere assoluto, rendendole eterne minorenni, e impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione, di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero?». Interrogativi come questo sono al centro di Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita (Morellini editore con Vansa.ePublishing, 2018) il libro-inchiesta attraverso cui la giornalista Michela Fontana dà voce a diverse donne da lei incontrate nel corso di un soggiorno di due anni a Riad, in Arabia Saudita. Con la sua testimonianza, Fontana permette di conoscere dall’interno il cuore del più integralista paese islamico. Un paese in via di trasformazione con l’affermazione sulla scena politica del nuovo uomo forte del regno, l’erede al trono Mohammed Bin Salman, che ha intrapreso un significativo percorso di riforme sociali, alcune delle quali riguardanti proprio il mondo femminile. L’autrice dialoga su questi temi con la giornalista Luciana Grillo martedì (26) alle 18 alla Mondadori store di Trento, in via San Pietro 19. L’introduzione del volume conduce nello sfaccettato universo femminile dell’Arabia Saudita, che con l’imposizione del «colore nero» si cerca di spegnere, di uniformare: il nero è quello dell’abaya, un leggero soprabito che copre il corpo fino ai piedi, con il velo abbinato, l’hijab. Una «divisa» che due ragazze saudite, salite sull’aereo in jeans e magliette colorate, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, si preparano a indossare al momento del ritorno nel loro paese. «Erano divenute sagome informi e irriconoscibili, come tutte le altre donne che avrei incrociato per le strade del paese. Nero e ancora nero, un colore a cui avrei dovuto abituarmi e che avrei finito per detestare, fino a decidere di non indossarlo più quando sarei stata libera di scegliere», osserva Fontana. Attraverso le interviste ma anche le esperienze vissute in prima persona, l’autrice analizza più aspetti della società, femminile e maschile, dell’Arabia Saudita. «Parlare con le saudite che ho conosciuto mi ha stimolato a ripensare al ruolo femminile, a indagare come e quanto l’educazione possa plasmare le persone», afferma. ha fatto grande sensazione nel mondo, ad esempio, la notizia che, da giugno 2018 le donne saudite possano finalmente guidare un’auto: «La rimozione del bando è solo una delle timide ma importanti aperture. Dietro la rigida cortina che separa le donne dal resto della società, sono proprio loro a cercare di esprimere le più forti istanze di rinnovamento».


 

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Una strada senza ritorno: perché la legge Merlin va difesa


Ilaria Baldini, Chiara Carpita, Colette Esposito [Resistenza Femminista] – (27esima ora, 15 febbraio 2019)


– Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada.

Martedì 5 marzo 2019 la Corte Costituzionale terrà una pubblica udienza sulla questione sollevata dalla Corte d’appello di Bari in merito alla costituzionalità della legge 20 febbraio 1958 n. 75 – la legge Merlin – laddove considera reato il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione anche nel caso in cui questa sia esercitata volontariamente e consapevolmente. Com’è noto, il giudizio incidentale di costituzionalità è stato sollecitato dalla difesa dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, imputato insieme ad altre tre persone per il reato di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione.

La nostra associazione (Resistenza Femminista) insieme a Donne in Quota, Coordinamento Italiano della Lobby Europea delle Donne (Lef Italia), Iroko, Salute Donna, Udi Napoli, Differenza Donna, ha preso parte ad un’azione promossa da Rosanna Oliva di Rete per la Parità, quella di presentare un atto di intervento che l’avvocata Antonella Anselmo ha depositato presso la Corte Costituzionale e illustrerà all’udienza del 5 marzo.

La Legge Merlin, approvata dopo una lunga battaglia, ha rappresentato un enorme passo avanti nella tutela dei diritti umani e per la parità di genere, punendo coloro che lucravano sul sangue e le lacrime di tante donne delle “case chiuse” e liberando queste ultime dalla schiavitù dei registri. Un’eventuale decisione della Consulta in senso favorevole all’incostituzionalità della legge Merlin avrebbe delle ricadute di una gravità inaudita. Vediamo perché.

Il dibattito intellettuale che fa bene alle mafie

È ben noto e sotto gli occhi di tutti come l’Italia sia uno dei Paesi, in Europa, più interessati dalla tratta di essere umani, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale. Cassare la legge Merlin, sul presupposto che il reclutamento e favoreggiamento della prostituzione siano legittimi in caso di “libera scelta” della donna, significherebbe fare un grande regalo alle mafie che gestiscono i bordelli oggi illegali e la prostituzione di strada. Si tratta, come sappiamo da inchieste e ricerche, di mafie straniere che si giovano della connivenza e complicità dei nostri clan che pure hanno la loro parte di guadagni. Distinguere la prostituzione “volontaria” da quella che non lo è è ben arduo e stupisce la semplicità con cui nel dibattito politico se ne parla. Le ragazze vittime di tratta, se interrogate, spergiurano di essere lì per loro libera scelta, così come suggerito dai trafficanti. Ricordiamo a questo proposito le parole di Lydia Cacho, giornalista d’inchiesta messicana e attivista per i diritti umani: «Questo è uno dei presupposti fondamentali nel dibattito mondiale sulla prostituzione: c’è un determinato momento nel quale le donne dai diciotto anni in su scelgono “liberamente” di entrare, rimanere e vivere nell’ambito della prostituzione. Le mafie si alimentano e traggono persino motivo di divertimento dalla rendita che è loro offerta da questa discussione tra intellettuali e attivisti anti-prostituzione. La speculazione filosofica sul significato della libertà, della scelta e dell’istigazione è diventata parte integrante delle argomentazioni usate dalle reti di trafficanti. Ho avuto modo di ascoltare questi discorsi dalle loro stesse bocche».

Libera scelta. Davvero?

In sostanza, illudersi di poter operare questa distinzione tra libera scelta di prostituirsi e costrizione esporrebbe al rischio di favorire la prostituzione di persone forzate rendendo difficile punire gli sfruttatori. È sotto gli occhi di tutti come la regolamentazione della prostituzione in paesi come la Germania e la Nuova Zelanda, che hanno liberalizzato l’industria del sesso (ovvero eliminato il reato di favoreggiamento) con la motivazione di facciata di voler migliorare la condizione delle donne nella prostituzione e tutelare coloro che “scelgono liberamente” questa attività, abbia portato viceversa all’esplosione della tratta e al tempo stesso al suo occultamento (il 90% delle donne nei bordelli tedeschi sono straniere, soprattutto dell’Est Europa) abbia reso non perseguibili i tenutari nei cui bordelli sono state scoperte vittime di tratta, abbia trasformato quegli stessi proprietari di bordelli da papponi a rispettabili e potentissimi “manager”, abbia fatto diventare il paese un supermercato del sesso low-cost e meta di turismo sessuale, con grave arretramento nei rapporti tra i generi e con la normalizzazione della violenza sessuale .
Tutto questo è documentato da numerose ricerche accademiche e inchieste come quella fondamentale di Julie Bindel attivista femminista, giornalista e scrittrice, contenuta nel libro denuncia Il Mito Pretty Woman. Come l’industria del sesso ci spaccia la prostituzione appena uscito per VandA.ePublishing. Bindel ha condotto 250 interviste in 40 paesi del mondo smascherando la potente e ben finanziata lobby pro-prostituzione costituita principalmente da proprietari di bordello, agenzie di escort e compratori di sesso il cui intento è proprio quello di ridurre la prostituzione a un “lavoro come un altro” occultando la violenza subita dalle donne allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il “diritto” dei compratori ad abusare dei corpi delle donne

Il denaro non cancella lo stupro

Inoltre, come ci raccontano le sopravvissute al mercato del sesso come Rachel Moran che hanno avuto il coraggio di denunciare l’industria e le violenze legalizzate subite dai clienti, quello della “libera scelta” non è soltanto un argomento pericoloso, ma anche semplicistico e scorretto. Ci sono infatti donne che senza essere vittime di tratta apparentemente hanno “scelto” in condizioni di povertà estrema o necessità oppure hanno alle spalle un passato di abusi infantili subiti che le ha rese vulnerabili e appetibile “merce” di sfruttamento per clienti e/o papponi. Per Moran e altre sopravvissute oggi attiviste, la prostituzione non è né sesso né lavoro, ma violenza sessuale: il denaro non cancella lo stupro ma anzi viene usato dal prostitutore per esercitare il suo potere e occultare l’abuso.

La legge in Francia: colpire la domanda

Il 1° febbraio scorso in Francia il Consiglio costituzionale ha sancito la costituzionalità della legge approvata il 13 aprile 2016 che ha introdotto la criminalizzazione dell’acquisto di sesso, la decriminalizzazione delle persone prostituite e la creazione di programmi di uscita e politiche di protezione e sostegno per le vittime di prostituzione, sfruttamento sessuale e tratta. Si tratta di una decisione storica. Nell’appello indirizzato al Consiglio costituzionale #NabrogezPas firmato anche dalla nostra associazione, sopravvissute alla prostituzione e attiviste sottolineano come le prime vittime della prostituzione siano le donne e i minori appartenenti ad etnie e minoranze sociali, persone in situazioni di povertà, vittime di violenza sessuale nell’infanzia, la parte più vulnerabile della società che i clienti prostitutori sfruttano imponendo un atto sessuale grazie al proprio potere economico indifferenti sia all’età (sono moltissime le ragazze minorenni nel mercato del sesso) sia alla condizione socio-economica della persona che comprano.
Lo scopo della legge abolizionista francese è proprio quello di colpire la domanda dal momento che i soldi spesi dai prostitutori vanno ad alimentare la tratta e lo sfruttamento sessuale delle donne (in Francia le statistiche parlano di 80% di vittime di tratta). La prostituzione, ovvero la ripetizione di atti sessuali non desiderati, come dimostrano studi e testimonianze di donne prostituite, ha conseguenze fisiche e psicologiche analoghe alla violenza e alla tortura: sindrome da stress post-traumatico, depressione, suicidio, dissociazione traumatica .

«Libertà d’impresa»

Coloro che in Francia e in Italia hanno sollevato la questione della costituzionalità in nome di un concetto ultraliberista di “libertà di impresa”, equiparando la prostituzione ad un’attività commerciale come un’altra, negano totalmente questa complessità. È evidente, d’altra parte, che la libertà di chiunque di provvedere al proprio sostentamento tramite il percepire pagamenti in cambio di atti sessuali non viene negata e tantomeno punita dalla legge Merlin né da quella francese (né dovrebbe mai esserlo, visto che per le donne nella nostra società questa costituisce spesso l’unica “scelta” rispetto al morire di fame), dunque di cosa esattamente stiamo parlando quando parliamo di presunta incostituzionalità? Stiamo parlando della possibilità di “aiutare” le donne a prostituirsi meglio, a trovare più occasioni di “facile guadagno”, come se le occasioni mancassero, come se il guadagno fosse facile e soprattutto come se gli aiutanti valorosi fossero dei benefattori disinteressati.

Lina e l’articolo 3 della Costituzione

Nella nostra Costituzione l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41). La prostituzione vìola palesemente tutte le caratteristiche del lavoro e dell’impresa così come regolate nei nostri principi costituzionali. Lina Merlin, partigiana e madre costituente, è colei che ha promosso l’inserimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione dell’espressione «senza distinzioni di sesso», il Principio Fondamentale dell’uguaglianza delle cittadine e dei cittadini. Sarebbe proprio questo principio fondamentale ad essere messo in discussione qualora venisse eliminato il reato di favoreggiamento. L’inferiorità delle cittadine italiane in termini di diritti umani sarebbe sancita per legge.

Il Consiglio Costituzionale francese, come ha spiegato l’avvocata Lorraine Questiaux ha riconosciuto che «il principio di dignità è oggettivo e non soggettivo. Rinunciare ai propri diritti fondamentali non è libertà: essi sono inalienabili e universali» . Ci auguriamo una decisione simile anche da parte dei giudici italiani.


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Manifesti femministi


Deborah Ardilli e Federico Zappino (Operaviva Magazine, 14 febbraio 2019)


– Una conversazione sul femminismo radicale

Questa conversazione prende spunto dalla pubblicazione del libro Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi i suoi scritti programmatici (VandA, 2018), a cura di Deborah Ardilli

Federico Zappino: Qualche tempo fa, ma in realtà accade periodicamente, venni sollecitato a replicare alle affermazioni, giudicate omofobiche e transfobiche, di alcune femministe che si definivano «radicali». Affermazioni che, come immagini, vertono attorno a questioni conflittuali come la gestazione per altri, il sex work o il transgenderismo. Ora, al di là del contenuto specifico di queste affermazioni, su cui non mi sembra utile soffermarsi, o almeno non nei termini in cui vengono correntemente formulate (e nemmeno, purtroppo, in quelli che solitamente caratterizzano le risposte di parte opposta), a colpirmi di quell’intervista fu che ben prima di articolare una risposta, mi ritrovai affannosamente a spiegare, o a provarci, che l’appropriazione dell’aggettivo «radicale», da parte di quelle esponenti del femminismo, occultasse in realtà un «differenzialismo», o un «essenzialismo». E non era solo una questione di parole. Era una questione storica, e politica. Com’era accaduto che il femminismo radicale – quello cioè in cui qualunque minoranza di genere e sessuale dovrebbe trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, dal momento che il suo obiettivo consiste nella sovversione del sistema sociale etero-patriarcale – fosse finito per coincidere, nella vulgata, con il femminismo differenzialista, o essenzialista? Al di là del fatto che la presa di distanza dall’essenzialismo, attorno a cui convergono i gender studies accademici, non costituisca di per sé nulla di automaticamente promettente, mi sembra in ogni caso che l’opportuna pubblicazione di Manifesti femministi, a tua cura, consenta di appianare questo equivoco, tanto per iniziare. Mi sembra che questo disagio sia vissuto come tale da quant* ritengono impellente mettersi sulle tracce delle inestimabili risorse che storicamente hanno consentito loro di pensare, oggi, la necessità di «un più ampio movimento politico che miri ad abolire il sistema eterosessuale», come scrisse Louise Turcotte a commento dell’opera di Monique Wittig.

Deborah Ardilli: Quando l’editrice mi ha proposto di curare un’antologia di manifesti della «seconda ondata» femminista, ho pensato che valesse la pena cogliere l’occasione per provare a mettere in discussione una rappresentazione del femminismo radicale che, ancora troppo spesso, rasenta la caricatura. Servirebbe forse un rimando ad altri volumi per raccontare in maniera dettagliata in che modo quella rappresentazione si sia insediata nel senso comune, dando luogo all’equivoco che hai appena richiamato. Qui mi limito a segnalare che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, quando da più parti si annunciava la transizione verso costellazioni post-patriarcali, sono stati versati fiumi di inchiostro per dipingere la «seconda ondata» del femminismo come un blocco omogeneo, compattamente attestato su posizioni «essenzialiste» – il peggior insulto che il gergo accademico possa concepire.

Stando alla vulgata, il femminismo di quegli anni costituirebbe lo stadio primitivo di una ricerca che, con l’avanzare del tempo, sarebbe progredita in direzione di una maggiore complessità teorica e di uno sguardo più scaltrito sulle questioni di genere. In nome della complessità, pareva finalmente possibile scrollarsi di dosso la zavorra ideologica con cui le femministe radicali avevano sovraccaricato pratiche e discorsi. Ora, è chiaro che se si parte dal presupposto che la «seconda ondata» rappresenti uno stadio infantile del femminismo da cui occorre congedarsi senza indugi, molte cose sono destinate a passare inosservate. Non ultimo il fatto che, all’epoca, femminismo radicale e pensiero della differenza sessuale costituivano tendenze distinte e rivali all’interno del movimento di liberazione delle donne. In Francia, per esempio, l’area «differenzialista» raccolta intorno a Psychanalyse et Politiquerifiutava persino di definirsi «femminista» ed era in conflitto aperto con le Féministes révolutionnaires di Christine Delphy e Monique Wittig.

Ripristinare canali di comunicazione con il passato può, allora, essere un primo passo per mettere in questione l’idea che la radicalità del femminismo coincida con la feticizzazione di un dato anatomico, o con la rivendicazione della potenza generativa del materno, o di qualsiasi altra forma di valorizzazione di una specificità sessuata. Capita ancora spesso, per altro, di imbattersi in giudizi portati a demonizzare la scelta separatista con l’argomento che soltanto un rozzo pregiudizio naturalistico potrebbe motivarla. Il mio auspicio è che restituire un minimo di respiro storico ai nostri ragionamenti aiuti non solo a vedere che le cose non stanno così, ma anche a comprendere che la presa di distanza dal feticismo biologico non necessariamente coincide, per il femminismo radicale, con l’obiettivo di prolungare con altri mezzi i dispositivi di inclusione della tolleranza liberale.

Un esempio tratto da Manifesti femministi: quando le Redstockings di Shulamith Firestone scrivono, nel loro manifesto del 1969, che «le donne sono una classe oppressa», che «poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une delle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica», che «il nostro compito principale in questo momento è creare una coscienza di classe femminilecondividendo la nostra esperienza e denunciando pubblicamente il fondamento sessista di tutte le nostre istituzioni», la problematica che si impone, con ogni evidenza, non è quella della valorizzazione della differenza sessuale. C’è indubbiamente una politica femminista del corpo; ma, a giustificarla, non è l’idea che l’anatomia costituisca di per sé un principio di classificazione sociale. Diversamente, non si spiegherebbe il ricorso alla categoria di classe di sesso: non si spiegherebbe, in altre parole, per quale motivo le frange più innovative del femminismo radicale abbiano ritenuto di poter estendere al genere l’analisi materialista. L’implicazione logica della rivolta delle donne è che la loro condizione può essere modificata, che il rapporto sociale che le definisce come la natura, il sesso, la differenza, l’alterità complementare all’uomo, può essere sovvertito. Fino a che punto si sarebbe dovuta spingere la trasformazione per poter effettivamente parlare di estinzione del patriarcato, lo avrebbe chiarito poco più tardi la stessa Firestone nelle pagine di The Dialectic of Sex (1970): «E proprio come lo scopo della rivoluzione socialista non era soltanto l’eliminazione del privilegio economico di classe, ma della distinzione di classe in quanto tale, allo stesso modo lo scopo della rivoluzione femminista deve essere, diversamente dal primo movimento femminista, non soltanto l’eliminazione del privilegio maschile, ma della distinzione sessuale in quanto tale: le differenze genitali tra esseri umani non dovrebbero più avere importanza culturale».

Zappino: Una rappresentazione piuttosto efficace di ciò che potrebbe significare «sovversione dell’eterosessualità».

Ardilli: Senz’altro. Ma permettimi un’ulteriore precisazione, in relazione alla rivolta delle donne e alle sue implicazioni. Se seguiamo le peripezie dell’aggettivo «radicale» a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta ci accorgiamo subito che il mutamento semantico riflette uno spostamento politico, non la convalida di un assunto biologico. Prendiamo il caso statunitense, che mi pare idoneo a illuminare processi di soggettivazione politica che, negli stessi anni, si attivano anche al di qua dell’Atlantico. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per una giovane donna nord-americana essere una radical woman equivaleva a gravitare nell’orbita della Nuova Sinistra, cioè di quella frastagliata area politica, comportamentale e contro-culturale che comprendeva l’attivismo studentesco, il movimento per i diritti civili, la protesta contro la guerra del Vietnam e il riferimento obbligato ai movimenti di liberazione nei paesi del cosiddetto Terzo mondo. Alla fine del decennio, lo stesso aggettivo passa invece a qualificare quella componente – numericamente minoritaria, ma politicamente significativa – del movimento delle donne che, da un lato, mette fine alla militanza di servizio all’interno del movimento misto, mentre dall’altro lato prende le distanze dall’emancipazionismo di organizzazioni femminili di impronta riformista, come la NOW (National Organization for Women) di Betty Friedan. Che cosa comporta questa politicizzazione del privato, se non una vigorosa spinta verso la sua de-naturalizzazione? Che cosa motiva la doppia demarcazione polemica, se non la scoperta di una matrice autonoma di oppressione, che impone di spingere l’analisi politica nei territori del privato, della famiglia, della sessualità, del lavoro domestico?

Zappino: Se c’è qualcosa che accomuna l’odierno movimento femminista, da una parte, e quello gay, lesbico e trans*, dall’altra, sembra essere invece proprio la difficoltà di riconoscere l’esistenza di una matrice di oppressione. Non si capisce da dove venga questa nostra oppressione, e in realtà a volte non è nemmeno chiaro se concordiamo attorno al fatto di essere soggette a una qualche forma di oppressione. Nei casi migliori, riconosciamo l’esistenza di qualcosa che si chiama «capitalismo», o «neoliberismo», qualcosa che sortisce effetti tangibili sulla materialità delle nostre vite. Ma raramente siamo pronte ad accordare a qualcosa che si chiama invece «eterosessualità», o «etero-patriarcato», lo stesso potere di determinare le nostre esistenze, nonché di porsi come discrimine tra gli effetti sortiti differenzialmente, dallo stesso capitalismo, sulle «vite», a seconda del fatto che le vite siano quelle degli uomini o quelle delle donne, quelle degli uomini cis-eterosessuali e quelle dei gay o delle persone trans*. A volte, capita di leggere pagine e pagine di testi che dichiarano di ispirarsi al femminismo, o al queer, ma senza che in essi vi compaia mai, se non timidamente, un riferimento specifico al sistema sociale eterosessuale, o all’eterosessualità come modo di produzione patriarcale delle cosiddette «differenze» di genere.

Senza dubbio, una delle cause di questa distorsione percettiva è costituita proprio dall’affermazione della razionalità liberale, per cui non esiste alcuna matrice di oppressione, né alcun rapporto sociale di forza, ma solo individui che stipulano coscientemente un contratto sociale con altri individui, altrettanto liberi e uguali, in piena autodeterminazione, libertà di scelta, responsabilità (e colpa, di conseguenza, per i propri personali fallimenti). Tutte parole che, a ben vedere, sono ampiamente confluite nel lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq. Al contempo, sappiamo anche che questa non è l’unica causa, dal momento che la difficoltà di mettersi d’accordo a proposito di una matrice di oppressione sembra permeare anche ampi strati del movimento più vicini alla critica marxista.

Ardilli: È una delle cause, appunto, ma non l’unica. Anche perché non sono sicura che il lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq sia totalmente e indistintamente intriso di retorica liberale, o neoliberale. In fondo, sappiamo bene che una vigorosa retorica anti-neoliberale, o anche anti-capitalista, può essere del tutto compatibile con il misconoscimento dell’etero-patriarcato come sistema sociale. Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta, hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa, tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso pertinenza.

Certamente, è innegabile che oggi sia diffusa – molto più di allora – la propensione a prosciugare il discorso sulle determinanti che influenzano le nostre vite: riconoscersi non solo condizionate, ma oppresse, è difficile. E doloroso. Mi sembra che il prestigio che circonda la reinterpretazione dei rapporti sociali in chiave di cooperazione volontaria tra soggettività libere e autodeterminate dipenda, molto più che dalla forza esplicativa di questo modello, dalla sua capacità di rassicurarci: perché perseguire faticosi progetti politici di liberazione, se la nostra autodeterminazione può esprimersi già qui e ora? In queste condizioni, tendono a moltiplicarsi discorsi che mettono l’accento sull’individuo, sulla sua postura volitiva o desiderante, sulla sua agency, sul suo empowerment. Da questo punto di vista, poni chiaramente un problema affine a quello sollevato in un intervento del 1990 di Catharine MacKinnon, emblematicamente intitolato Il liberalismo e la morte del femminismo. In quel discorso, MacKinnon si chiedeva dove fosse finito il movimento femminista che, negli anni Settanta, era stato capace di criticare concetti sacri come quelli di «scelta» e «consenso», che cosa fosse rimasto di quel movimento consapevole del fatto che «quando le condizioni materiali ti precludono il 99% delle opzioni, non ha senso definire il restante 1% – ciò che stai facendo – una scelta». E nonostante negli ultimi anni la questione del rapporto tra femminismo e neoliberalismo sia stata ampiamente dibattuta, sembra che ciò sia avvenuto in termini rovesciati rispetto a quelli proposti da MacKinnon. Mi sembra che il suo approccio colga il problema dell’impatto negativo della razionalità liberale in modo per noi più pertinente di quanto riescano a fare altre prospettive – su tutte, quella di Nancy Fraser – portate invece a rimproverare al movimento femminista degli anni Settanta di avere contribuito all’ascesa del neoliberalismo attraverso la critica del salario familiare. Il testo di Silvia Federici incluso in Manifesti femministi consente invece di comprendere quale fosse la portata reale della critica al salario familiare sviluppata, in particolare, dai gruppi per il salario al/contro il lavoro domestico: critica che mi pare grossolanamente fraintesa se interpretata, in chiave emancipazionista, come una richiesta di maggiore integrazione delle donne ai processi di valorizzazione capitalistica.

Quello che mi preme sottolineare, per tornare alla questione, è che il riferimento all’egemonia della razionalità neoliberale ci aiuta a cogliere solo un aspetto della questione. Come accennavo sopra, nel quadro dell’odierna «terza ondata» femminista non è affatto raro imbattersi in critiche della razionalità neoliberale (e del suo doppiofondo neofondamentalista, come sai bene), anche molto affilate, ma che, tuttavia, tendono a perdere mordente quando si tratta di pronunciarsi sull’etero-patriarcato. Certamente il sostantivo «patriarcato» e l’aggettivo «patriarcale» compaiono ancora nei documenti prodotti dal movimento odierno. Contrariamente alle apparenze, però, questo non significa che il concetto di patriarcato – o, come mi sembra più corretto dire, di etero-patriarcato – conservi il peso determinante che aveva avuto per il femminismo radicale.

Provo a spiegarmi meglio: la maggioranza del movimento femminista attuale è assolutamente disposta a riconoscere che le politiche neo-liberali hanno effetti devastanti sulla vita delle donne e delle minoranze di genere. I problemi sorgono non appena si tratta di rispondere a domande come queste: perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne? Perché sono in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio – incluso quello sessuale – che affluiscono verso le società occidentali da paesi messi in ginocchio dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale? È sulla risposta da dare a interrogativi come questi che si palesano le divergenze tra chi ritiene indispensabile utilizzare il concetto di etero-patriarcato e chi, al contrario, ritiene di poterne fare a meno. L’area del femminismo socialista, per esempio, è propensa a sostenere che 1) questi fenomeni vanno messi sul conto della crisi della riproduzione sociale che investe le società capitalistiche e 2) che il capitale resta il principale agente, oltre che l’unico beneficiario, di tali forme di sfruttamento. Per quale strano motivo proprio le donne vengano assegnate alla «sfera riproduttiva» non viene chiarito dalle teorie che escludono programmaticamente il riferimento a un modo di produzione eteropatriarcale. Veniamo invece sollecitate a interrogare il modo in cui il capitale utilizza a proprio vantaggio la differenza sessuale. Ma come venga prodotta quella «differenza», nel quadro di quale rapporto sociale, resta un mistero. A differenza del femminismo radicale, il femminismo socialista sembra suggerirci che la differenza tra uomini e donne, semplicemente, c’è: è un dato biologico, pre-sociale, una distinzione funzionale necessaria alla riproduzione sessuale che destina la maggior parte delle donne a un’intimità permanente con gli uomini, in vista della rigenerazione della forza-lavoro su base quotidiana e generazionale. Credo si debba tener conto di questa ipoteca differenzialista per comprendere l’insistenza a parlare di lavoro riproduttivo (anche a dispetto del fatto che i servizi prodotti possiedano un valore di scambio, dato che è possibile trasferirli sul mercato) e a tacere il fatto che gli uomini, proletari inclusi, sono beneficiari diretti del lavoro che riescono a estorcere gratuitamente alle donne. Va per altro precisato, a scanso di equivoci, che lo sfruttamento domestico non esaurisce il campo dell’oppressione etero-patriarcale. Senonché, è proprio quando volgiamo lo sguardo verso altri fenomeni macroscopici del dominio etero-patriarcale, come la violenza sessuale, che diventa ancora più problematico chiamare in causa il capitale, o il neoliberalismo. Correlare uno stupro al plusvalore, o a una crisi di sovrapproduzione, mi riesce decisamente più difficile che non associarlo all’esistenza un sistema eterosessuale finalizzato all’appropriazione del lavoro, della sessualità e della coscienza delle donne. E tu potresti fare questo stesso discorso, come già fai, per altre forme di violenza di genere, parlando del pestaggio nei riguardi della persona trans* o del ragazzo gay ammazzato di botte al termine del suo primo giorno di lavoro al centro commerciale. D’altronde: come si spiega la sovra-rappresentazione delle persone trans* tra le fila dei disoccupati? È sufficiente riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza» determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?

Periodicamente mi cadono sotto gli occhi articoli che documentano, con una certa passione dimostrativa, impennate di violenza contro le donne a partire dalla crisi economica del 2007-08. Il messaggio di questi contributi è chiaro: la crisi economica e la relativa precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro induce gli uomini alla violenza. Vorrei fosse altrettanto chiara, però, l’esigenza che abbiamo di conservare il senso delle proporzioni, evitando di trasformare una correlazione statistica in una teoria dell’oppressione. Sospetto, per altro, che anche le femministe socialiste avvertano questa difficoltà. Non è un caso che non si siano completamente estinte le concessioni alla retorica femminista: il ricorso residuale all’aggettivo «patriarcale», o al sostantivo, «patriarcato» potrebbero veicolare un’implicita ammissione dell’insufficienza del quadro analitico marxista. Tuttavia, questo omaggio formale alla terminologia del femminismo radicale raramente si spinge al di là di una definizione che circoscrive il patriarcato alla sfera delle mentalità, degli stereotipi, dei pregiudizi: il sistema sociale di riferimento resta uno solo, il capitalismo. E questo mi sembra un ostacolo serio a indagare le cause delle nostra oppressione.

Zappino: Pensavo che è curioso che ci troviamo a interrogarci attorno a tali questioni nel tempo dell’intersezionalità. O meglio, di una versione rimasticata e distorta dell’intersezionalità – una produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità, mi verrebbe da definirla. È infatti strano, non trovi?, che nell’ora della piena affermazione delle retoriche dell’intersezionalità, o dell’alleanza, femministe e altre minoranze di genere continuino tranquillamente a confliggere, e che non concordino nemmeno attorno al fatto di essere soggette a una comune matrice di oppressione. E spesso è difficile non cedere alla tentazione che dietro alle retoriche dell’intersezionalità si celi solo un inganno, per noi. L’intersezionalità consiste forse nel non focalizzarsi mai nemmeno per sbaglio sulla specificità delle forme di oppressione, nel guardare indistintamente a tutto (ossia, a nulla), affinché le ingiunzioni alla salvaguardia del movimento misto, dietro lo spauracchio del separatismo, possano tranquillamente occultare, e dunque perpetuare, il dominio maschile ed eterosessuale al suo interno? È questo che vogliamo?

Ardilli: La mia impressione è che, nel discorso corrente, la parola «intersezionalità» abbia assunto il valore di una formazione di compromesso. A un primo sguardo, si direbbe che la sua diffusione rifletta un certo grado di consenso intorno alla necessità di abbandonare lo schema che induce a graduare le oppressioni su una scala gerarchica. Nella pratica, vediamo però che le cose funzionano diversamente: il richiamo all’«intersezionalità» opera come un principio di universalizzazione astratta che finisce col ristabilire silenziosamente le gerarchie che, in linea teorica, si volevano eliminare. Mi sembra chiaro, per esempio, che precipitarsi a proclamare manifestazioni antifasciste e antirazziste ogniqualvolta l’autore di una violenza contro le donne è un soggetto razzializzato equivale a dire che, di fronte al rischio (tutt’altro che improbabile) di strumentalizzazioni a destra, la protesta contro la violenza sessuale deve passare in secondo piano. Anziché agire come moltiplicatore e intensificatore dei fronti di lotta, l’intersezionalità rischia di inibirne alcune, o di moderarne le pretese, in nome di un irresistibile richiamo all’unità. Noblesse oblige. Al contrario, per le femministe radicali di cui mi occupo in Manifesti femministi era del tutto ovvio che «le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri». Mi sembra che oggi quell’intuizione si sia come capovolta: mettere tra pudiche parentesi la propria oppressione, combattere le battaglie degli altri, rinunciare all’auto-legittimazione che proviene dall’essere contemporaneamente soggetto e oggetto della proprio liberazione – insomma, quel complesso di attitudini che Monique Wittig e le altre autrici di Per un movimento di liberazione delle donne non esitavano a squalificare come «altruismo cristiano e piccolo-borghese» – oggi sono considerate qualità politiche di prim’ordine.

Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si legge che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali». Ecco, l’immagine del movimento femminista come una cavità aperta in cui si amplificano suoni emessi altrove potrebbe essere una metafora eloquente di quella che tu definisci una «produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità».


Foto © Nhandan Chirco (in collaborazione con Branko Popovic + Igor Lecic), Il Rimmel dell’Europa cola sui baveri / Et l’Europe alors (2014), MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove.

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Nonostante il velo. Il reportage emozionale di Michela Fontana


L’angolo di Key (12 febbraio 2019)


– Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?

Vi siete mai chiesti chi si nasconde dietro ad un velo, quando incontrate una donna che lo indossa?
Che storia si cela, qual è il suo pensiero. Sono tutte domande che a me, personalmente, vengono in mente quando mi trovo di fronte ad una donna che indossa questo simbolo. Si tratta dell’ hijab, un velo nero che nasconde i capelli, le orecchie e la testa.
E come vive quella donna, nonostante indossi il velo?
Il libro che leggete nel titolo ce lo svela.
L’intervista e la recensione che vado a presentarvi mi hanno conquistata molto. Perché il libro mi ha conquistata, e sono sicura che piacerà anche a voi. Specialmente se amate libri scritti bene da croniste che con la professionalità e l’etica giornalistica raccontano storie, culture e vite a noi lontane, ma che meritano la nostra attenzione.
Il libro in questione è “Nonostante il velo” di Michela Fontana, edito da VandA ePublishing.

Un libro corposo ma per nulla pesante, come la fattezza potrebbe far pensare.
È a dir poco strepitoso. Scritto divinamente da una brava (lo si capisce dal tipo di scrittura) cronista che con eleganza, intelligenza e rispetto, è entrata in punta di piedi in una società culturalmente ostica alle donne, come quella araba, e ha saputo raccontarla al meglio.
Un approfondimento giornalistico bene accurato, che non tradisce l’umanità della donna-giornalista Michela Fontana.
Si legge benissimo. Pur non conoscendo la sua voce, è come se leggendolo fosse davvero lei, Michela, a raccontare le donne che ha incontrato.

Insieme con l’autrice vorrei approfondire alcuni aspetti, per cui ecco la nostra chiacchierata:

Michela, due anni vissuti a Riad inseme a suo marito che era lì per lavoro. Cosa le è rimasto di quella esperienza una volta rientrata in Europa?
Mi è rimasto un legame ideale con le donne saudite, molte delle quali ho trovato coraggiose, intelligenti e pronte a vivere nel futuro. Mi è anche rimasta una maggiore comprensione di cosa significhi vivere in un paese islamico conservatore e come sia difficile per le saudite emanciparsi  davvero dalle loro tradizioni patriarcali. In effetti noi diamo per scontato che il nostro modello di vita occidentale sia attraente, ma per molte donne che ho intervistato la nostra libertà non è necessariamente considerata un valore positivo. La  realtà della società saudita è molto più complessa e contraddittoria dei luoghi comuni basati su conoscenze superficiali.

Che significato hanno in quelle terre i concetti di intraprendenza e
evoluzione al femminile?
In Arabia Saudita oggi direi che essere intraprendente per una giovane donna significa voler studiare, cercare un lavoro e aspettare a sposarsi per poter finire gli studi. Vuol anche dire resistere alle pressioni famigliari per avere molti figli e cercare di avere una certa indipendenza economica. Naturalmente la società saudita è variegata e ci sono famiglie ancora estremamente conservatrici. Insomma, non tutte le donne saudite vogliono mettersi al volante o fare a meno del loro “guardiano” (padre marito fratello), che ha potere assoluto su di loro. Questo però lentamente cambierà e sempre più donne vorranno “ emanciparsi” senza però andare contro i dettami della loro cultura religiosa.

C’è una storia o una donna che più di altre le è rimasta impressa nel
cuore e nella mente?
Faccio fatica a scegliere, perché molte di loro mi hanno colpito. Ripenso spesso a Wadha, a cui dedico il capitolo In fuga verso la libertà , che è fuggita dal paese per sottrarsi alle violenze che subiva da parte del padre e ora ha trovato asilo politico in Canada, proprio come  ha fatto recentemente la giovane Rahaf Al Muhammed al Qunun di cui hanno parlato tutti i giornali, dopo che si era barricata nell’ aeroporto di Bangkok. A differenza della diciottenne Rahaf, però, Whada ha più di trentanni ,ha pianificato la fuga in due anni, senza clamore o pubblicità, con molta paura, molti rischi e molta sofferenza.

Quanto tempo ha impiegato a scrivere Nonostante il velo? C’è stato
qualcosa che la preoccupava nella stesura del libro?
Ho svolto le mie interviste durante i due anni di soggiorno a Riad e ho impiegato circa un anno a scrivere  il libro. Quello che mi preoccupava era di comunicare al meglio quanto avevo sentito e vissuto durante la mia esperienza, senza tradire il desiderio delle donne saudite di essere comprese e ascoltate. Ho cercato di non fare trapelare il mio punto di vista (anche se immagino si possa percepire tra le righe) o di dare giudizi, ma di fornire il contesto e le informazioni storiche affinché la lettrice/lettore possa giudicare da solo. Ho cercato di fare ciò che penso un giornalista o uno storico dovrebbe idealmente fare.

Ci sono altre culture che vorrebbe esplorare, capire e raccontare in un
altro libro?
Mi interessano soprattutto le culture diverse dalla nostra, perché rappresentano una sfida alla comprensione e ai luoghi comuni. Sono stimolata a scrivere soprattutto quando vivo in un paese per motivi di lavoro. Quando ho vissuto in Cina ho studiato la storia cinese e  ho scritto la biografia  di Matteo Ricci, un gesuita vissuto in Cina tra cinquecento e seicento, il primo mediatore culturale tra Cina ed Europa (Padre Matteo Ricci, nato a Macerata, la mia Regione – ndr). Forse oggi mi piacerebbe conoscere più a fondo il Giappone, un antica civiltà che conserva le tradizioni pur essendo totalmente immerso nella modernità.

Bello davvero. Da giornalista, vorrei saper scrivere e raccontare storie come lei.


 

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Il mito di Pretty Woman, la puttana felice


di Ida Paola Sozzani (LaCittàFutura, 13 gennaio 2019)


– Esce nelle librerie italiane il prossimo 15 Gennaio 2019 l’ultimo dossier-inchiesta sulla prostituzione realizzato dalla giornalista inglese Julie Bindel, nell’appassionata traduzione realizzata dalle attiviste italiane di Resistenza Femminista, pubblicata da Vanda-Morellini editore.

MILANO. Le moderne abolizioniste della prostituzione rivendicano la loro genealogia da Josephine Butler, che fu antesignana del femminismo e riformatrice sociale e figlia di John Grey, un avvocato antischiavista, e moglie di George Butler, accademico progressista. Nell’Inghilterra vittoriana rigidamente classista del 1860, dove le donne non avevano ancora il diritto di voto, la Butler fu la prima a denunciare l’abuso che le donne e in particolare le bambine delle classi sociali disagiate subivano nella prostituzione, denunciando le contraddizioni borghesi insite nella società Vittoriana che relegava le donne povere a inutile feccia sociale sfruttabile dai maschi e dai papponi. Josephine Butler fu tra quelli che forzarono il Parlamento inglese ad aumentare l’età del consenso matrimoniale delle ragazze dai 13 ai 16 anni, impedendo di fatto i matrimoni delle bambine.

A partire dal 1869 la Butler si impegnò per l’abrogazione del Contagious Diseases Act, una legge brutale che stigmatizzava le donne come causa del diffondersi delle malattie veneree in particolare fra i soldati e autorizzava ronde poliziesche nelle città militari allo scopo di imporre controlli sanitari e ricoveri coatti alle donne, contravvenendo così di fatto al principio giuridico dell’ “Habeas corpus”, sancito in Inghilterra fin dal 1679 con l’Habeas Corpus Act a tutela della sicurezza e inviolabilità di ogni persona.

La Butler non fu certo una moralista cristiana o una sessuofoba – come venne denigrata – né una salvatrice paternalistica delle donne, bensì una progressista convinta che la prostituzione violasse i diritti umani delle donne e mise per la prima volta in discussione il diritto degli uomini ad avere accesso garantito e indiscriminato al corpo di donne e minori finiti vittime della prostituzione.

Ne “Il mito Pretty Woman” – che nell’edizione originale in Inglese reca il titolo “The Pimping of Prostitution” – lo sfruttamento della prostituzione – l’autrice e giornalista britannica Julie Bindel sfata il mito della “Puttana Felice”, quella Pretty Woman che Cinema e Media ci hanno rivenduto dagli anni Ottanta, quando le potenti lobby pro-prostituzione dagli USA sono riuscite a far passare la narrazione tossica che nella prostituzione la donna eserciti la propria libertà e autodeterminazione sessuale o addirittura una scelta di lavoro. Bindel ci offre una panoramica della realtà della prostituzione oggi a livello mondiale, a fronte di una ricerca condotta personalmente in 40 diversi Paesi, città e Stati, dove ha incontrato e intervistato 250 persone coinvolte a vario ruolo nel problema: attivisti o sedicenti tali per i diritti delle “sex workers”, papponi, compratori di sesso, prostitute in attività e fuoriuscite dalla prostituzione, donne e uomini vittime di tratta, tenutari di bordelli e sfruttatori-affaristi che reinvestono i profitti milionari nelle grandi catene dei bordelli, attivisti contro l’AIDS foraggiati dal governo, giornalisti di varia nazionalità, lesbiche, gay, associazioni di bisessuali e transgender, agenti di polizia e femministe.

Julie Bindel negli ultimi anni ha visitato bordelli legali e regolamentati in Nevada negli USA, Australia, Germania e Olanda e zone “gestite” come a Zurigo, Amburgo o Leeds in Gran Bretagna, e si è recata nel poverissimo Downtown East Side di Vancouver dove centinaia di donne e ragazze native pellirosse vengono prostituite e uccise. Nel Gujarat indiano ha visitato un villaggio che sussiste grazie alla prostituzione di madri, mogli, sorelle e zie, a Istanbul è riuscita a intervistare uomini turchi in fila davanti a un bordello legale, mentre in Cambogia ha conosciuto le prostitute che vivono lungo una linea ferroviaria dismessa a Phnom Penh senza acqua e servizi igienici e su cui la Ong WNU lucra finanziamenti governativi presentando quelle sventurate come “Attiviste per i diritti delle sex workers”.

Nel suo libro Julie Bindel ripercorre la storia del movimento abolizionista contemporaneo, dai suoi esordi con il movimento internazionale WHISPER (Donne in rivolta che hanno subito violenza nel sistema prostituente), fondato nel 1985 negli USA da Evelina Giobbe e che riuniva donne sopravvissute e fuoriuscite dal sistema prostituente, per giungere fino all’attuale SPACE International (Attiviste internazionali provenienti da nove Paesi sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica).

Evelina Giobbe fu la prima trent’anni fa a evidenziare le analogie esistenti nelle moderne società patriarcali occidentali tra l’atteggiamento tenuto dalla Destra e dalla Sinistra relativamente al diritto di accesso del maschio nei confronti del corpo femminile: entrambi gli schieramenti sono interessati a controllare e di conseguenza regolamentare sociologicamente e quindi politicamente l’accesso ai corpi delle donne. La destra lo fa attraverso l’istituto del matrimonio e la sua tutela, la sinistra attraverso le “deroghe” libertarie della prostituzione e della pornografia. “Insomma – ha confidato ancora recentemente Giobbe alla Bindel – puoi sposare oppure comprare questa cosa, e noi siamo questa cosa”.

Mettendone in luce le contraddizioni, in parallelo, nel libro Julie Bindel tratteggia anche lo sviluppo nel mondo anglosassone e americano della potente lobby pro-prostituzione, ai suoi esordi incarnato dal gruppo liberista COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics cioè “Basta con la vostra vecchia morale!”) fondato nel 1973 negli USA da Margo St. James; era stato preceduto da WHO (Whores, House Wives and Others – Puttane, Casalinghe e Altro). St. James era finanziata dalla Fondazione Point, legata alla Chiesa metodista Glide Memorial di San Francisco e ricevette mille dollari dalla Fondazione Playboy. Margo St. James radunò cinquanta personalità di spicco nel comitato consultivo di COYOTE e incaricò alcune prostitute di condurre una campagna per la decriminalizzazione. Nel gruppo operarono donne che si spacciavano come “la voce delle prostitute” – senza però mai essere state nella prostituzione, bensì spesso nello sfruttamento di altre donne – affiancate da uomini anche importanti e potenti che ne sostenevano l’agenda politica e il concetto che la prostituzione fosse un lavoro come un altro: si trattava di politici, studenti, guru di associazioni e compratori di sesso che sdoganavano il marketing di questo abuso sessuale “vecchio come il mondo” rivisitandolo e riproponendolo in una forma socialmente accettabile costruita sul mito della “puttana felice” e della “puttana per scelta” o, paradossalmente, secondo i desiderata femministi più aggiornati dell’empowerment e della autodeterminazione della donna.

Xaviera Hollander pubblicò insieme a Robin Moore nel 1971 il best seller “The happy hooker” – La puttana felice – da cui furono tratti un film e una commedia musicale: grazie a questa sua finta biografia – ammise di essersi prostituita solo per sei mesi – riuscì a rendere popolare l’idea che la prostituzione sia un’attività piacevole. In Gran Bretagna Helen Buckingham, una ragazza squillo d’alto bordo, si promosse portavoce delle donne britanniche nel mercato del sesso. Fondò il gruppo PUSSI (Prostitutes United for Social and Sexual Integration – Prostitute unite per l’integrazione sociale e sessuale) che in seguito divenne PLAN (Prostitution Laws Are Nonsense – Le leggi sulla prostituzione sono una assurdità) e si alleò con Selma James, fondatrice della Campagna per il salario alle casalinghe, che chiedeva soldi allo stato per il lavoro non riconosciuto delle donne in casa. Insieme nel 1975 fondarono l’ECP (collettivo inglese delle prostitute).

Così, risciacquando il linguaggio e sostituendo ipocritamente le parole tradizionali cariche di stigma della prostituzione con altre socialmente accettabili e politically correcti termini sex work e sex workers – lavoro sessuale e lavoratori del sesso – sono diventati nell’arco di un ventennio la parola d’ordine di una lobby fatta di accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort (come Douglas Fox dell’International Union of sex Workers), giornalisti e manager coinvolti nel mercato pornografico e di acquirenti del sesso – una lobby ben finanziata negli USA che è riuscita anche ad accaparrarsi gli abbondanti fondi governativi per la lotta all’AIDS – con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e il suo mercato globale, trasformando dopo la mafia anche i comuni papponi in manager abili nel gestire il diritto degli uomini di abusare impuniti del corpo delle donne.

WHISPER ha rappresentato una sfida diretta all’idea che la prostituzione fosse o una libera scelta o un lavoro come gli altri e sul suo modello sono nati altri gruppi abolizionisti e anti-tratta: nel 1988 è sorta la Coalition Against Trafficking in Women che si è diffusa nelle Filippine, Bangladesh, Indonesia, Thailandia, Venezuela, Portorico, Cile, Canada, Norvegia e Grecia. Erano gli anni in cui il Turismo sessuale in quei Paesi stava diventando molto popolare.

Secondo Evelina Giobbe per mettere fine alla prostituzione e fermare gli uomini che la alimentano – i puttanieri – le donne comuni devono avere il coraggio di guardare in faccia gli uomini che hanno davanti tutti i giorni: i loro uomini. Ma le donne questo gesto che potrebbe destabilizzarle non lo vogliono fare, perciò preferiscono fare un passo indietro e continuare a credere che la prostituzione sia una libera scelta, altrimenti dovrebbero convincersi che i loro uomini sono dei perversi e degli stupratori. Norma Hotaling, sopravvissuta all’abuso sessuale infantile e alla prostituzione di strada, sopportata solo al costo di diventare eroinomane, dopo essersi disintossicata ha fondato SAGE (Standing Against Global Exploitation – Prendiamo posizione contro lo sfruttamento globale) per aiutare altre tossicodipendenti finite nella prostituzione e vittime di violenza.

Nel 1996 nella popolosa città di St. Paul nel Minnesota la sopravvissuta dal mercato del sesso Vednita Carter fonda Breaking Free, associazione che offre sostegno specifico, counseling e corsi di formazione e programmi di uscita per vittime di prostituzione. La maggioranza delle donne che si rivolgono a Breaking Free sono afro-americane, la categoria a maggior rischio di sfruttamento sessuale nel Nord America. Vednita è convinta che i servizi offerti vadano modulati per le donne a seconda dello stadio del loro processo di uscita dalla prostituzione: “Voglio che le donne sappiano che hanno un posto dove andare e che non saranno cacciate solo perché non sono pronte a uscire subito dalla prostituzione; può essere un processo lungo e complicato e se scoraggiamo queste ragazze giudicandole perché non stanno passando a un’altra vita, le perdiamo. Sono talmente emarginate e spesso viste come quelle che “scelgono” quella vita, perché davvero tanta gente bianca le vede in questo modo, invece di vedere l’assenza di alternative per loro”.

Poiché le varie Chiese possono contare su una stabile disponibilità economica, in molti Paesi stanno prevalendo i servizi di assistenza alle donne vittime di tratta e prostituzione gestiti da organizzazioni religiose, che agiscono ottimamente ed eticamente senza obbligo per le donne di diventare religiose praticanti prima di uscire dalla prostituzione, o di diventare religiose perché hanno beneficiato di questi servizi. Ma i programmi di fuoriuscita offerti da gruppi e associazioni femministe abolizioniste si avvantaggiano della fondamentale esperienza delle sopravvissute che collaborano con attiviste, psicologhe, giuriste e mediche esperte sulle cause e le conseguenze della violenza maschile sulle donne. Anche Rae Story, fuoriuscita dalla prostituzione nel 2015 e attivista femminista socialista conferma che “Oggi le necessità prioritarie sono case di accoglienza temporanea, counseling gratuito, assegni statali, servizi di welfare e disabilità per quelle di noi che soffrono di sindrome postraumatica da stress e problemi mentali come risultato della prostituzione”.

Fra le attiviste abolizioniste più attive negli ultimi anni si segnala Rachel Moran, di cui è stato recentemente pubblicato il libro “Stupro a pagamento, la verità sulla prostituzione – nella traduzione di Resistenza Femminista Round Robin Editrice 2017”. Rachel Moran, finita nella prostituzione di strada e poi al chiuso nei bordelli e centri massaggi irlandesi dai 15 ai 22 anni è la sopravvissuta fondatrice di Space International (Survivors of Prostitution-Abuse Calling for Enlightenment – Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica). Dal 2002, nei suoi viaggi in oltre 20 nazioni e in diverse sedi internazionali, incluso il Parlamento Italiano, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite e la Harvard University di Boston, Rachel ha portato la sua testimonianza spiegando che la prostituzione non è “né sesso, né lavoro” e il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede, cioè che si tratta di uno stupro a pagamento, reiterato, traumatico e devastante per la donna prostituita e costantemente “rimosso” nella percezione della maggior parte delle persone comuni perché ipocritamente ignorato, negato e normalizzato anche nella nostra società patriarcale capitalista.

Il sesso infatti esiste solo nella reciprocità del desiderio, mentre la prostituzione è soltanto una compensazione per un abuso sessuale che si è costrette a subire per sopravvivere e non si può in nessun modo parlare di lavoro in quanto la prostituzione è sostitutiva del lavoro, costituendo per migliaia di donne e bambine nel mondo il tentativo di avere una forma residuale ed estrema di sostentamento economico, quando il lavoro non c’è. Si smetta dunque consapevolmente di usare il termine “sex work” che fu inventato nei primi anni Ottanta da Carol Leigh, e adottato dall’industria del sesso di San Francisco nel periodo in cui dilagava l’AIDS per normalizzare e sanitarizzare la prostituzione, ma che soprattutto dopo la diffusione del fenomeno della Tratta si è rivelato per quello che è: un trucco linguistico “politically correct” – denunciato anche dall’icona femminista Kate Millet – che copre e occulta una situazione orribileun linguaggio che normalizza invece che opporsi alla violazione dei diritti umani e alle forme nuove di neocolonialismo funzionali alle società occidentali sviluppate sulla asimmetria e diseguaglianza di potere fra uomo e donna nella domanda di sesso.

Rachel Moran si batte insieme alle ormai numerose attiviste della rete abolizionista mondiale anche in CATW –coalizione contro la tratta delle donne e la European Women’s Lobby perché gli Stati adottino il Modello nordico nella legislazione e combattano il fenomeno della tratta delle donne e delle ragazze dai paesi economicamente svantaggiati verso quelli sviluppati dell’occidente capitalista per impedirne il loro sfruttamento sessuale.

In particolare sono convinte della necessità dell’adozione del modello legislativo nordico le femministe radicali che si ispirano al pensiero della statunitense Andrea Dworkin e della belga Luce Irigaray e in Italia alle pensatrici della seconda ondata del femminismo – quello detto “della differenza” che a partire da Carla Lonzi si esprime negli anni Settanta con personalità come Luisa Muraro, filosofa, linguista, docente e femminista, fondatrice insieme ad Adriana Cavarero e altre della comunità filosofica Diotima, oltreché animatrice a Milano negli anni Settanta insieme a Lia Cigarini, Elvio Fachinelli, Lea Melandri e altri di fondamentali esperienze di didattica antiautoritaria e dell’esperienza intellettuale della “Libreria delle donne”.

In questo continuo passaggio di testimone interno al Femminismo, anche le femministe radicali italiane di fronte al dilagare della Tratta ritengono sia giunto il momento di andare oltre la legge Merlin del 1958 per abbracciare, all’interno di una società capitalista, il Modello legislativo nordico, convinte sia la giusta strategia per contrastare qualsiasi mercato costruito sulla vulnerabilità, lo sfruttamento e la disperazione di un essere umano e sostenere le persone, in gran parte donne, ridotte a vendere l’accesso al proprio sesso, penalizzando invece la domanda maschile e gli sfruttatori. Lina Merlin si rifiutò sempre di definire la prostituzione un lavoro come un altro e con la legge a lei intitolata ha liberato le donne che venivano schedate, rinchiuse nei bordelli e bollate con infamia per l’abuso compiuto su di loro dagli uomini.

Il modello nordico neo-abolizionista

Radicato nella cultura dei diritti umani di matrice scandinava, il Modello nordico si prefigge di frenare la domanda di prostituzione e di promuovere l’uguaglianza delle donne e degli uomini. La logica alla sua base è che la prostituzione è una forma di violenza e dunque il cliente pagando per il sesso commette un crimine. Nel modello nordico si ritiene che la donna che vende sesso a fronte di una compensazione economica resti comunque un partner sfruttato nello scambio e quindi la prostituta in questo sistema non viene perseguita, mentre viene perseguito il cliente che pratica l’adescamento ai fini della compravendita sessuale, oltre che ovviamente chi favoreggia e sfrutta la prostituzione. Questa legislazione – il cosiddetto Sexköpslagen – è stata adottata per la prima volta al mondo in Svezia nel 1999 ed è integrata con politiche sociali che favoriscono la fuoriuscita delle donne dalla prostituzione.

In un’ottica progressista il Modello nordico si è diffuso nel mondo e finora è stato adottato anche da Norvegia, Islanda, Irlanda e Irlanda del nord, Corea del Sud, Canada, Francia. I governi di Israele, Lettonia e Lituania lo stanno valutando e nel 2014 il Parlamento Europeo e l’Assemblea del Consiglio d’Europa hanno approvato una Raccomandazione per implementare questo modello come il più utile per affrontare la prostituzione in Europa.

Il Modello Nordico è sorto dalla consapevolezza del fallimento del modello di “regolamentazione” della prostituzione legale sperimentato da socialdemocratici e verdi in Germania dal 2002 e poi in Olanda: qui la prostituzione legale al chiuso, negli auspici dei socialdemocratici si sarebbe dovuta trasformare in un lavoro come gli altri, con un capo, un contratto di lavoro e un sindacato e avrebbe dovuto svolgersi fuori dalle strade, lontano dagli sguardi dei benpensanti e dei bambini. Nella realtà la prostituzione nel cuore dell’Europa e in Svizzera (dove si possono prostituire anche le ragazze dai 16 anni) è diventata un mega business sotto la supervisione dello Stato in città come Amburgo o Stoccarda o Zurigo e un’enorme possibilità di sfruttamento economico per i tenutari di catene di bordelli – che percepiscono per ogni prostituta almeno 140-160 euro al giorno e alimentano un turismo maschile sessuale europeo dell’ordine di milioni di uomini – e una grande occasione per la rendita immobiliare dei proprietari di case, ma non è invece diventata un lavoro normale per le prostitute che continuano ad aumentare di numero.

Le donne in prostituzione nei Paesi dove essa è “regolamentata” sono diventate ancor più socialmente invisibili e stigmatizzate, povere e intrappolate in un sistema infernale. Lo evidenziava già nel gennaio 2007 il rapporto ufficiale sull’impatto della nuova legislazione pubblicato dal governo tedesco, oltre ad alcuni articoli apparsi nel 2012 sul quotidiano tedesco Der Spiegel nel decennale di entrata in vigore della legge. Anche Eurostat in un rapporto del 2013basato su dati ufficiali evidenziava come la condizione delle donne coinvolte nella prostituzione non era affatto migliorata con una legge che ne regolamentava la pratica.

A fronte di una popolazione di 80 milioni di abitanti, oggi in Germania ci sono 400.000 donne nella prostituzione e si stima che 1.200.000 uomini acquistino sesso ogni giorno. Ciononostante, l’impostazione legislativa in Germania e Paesi Bassi non è ancora stata modificata. La verità è anche che solo una minoranza di donne in prostituzione in Germania sono tedesche, mentre la maggioranza è affluita qui da tutta Europa dopo la caduta del Muro di Berlino soprattutto dai Paesi poveri dell’Est europeo come Ucraina, Moldavia, Romania, e più recentemente dai Paesi africani e asiatici di provenienza della Tratta. Sono ragazze, anche minorenni, in gran parte analfabete che devono mantenere tutta la famiglia; molte anche le Rom e le ragazze-madri, che esercitano mentre i figli crescono in braccio ai papponi. Tutte sono strangolate economicamente, ridotte a schiave e costrette a rimanere in una catena di sfruttamento legalizzata in cui anche lo Stato pretenderebbe la sua fetta di guadagno. Ma nella realtà neanche lo Stato ci ha guadagnato, dal momento che solo una minoranza ridicola, 44 (di cui due uomini) su 400.000 si sono di fatto iscritte e “regolarizzate” negli elenchi delle Camere di Commercio per pagare le tasse in regime forfettario.

Come ha raccontato una sopravvissuta italo-tedesca in un’intervista raccolta da Marina Terragni per Il Corriere della Sera “L’idea un po’ romantica e ingenua che gli uomini vadano a prostitute per farsi una scopata e via, va dimenticata. Una scopata se la possono fare con chiunque. Mica è “Pretty Woman”: vengono da te per ben altro. Vedono il porno (in TV e nel Web ndr.), ti chiedono di indossare falli artificiali, di travestirsi con parrucca o intimo femminile. Ci sono i feticisti, i coprofagi. Vanno molto i giochi con l’urina. Dall’anal sex alla zoofilia, un repertorio sterminato. Sono sporchi, maleodoranti, spesso ubriachi e strafatti. Pagano il diritto di scatenare quello che hanno dentro, e tu sei solo una latrina, né più né meno. Devi tacere, fare e lasciare fare, e saper fingere piacere. Ti pagano, e pretendono anche che tu sia soddisfatta delle loro prestazioni.

Qual è il senso profondo dell’andare a prostitute?Non si tratta di sesso. In questione c’è ben altro. È un mix tra il potere che ti dà il fatto di pagare e il piacere di umiliarti. Il tutto veicolato da una violenza di base. Hai a che fare con qualcosa di guasto. Una specie di camera di compensazione. L’uomo si sveste per un’ora o due dei ruoli che deve sostenere e si concede di manifestare una parte di sé che normalmente devo tenere compressa e nascosta, un suo doppio impresentabile.

Renate Van der Zee, giornalista olandese che non era abolizionista, ma si occupava di violenza sulle donne, nel 2013 ha pubblicato un nuovo studio critico dal titolo tradotto “La verità dietro il quartiere a luci rosse” e nel 2015 una indagine sulla domanda di prostituzione dal titolo “Uomini che comprano sesso”. In Nuova Zelanda la violenza sulle prostitute è aumentata ulteriormente dopo l’adozione del Prostitution Reform Act del 2003, il modello della de-criminalizzazione totale: la prostituzione, come il suo sfruttamento, favoreggiamento, reclutamento o induzione e organizzazione sono stati tutti legalizzati e dunque “normalizzati”. Le attività si svolgono in tutta comodità al chiuso, con controlli sanitari esigui e lasciati alla discrezione di ufficiali sanitari che si sono rivelati spesso inadempienti perché anche loro non sanzionabili e qualsiasi comportamento dei clienti e degli sfruttatori delle ragazze è accettato e normalizzato. Il potere dei papponi è ormai fuori controllo: sono loro a stabilire prezzi e prestazioni, sono loro che nascondendosi dietro la maschera perbenista dell’uomo di affari gestiscono la Tratta delle donne e delle bambine in un regime di totale impunità. A causa della decriminalizzazione anche la polizia non ha più l’obbligo di indagare. Il mercato del sesso nella sua versione più spietatamente neoliberista usa i corpi delle donne sottoponendole a ogni genere di violenza.


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Femminismi radicali ed utopistici


(L’Adige, 20 gennaio 2019)


– In un libro di Deborah Ardilli i manifesti teorici degli anni Settanta

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di Alessandra Bocci (La Gazzetta dello Sport, 16 gennaio 2019)


– «Giusto portare la Supercoppa qui? Non bisogna essere ipocriti, con questi paesi si fanno affari in continuazione».

La testimonianza

«Il Principe lo ha capito, ha dato il via ai cambiamenti»

La giornalista e saggista: «Ora qualcosa si muove per le donne. E lo sport nelle scuole è importante: combatte obesità e diabete»

Se vuoi finire, comincia. Difficilmente l’Arabia arriverà ad avere una società aperta, perché ha una cultura e una storia profondamente diversa da quella dei paesi occidentali, però le concessioni di Mohammed bin Salman sono un inizio e hanno permesso di accelerare un processo che probabilmente era in atto in parte della società. Michela Fontana, matematica, giornalista, saggista, ha scritto fra l’altro «Nonostante il velo», che raccoglie tante voci e contraddizioni, come racconta, che ha vissuto un po’ ovunque, a Riad dal 2010 al 2012.

«È quando ci sono tornata un anno dopo si respirava già un po’ il clima delle riforme. Bisogna sempre mettere le cose in un contesto: queste sono riforme concesse dall’alto, chi si mette a protestare può finire in carcere o andarsene, come Rahaf, scappata chiedendo aiuto su Twitter e ha avuto asilo politico in Canada. Queste riforme non danno libertà di espressione, ma concedono alle saudite la libertà di fare cose che prima non potevano immaginare».

Com’era abitare in Arabia Saudita qualche anno fa?
«Anche le donne straniere dovevano coprirsi e non potevano guidare, per esempio. Una volta ti portavano la “abaya” da indossare direttamente all’aeroporto. Ora la patente è un vantaggio per le ragazze alle quali è stato concesso di lavorare. È vero che se una fa la commessa difficilmente ha i soldi per l’auto, ma non bisogna negare che ci siano stati dei passi avanti».

Dicono che Gedda sia più aperta di Riad.
«Storicamente è così. Era una città di pellegrini, c’era più mescolanza di culture. I Saud l’hanno inglobata nel loro regno negli anni Trenta, Gedda rispetto a Riad ha radici diverse. A Gedda vedevi le ragazze con le amiche nei bar, alcuni bar, già prima delle riforme. È innegabile che qualcosa si stia muovendo, anche perché questa nuova classe dirigente ha capito che una nazione non può restare legata a un modello medievale. L’Arabia Saudita è tornata indietro per vari fattori negli anni Ottanta, quando la chiusura è stata assoluta. Ma la società bene o male va avanti e ho l’impressione che questo principe ereditario un po’ capisca che deve riformare, un po’ rincorra i cambiamenti.  I sauditi, anche la famiglie molto conservatrici, sono fieri di mandare la figli a studiare all’estero, eppure restano conservatori. Lo sono anche le donne, che spesso sono le prime a non condividere i nostri modelli occidentali. Sono abituate a essere protette, tenute in casa per fare figli. Ora molte vogliono studiare e lavorare, si sposano tardi, fanno meno figli. Queste riforme le lasciano in una condizione di segregazione, ma stanno cambiando la qualità della loro vita e lo sport ha funzione importante: non solo poter andare allo stadio da sole, ma anche praticare sport liberamente. L’introduzione dello sport nelle scuole è stato importante per combattere problemi come obesità e diabete».

Come fanno quelle che studiano all’estero a calarsi nella loro realtà quando tornano a casa?
«Anche molte saudite sono conservatrici. Anche qualche anno fa era permesso loro di andare all’estero a studiare con delle borse di studio istituite dal sovrano precedente, ma con un fratello, un parente, un guardiano: non vivevano veramente all’occidentale. Ecco, quando Mohammed bin Salman avrà il coraggio di affrontare il problema del guardiano avverrà la vera rivoluzione, ma è complicato».

Ha fatto bene la Lega calcio a portare la partita a Gadda?
«Non bisogna essere ipocriti. Con questi paesi illiberali si fanno affari in continuazione, penso alla Cina o alle commesse delle imprese italiane per la metropolitana di Riad. L’Arabia è particolarmente arretrata sul piano delle libertà civili, ma è difficile isolare un paese. E nessuno ha mai veramente isolato l’Arabia Saudita».

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Commento di Michela Fontana alla situazione femminile in Arabia Saudita


di Michela Fontana (gennaio 2018)


Nonostante il velo (Morellini – VandA.ePublishing 2018)

Cosa succede alla “questione femminile” in Arabia Saudita? Paradossalmente le riforme messe in atto dal principe ereditario Muhammed bin Salman, accolte positivamente dalle opinioni pubbliche saudite e internazionali, come la concessione alle donne di guidare l’automobile, di assistere – nel settore riservato alle famiglie – alle partite di calcio, di ricevere un sms quando il marito ha deciso di divorziare (prima non veniva nemmeno loro notificato), mettono ancora più in evidenza la mancanza di libertà delle donne, ancora oggi costrette a dipendere legalmente tutta la vita da un guardiano (padre, marito, parente maschile o giudice islamico), che poi è spesso l’autore di soprusi e violenze su di loro. Le donne sono ancora oggi costrette a sottostare ad una cultura e una religione patriarcale che le considera proprietà dell’uomo. Lo dimostra in modo clamoroso la vicenda della diciottenne saudita Rahaf Mohammed al-Qunun , figlia di un funzionario governativo che la sottoponeva a violenze, fuggita durante un viaggio in Kuwait e fermata all’aeroporto di Bangkok per essere rispedita a casa . La giovane, dopo essersi barricata in una stanza di hotel in aeroporto, e avere lanciato disperate richieste di aiuto e di asilo politico via twitter (ulteriore prova che per le saudite internet è realmente rivoluzionaria) è ora sotto la protezione del governo Tailandese e della UNCHR (l’ente delle Nazioni Unite preposto alla protezione dei rifugiati). Non solo, ma la giovane donna ha avuto anche l’ardire di infrangere un divieto assoluto, ovvero di dichiarare che rinuncia all’Islam, dimostrando così di capire bene il ruolo della religione, come viene professata in Arabia saudita, nel giustificare l’ oppressione femminile. Un presa di posizione molto coraggiosa dal momento che l’apostasia in Arabia Saudita e in molti paesi islamici può essere punita con la morte.
Un caso limite? Assolutamente no. Sono molte le donne saudite sottoposte a violenze di vario genere in famiglia che cercano di lasciare il paese. E fuggono anche molte attiviste , temendo di essere imprigionate, e di sparire nelle carceri senza avere nemmeno assistenza legale. Io ho conosciuto bene molte donne che hanno vissuto vicende drammatiche. Wadha, una quasi trentenne fuggita da un padre che la picchiava selvaggiamente e la chiudeva in casa per mesi se la scopriva al telefono con un amico che, dopo una fuga rocambolesca attraverso il Bahrein e Londra, ha raggiunto il Canada dove ha ottenuto asilo politico. Oppure Omaima, una attivista per i diritti umani e medico che , temendo di essere imprigionata per le sue posizioni femministe, (come Eman El Nafjan, attivista per i diritti alla guida in prigione senza processo dallo scorso maggio) è arrivata in Italia dalla Cina, dove si trovava per studiare e ha ottenuto asilo politico nel nostro paese. Potete leggere le storie di Eman, Omaima, Wadha, e molte altre ancora, nel mio libro Nonostante il velo (Morellini – VandA.ePublishing) nella nuova edizione attualmente in libreria.

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Il potere segreto della Bibbia


di Guido Benzi (Parole di Vita, gennaio 2019)


Vetrina Biblica

Simone Venturini
Il potere segreto della Bibbia. Per scoprire Dio e se stessi
VandA.ePublishing, Milano 2017
pp. 170, 15,60

 

Il titolo originale e accattivante di questa breve e intensa introduzione alla lettura della Bibbia rivela già i destinatari dell’opera: interessati ma non specialisti, lettori in ricerca di senso religioso, persone attratte dal testo sacro ma perplesse di fronte alle difficoltà di lettura e interpretazione.

A questi, e a tanti altri, il biblista Simone Venturini offre un agile volumetto in cui si affrontano direttamente molte domande che affollano la mente di chi – pur nel tramestio delle tante incombenze giornaliere – vuole coltivare uno spazio di interiorità a partire dalla lettura delle Scritture. Simone Venturini, laico, sposato e padre di Raffaele e Tommaso, è docente di Scienze bibliche all’Università Pontificia della Santa Croce di Roma e officiale presso l’Archivio Segreto Vaticano. L’Autore non è nuovo nell’associare alla sua attività scientifico-accademica intelligenti pubblicazioni di carattere divulgativo, come testimonia anche il blog da lui diretto e animato (www.simoneventurini.com). Il potere segreto della Bibbia è una serie di riflessioni-meditazioni che, rigorosamente innestate su testi biblici, analizzati con finezza e perizia, delineano per il lettore un itinerario sapienziale, interloquendo anche con tematiche di attualità.
Una lettura senz’altro consigliata.


 

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4 domande a…


di Valerio Piccioni (La Gazzetta dello Sport, 5 gennaio 2019)


– «Nuove aperture ma ogni donna ha un guardiano»

4 domande a… Michela Fontana, scrittrice e giornalista

«Nuove aperture ma ogni donna ha un guardiano»

Michela Fontana, scrittrice e giornalista, ha trascorso due anni e mezzo in Arabia Saudita collezionando testimonianze raccolte nel libro Nonostante il velo pubblicato da Morellini e VandAePublishing.

Come vive una donna in Arabia Saudita?

«In un modo per noi inconcepibile. Dall’abbigliamento, con l’obbligo di coprire tutto il corpo, alla segregazione di genere che proibisce alle donne di mescolarsi agli uomini nei luoghi pubblici, consentendo loro di rimanere soltanto nei “settori per famiglie”. Per intenderci, una donna non può mai entrare in una banca, in un caffè, in un ospedale, dall’ingresso centrale. Ed è dipendente per tutta la vita da un “guardiano” uomo».

Ecco, le recenti aperture del regime sono davvero tali?

«Le aperture ci sono state. Non bisogna entusiasmarsi troppo, ma neanche ignorarle. Facciamo un esempio: prima l’attività fisica delle donne era possibile soltanto nelle scuole private, ora si sta organizzando anche in quelle pubbliche».

Quali sono le altre conquiste?

«Ci sono ora poi dei piccoli ambiti in cui la donna può ora fare da sola, senza l’autorizzazione del suo “guardiano” uomo. E le donne possono guidare anche se non va dimenticato che proprio le attiviste più coraggiose nel rivendicare quel diritto sono finite e sono tuttora in carcare. Non dobbiamo dimenticarci che l’Arabia saudita è un Paese dove Re e Governo hanno un potere assoluto, di vita e di morte, nei confronti dei loro sudditi».

Andranno anche da sole a vedere la Supercoppa?

«Assolutamente sì, arriveranno sicuramente in gruppi. Mi è capitato di incontrare diverse nei caffè o nei ristoranti, seppure soltanto nei settori dedicati alle famiglie. Credo non vedano l’ora di poter fare e vivere cose fino a ieri proibite».

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Intervista a Deborah Ardilli


di Benedetta Sangirardi (F Magazine, 28 dicembre 2018)


– Sessismo: che cos’è? È la domanda che ha fatto più tendenza su Google nel 2018. Qualcosa sta cambiando?

Intervista a Deborah Ardilli
Ricercatrice indipendente. Il suo ultimo libro è Manifesti femministi (Morellini Editore con VandAePublishing).

Il movimento delle donne è ripartito. Ma i nostri diritti vanno difesi

Che cos’è per lei il sessismo?
«Un termine equivoco. Se ne parla per indicare discriminazioni nate dal pregiudizio ai danni delle donne. Ma attenzione: la disuguaglianza di genere non è solo una questione di mentalità. Non basta fare piazza pulita dei pregiudizi per veder rimosse anche le discriminazioni. Chi lo crede, temo abbia un approccio idealista e poco attento alla realtà».

Ci fa un esempio?
«Nel mondo 76 donne su 100 devono prendersi cura di genitori e figli, spesso da sole e naturalmente gratis. Possiamo pensare basti ribaltare qualche pregiudizio perché queste donne abbiano accesso a un mercato del lavoro retribuito e facciano carriera quanto i colleghi maschi?».

Nel 2018 si è parlato molto di sessismo. È cambiato qualcosa?
«Non so se l’opinione pubblica si sia davvero svegliata dal torpore: difficilmente le femministe accedono ai grandi mezzi di comunicazione. Al contrario, si è moltiplicata in tv la platea degli esperti di questioni di genere che non hanno competenze».

Però il movimento delle donne, oggi, è più attivo che mai.
«È vero, da almeno due anni viviamo una sua fase di ripresa su scala globale, trainata dalle mobilitazioni in America Latina e dal MeToo. Ma ci sono anche tante regressioni. Non è un caso che siamo costrette a difendere ciò che abbiamo conquistato, come il diritto all’aborto che qualcuno periodicamente mette in discussione».


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La piccola principe, presentazione del libro di Daniela Danna


(Mentelocale, 13 dicembre 2018)


Domenica 16 dicembre 2018 alle 21.00 il circolo La Scighera ospita la presentazione del libro La piccola principe: lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione di Daniela Danna. L’incontro con Daniela Danna si svolge nell’ambito del ciclo Pianta Anarchica; a dialogare con l’autrice è l’attivista Lgbt Nathan Bonni.

Milano –Lo spunto dell’ultimo libro della sociologa Daniela Danna, proviene dall’aumento negli ultimissimi anni, da parte di adolescenti e famiglie, di richieste di accesso ai percorsi di transizione e autodeterminazione, che permettono di smettere di vivere il ruolo di genere relativo al sesso biologico di appartenenza per arrivare a vivere pienamente nell’identità di genere di elezione (transgenderismo). È un tema che tocca vari aspetti, da quello legato alla fascia dell’adolescenza con le difficoltà di trovare una propria identità personale, fino a quello squisitamente medico e psicologico (in Italia la transizione è coperta dal Servizio Medico Nazionale mentre all’estero spesso è in regime privato).

Milano –Il libro ha aperto un dibattito, a volte dai toni aspri, che si inserisce in un clima di contrapposizione e di opposizione creatosi negli ultimi anni tra mondo lesbico/femminista e mondo trans. Dibattito che spesso rimane confinato ai circoli Lgbt, ma che riveste un grande interesse  per chiunque perché riguarda l’identità sessuale e quella di genere. Soprattutto in un periodo come quello attuale, nel quale la compagine governativa, ed evidentemente gran parte della popolazione, vuole ricondurre la questione a una rigida visione tradizionale dei ruoli.

Dalle 19.00 cucina aperta con piatto del giorno, panini, bruschette e taglieri. Ingresso con tessera Arci.


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Intervista a Daniela Danna

Daniela Danna parla del suo ultimo libro, “Dalla parte della natura”, con Il posto delle parole.
Qui potete trovare l’intervista completa.


In un dialogo “a tu per tu” con l’umanità, la Natura, in una sorta di personalizzazione letteraria, “ci parla”, affrontando tematiche nevralgiche della nostra odierna civiltà: equilibrio ambientale, disuguaglianza sociale, predominio delle multinazionali, visione libera della sessualità. Con un approccio ecofemminista, questo breve ma fulminante pamphlet attacca il sistema capitalista e patriarcale caratterizzato dalla supremazia maschile, dove donne, animali e ambiente appartengono a categorie analoghe, considerate come proprietà e beni da dominare e sfruttare. E anche se noi esseri umani siamo parte della Natura, questo mondo ha tracciato un solco cosi profondo tra noi e lei, da renderla non solo estranea, ma addirittura ostile nemica. Queste semplici pagine sono un invito a conoscerla meglio, allo scopo di rispettarla. E in questo processo, cambiare noi, smettendo di modificare lei.

 

Daniela Danna, è ricercatrice confermata in Sociologia generale presso il Dipartimento di studi sociali e politici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Insegna Politica sociale per la laurea triennale in Scienze sociali per la globalizzazione. Tra i suoi interessi di ricerca figurano analisi dei sistemi-mondo, rapporti tra i generi, studi sulla sessualità, sociologia dell’ambiente, sociologia storica. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La piccola principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione.


 

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Rebecca Town… alla scoperta di cinque città!

Becky è una splendida newyorkese, modaiola, acuta, passionale, dal passato tormentato e scrittrice di guide turistiche.  È protagonista di una serie di romanzi ambientato ogni volta in una città diversa, una città descritta come si confà a una guida: le tappe da non perdere, i locali più trendy ma anche quelli più defilati e che però meritano “una menzione”, i luoghi dello shopping, le strade, i cibi… Ogni luogo diventa così l’incantevole cornice ai misteri che Becky, detective per caso, si trova a risolvere. Una città, un delitto. Ma c’è anche la personale vicenda della nostra esuberante guida, che nel corso di ogni romanzo troverà l’amore, scoprirà la verità sulla misteriosa morte dei genitori e… Chissà?

La serie:
– Rebecca Town a Parigi: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a Londra: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a Roma: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a Praga: edizione cartacea/e-book
– Rebecca Town a New York: edizione cartacea/e-book

 

Manuela Siciliani è nata a Torino nel 1978. Laureata a Milano in Relazioni Pubbliche, oggi vive a Sanremo. Mamma e moglie prima di tutto, fa l’agente di viaggi per passione e scrive per diletto. Rebecca Town, la protagonista dei suoi romanzi, vi porterà alla scoperta di meravigliose città dove, suo malgrado, si troverà a risolvere complicati casi di omicidio. Il tutto condito da leggerezza e love story.

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Intervista a Michela Fontana


RSI (lunedì 10 dicembre 2018)


– Donne in Arabia Saudita.

Uno dei Paesi dove le donne sono in maggiore difficoltà è l’Arabia Saudita. La scrittrice Michela Fontana ha presentato uno spaccato della realtà quotidiana e della situazione attuale completo ed esauriente.
Grazie ai due anni passati a Riad, Michela Fontana ha potuto conoscere bene la realtà saudita, soprattutto quella femminile. Nel suo libro-inchiesta “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita“, attraverso lo sguardo delle donne, l’autrice racconta i paradossi e le ambiguità del paese che ha ispirato alcuni dei più pericolosi movimenti fondamentalisti, fornendo una chiave di lettura per interpretare un mondo islamico che fatichiamo a comprendere, semplicemente perché non lo conosciamo.
Michela Fontana è stata la vincitrice, nel novembre 2018, della prima edizione del Premio Letterario Allumiere.
L’autrice è stata intervistata il 10 dicembre dalla Radio Svizzera Italiana nella trasmissione Alba Chiara.

Qui potete trovare l’intervista.


 

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Natura


Viversani e belli (30 novembre 2018)


È lei a insegnarci l’ecologia.

La Natura si umanizza e dialoga con noi, “ci parla”, affrontando temi essenziali, come l’equilibrio ambientale. Con tono bonario, se la ride di questa sciocca umanità che ha squilibrato il rapporto società—natura senza rendersi conto dell’effetto boomerang che la minaccia. È questa la struttura narrativa che Daniela Danna ha scelto per il suo libro “Dalla parte della natura. L’ecologia spiegata agli esseri umani” ([VandAePublishing in co-edizione con] Morellini ed). “Non sono avido, ho solo paura del futuro” conclude, con le spalle al muro, l’uomo. La natura gli risponde: “Allora comincia a investire in azioni positive verso i tuoi simili, piuttosto che in azioni in Borsa.”

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Premessa di Resistenza Femminista a “Il mito Pretty Woman” di Julie Bindel


Resistenza Femminista, 26 novembre 2018


Ieri 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, tutte noi donne e sopravvissute abbiamo mostrato la nostra forza al mondo prendendo parola contro chi ci vuole vittime passive e mute di fronte ad un patriarcato sempre più pervasivo e violento.

Ieri 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, tutte noi donne e sopravvissute abbiamo mostrato la nostra forza al mondo prendendo parola contro chi ci vuole vittime passive e mute di fronte ad un patriarcato sempre più pervasivo e violento. Resistenza Femminista e SPACE international hanno organizzato incontri in diverse città italiane: Milano, Bologna, Roma per dire ancora una volta che la prostituzione è violenza maschile e che non accettiamo che questa violenza sia normalizzata, sanitarizzata come “lavoro” o  raccontata come esperienza ‘glamour’ di “liberazione sessuale”. Mentre il 20 novembre a Roma Rachel Moran e Fiona Broadfoot raccontavano la loro esperienza nell’industria del sesso e il loro attivismo a sostegno del modello nordico, il 25 novembre a Parigi la stessa Rachel insieme ad un’altra sopravvissuta di SPACE del Sud Africa Mickey Meji e ad Ashley Judd del Movimento Metoo univano le loro voci per dire basta alla violenza maschile sulle donne e le bambine. Lo stesso giorno in Spagna ha preso parola la sopravvissuta e attivista Amelia Tiganus durante la manifestazione contro la violenza sulle donne che ha visto una grande partecipazione di abolizioniste. La voce delle sopravvissute sta facendo il giro del mondo e nessuno potrà fermarci. Essere una sopravvissuta significa aver vinto contro la violenza maschile, ma la lotta continua tutti i giorni, per questo abbiamo deciso di pubblicare oggi la premessa alla traduzione in italiano da noi curata del libro di Julie Bindel “The pimping of prostitution” adesso disponibile in anteprima per VandA.ePublishing con il titolo “Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione”. La versione definitiva del libro uscirà a gennaio, ma sono già disponibili copie ordinabili qua: https://www.vandaepublishing.com/prodotto/il-mito-pretty-woman/. Come per il libro di Rachel ” Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione”  anche questa traduzione è per noi un atto politico, quello di Julie è un libro denuncia che sfata i falsi miti che circondano la prostituzione:  quello del sex work e della ‘puttana felice”, un’inchiesta dettagliata condotta in 40 paesi per un totale di 250 interviste a sopravvissute, sfruttatori, compratori di sesso, attiviste, accademici/che e personalità politiche.

Il 21 novembre a Bologna Julie Bindel ha tenuto un discorso sulla violenza maschile contro le donne durante la seduta del Consiglio Solenne del comune di Bologna in occasione della celebrazione del 25 novembre. Nei prossimi giorni pubblicheremo il testo integrale del suo intervento che ha profondamente colpito tutti i presenti. Julie a partire dalla sua esperienza trentennale con la sua associazione femminista “Justice for Women” ha raccontato le storie di due donne vittime della violenza maschile, Emma Humphreys e Sally Challen.  Il caso di Emma in particolare mette in luce l’intreccio tra abusi sessuali subiti nell’infanzia/adolescenza, violenza domestica e prostituzione. Il suo fidanzato abusante l’aveva prima comprata quando era prostituita sulla strada a soli 15 anni e poi era diventato il suo sfruttatore. La storia di Emma è emblematica, rappresenta la storia di moltissime donne e ragazze nel mondo che continuano ad essere abusate nell’industria del sesso. Per questo il discorso di Julie è fondamentale: non è possibile considerare la prostituzione qualcosa d’altro, un lavoro, anzi una soluzione alla disoccupazione e alla povertà femminile come dicono certi sostenitori del sex work.  

Il movimento internazionale delle sopravvissute alla prostituzione sta diventando sempre più forte, si espande in tutto il mondo, Julie Bindel ci presenta la sua storia a partire dagli anni ’80 con la fondazione del gruppo WHISPER [Donne che hanno subito violenza nel sistema prostituente in rivolta] fino alla nascita nel 2012 di SPACE international: le donne di tutto il mondo stanno dicendo che la prostituzione è violenza. Sul fronte opposto i gruppi per “i diritti delle sex workers” la cui storia inizia con COYOTE [Basta con la vostra vecchia morale] un gruppo di ascendenza liberista le cui componenti non si trovavano nella prostituzione, ma dicevano di rappresentare la “voce delle prostitute” quando in realtà tra i soci c’erano rappresentanti dell’industria del sesso (tra i finanziatori c’era la rivista Playboy), compratori di sesso, conservatori. Il primo gruppo che grazie a finanziamenti consistenti (anche della chiesa metodista della California) ha avviato il marketing della prostituzione come “liberazione sessuale”, diffondendo il mito della “puttana felice”.  Nel 1985 la risposta delle sopravvissute all’industria del sesso non tarda ad arrivare: Evelina Giobbe fonda WHISPER in contrapposizione al messaggio mistificatorio di chi come COYOTE voleva occultare la violenza intrinseca del sistema prostituente. SPACE international e il movimento MeToo stanno continuando con grande coraggio l’opera di svelamento e informazione sulla violenza maschile nonostante le intimidazioni e la violenza messa in atto dalla lobby pro-sex work che cerca di zittire, censurare, ostacolare in ogni modo una forza ormai inarrestabile. 

Il movimento per l’abolizione della prostituzione è sempre più vitale e si espande nel mondo. Resistenza Femminista ne è parte e la traduzione di questo libro costituisce una scelta politica precisa, sulla linea che da anni perseguiamo di dare voce alle sopravvissute e alle indagini e testimonianze che portano alla luce la realtà di violenza e sopraffazione rappresentata dall’industria del commercio sessuale. Ancora una volta, come per il libro di Rachel Moran, Stupro a pagamento, abbiamo scelto di tradurre e accompagnare il libro e l’autrice negli incontri che via via avranno luogo con lettrici e lettori in Italia. Come Julie Bindel, consideriamo la prostituzione violenza contro le donne e le bambine e dedichiamo il nostro lavoro di attiviste e sopravvissute affinché la realtà di questa violenza emerga con la stessa chiarezza con la quale le donne hanno riconosciuto e chiamato con il suo nome la violenza domestica e la violenza sessuale.

Una delle domande che questo libro pone è: perché è così difficile riconoscere la violenza della prostituzione, o meglio, la prostituzione come violenza, come archetipo di ogni violenza contro le donne? Ci siamo trovate ad affrontarla in una discussione a proposito di come tradurre una frase del libro. La frase è di una sopravvissuta e si riferisce alla fatica che le donne in generale fanno ad ammettere che è la domanda di accesso sessuale ai corpi delle donne da parte degli uomini a sostenere un mercato che, nelle parole di Judith Herman, costituisce “un’impresa mondiale che condanna milioni di donne e bambine alla morte sociale, e spesso letteralmente alla morte, per il piacere sessuale e il profitto degli uomini”. A parere della sopravvissuta Evelina Giobbe, riconoscere la violenza della prostituzione ci impone il compito doloroso di “guardare dall’altra parte del tavolo a cui facciamo colazione”, in altre parole, di guardare chi ci sta davanti tutti i giorni, gli uomini che conosciamo e amiamo: i nostri amici, figli, compagni, mariti, fratelli, padri. In un primo momento ci siamo chieste se la frase fosse un’espressione idiomatica e avevamo pensato di tradurla con “guardare in faccia la realtà”. Poi però ci siamo dette che, paradossalmente, la nostra difficoltà a tradurre letteralmente in quel caso corrispondeva alla difficoltà che Giobbe riconosce ed esprime: la difficoltà di nominare e affrontare il problema che la prostituzione pone per le relazioni tra uomini e donne.

È più facile in effetti dare retta alle ragioni di chi parla di “scelte” delle donne e offre l’immagine rassicurante di un contratto sessuale paritario. Molto più faticoso è ascoltare la voce di chi ci ricorda che quel “contratto” è in realtà il pagamento di un abuso, un pagamento che coinvolge chi lo subisce cancellando la violenza agli occhi della società e rendendo dolorosissimo per chi lo subisce affrontare il proprio trauma e l’invisibilità sociale del proprio abuso.

Tuttavia, affrontare la violenza “nascosta in piena vista” della prostituzione è esattamente ciò che dobbiamo fare se davvero vogliamo avere una qualche speranza di costruire e percorrere la strada che ci porti alla fine della violenza maschile contro le donne. Non c’è da farsi illusioni: la sfida non è semplice. Il Modello nordico che noi sosteniamo intende rendere visibile la responsabilità degli uomini nel mantenimento di un sistema di controllo e oppressione della libertà delle donne. Quel sistema, il patriarcato, si regge su una disuguaglianza che sottrae alle donne la possibilità di lavorare ed essere indipendenti, rafforzando la disuguaglianza con un abuso travestito da lavoro che non fa altro che consolidare l’ingiustizia e la discriminazione. Il controllo sessuale e riproduttivo delle donne è l’obiettivo, perché è alla base di un sistema che non si potrebbe reggere se quel controllo venisse a mancare, ma costituisce anche il punto di partenza e il puntello dell’intero sistema. La risposta di alcuni, di definire la prostituzione un lavoro come un altro, non sarebbe altro che la legalizzazione dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne. Non a caso Lina Merlin non ha mai definito la prostituzione un lavoro. Con la legge a lei intitolata, nel 1958 Lina Merlin ha liberato e donne che venivano schedate, rinchiuse nei bordelli e bollate con infamia per l’abuso compiuto su di loro dagli uomini. Definendo come crimine ogni attività volta a favorire e sfruttare la prostituzione altrui, la legge da lei voluta ha compiuto un passo fondamentale per la libertà delle donne. Quello che resta da fare è eliminare gli squilibri sociali ed economici e le condizioni culturali che portano a considerare l’atto di pagare per l’accesso sessuale al corpo di un essere umano – il più delle volte il corpo di una donna, una ragazza, una bambina – come una transazione economica accettabile.

Ha scritto Luisa Muraro:

Secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione, hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione, non è più accettabile. E non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengano. Così com’è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento – ed è questo – in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità.

Il filo che collega ogni violenza contro le donne è ormai visibile.

Le sopravvissute e le attiviste abolizioniste lo stanno mettendo sotto gli occhi di tutti e stanno sfidando il meccanismo di difesa di una dissociazione che Judith Herman non esita a dichiarare “praticata come norma sociale”. Di fronte alla prostituzione, a suo giudizio, “la scelta di evitare di sapere opera ai margini della nostra coscienza”.6 La dissociazione è un meccanismo che salva chi subisce la violenza, ma rischia di diventare anche la condanna a vivere in esilio da sé stesse. Per troppo tempo noi donne siamo state in esilio dal nostro posto nella società e abbiamo usato la nostra forza per resistere e sopravvivere. Ma adesso come sopravvissute da ogni parte del mondo prendiamo parola, per denunciare e smascherare il vero volto dell’industria del sesso che stupra e uccide e di chi la alimenta, gli stupratori a pagamento. Quell’industria che si nasconde dietro il mito di Pretty Woman, della prostituzione come lavoro sessuale o “sex work”. Bindel ricostruisce due storie parallele: quella del movimento internazionale delle sopravvissute che da WHISPER [Donne che hanno subito violenza nel sistema prostituente in rivolta], fondato nel 1985 da Evelina Giobbe, arriva fino a SPACE International [Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica] – movimento di sopravvissute provenienti da nove paesi – e quella della lobby pro-prostituzione, i gruppi per i “diritti delle sex worker”. WHISPER nasceva come risposta al gruppo liberista COYOTE [Basta con la vostra vecchia morale], al cui interno c’erano donne che si spacciavano come “la voce delle prostitute” senza essere o essere state nella prostituzione e uomini che ne sostenevano l’agenda politica, ovvero che la prostituzione fosse un lavoro come un altro: erano politici, studenti, rappresentanti di associazioni, compratori di sesso. Nasceva così il marketing dell’abuso sessuale venduto come potere delle donne (il cosiddetto “empowerment”) e il mito della “puttana felice”. L’espressione “sex work” (“lavoro sessuale”)/“sex worker” (“lavoratrice sessuale”) diventerà la parola d’ordine di una lobby fatta di accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort (come Douglas Fox, dell’International Union of Sex Workers, che si dichiara un “sex worker” pur essendo uno sfruttatore) e compratori di sesso, una lobby ben finanziata con lo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso a livello globale, ovvero trasformare gli sfruttatori in manager e garantire il “diritto” degli uomini di abusare impuniti i corpi delle donne. Ma, come spiega Rachel Moran, la prostituzione non è “né sesso, né lavoro”, il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede, ovvero che si tratta di stupro, uno stupro anche più traumatico e devastante non solo perché reiterato, ma perché perennemente ignorato, negato, normalizzato dalla società patriarcale.

È arrivato il momento di compiere scelte che ci consentano davvero di immaginare e dunque rendere possibile una società non patriarcale fondata sul rispetto e la libertà per le donne e gli uomini. La prostituzione è misoginia che genera misoginia, odio verso le donne: dobbiamo eliminarla. Questo libro è un’opera fondamentale per procedere nella direzione aperta da Lina Merlin ed è per questo che ci piace ricordare qui l’hashtag con il quale invitiamo tutte le donne e gli uomini a lottare con noi e portare a termine la rivoluzione femminista: #iosonoLinaMerlin.

Ringraziamo Morellini Editore e VandA.ePublishing, in particolare Angela Di Luciano, per avere creduto in noi e per il sostegno alla lotta abolizionista. L’amicizia e la relazione tra donne sono davvero la chiave del cambiamento.

Resistenza Femminista

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Il mobbing sulle sopravvissute alla prostituzione


Resistenza femminista (5 febbraio 2018)


Ogni volta che una donna denuncia la violenza che subisce deve mettere in conto di essere attaccata e denigrata.. […] Ecco il racconto di Julie Bindel di quel che succede quando le donne osano parlare della prostituzione e della sua violenza.

Ogni volta che una donna denuncia la violenza che subisce deve mettere in conto di essere attaccata e denigrata. Accade con il “#MeToo”, accade con la violenza domestica, accade per le sopravvissute alla prostituzione. Ecco il racconto di Julie Bindel di quel che succede quando le donne osano parlare della prostituzione e della sua violenza.

[estratto dal libro “The pimping of prostitution“]

Un numero impressionante di sopravvissute all’industria del sesso mi ha raccontato storie horror di come siano state etichettate come pazze, bugiarde, truffatrici, visionarie e masochiste. È orribile ma non sorprende. Negli anni ho assistito a come le sopravvissute siano state oggetto di bullismo, siano state minacciate, umiliate, calunniate, diffamate dagli attivisti pro- prostituzione e dai rappresentanti del mercato del sesso.

Un esempio si affaccia alla mente. Come giornalista collaboratrice di quotidiani a diffusione nazionale, decisi di fare un’intervista a Rachel Moran in seguito al successo del suo libro diventato bestseller “Paid For” e del suo lavoro di fondazione del movimento delle sopravvissute in Irlanda. Una giovane giornalista femminista che curava una sezione di un prestigioso quotidiano britannico rispose al pezzo con un “no”, dicendo: “circolano voci sulla sua autenticità in più di un ambiente… ”. Le chiesi da dove venissero queste voci ma non mi ha mai risposto.

Sabrinna Valisce conosce bene il modo in cui agisce la lobby pro-sex work. Dopo tutto Valisce ha fatto parte del New Zealand Prostitutes Collective come volontaria per 24 anni. Ha promosso campagne per introdurre la nuova legge che ha depenalizzato i bordelli e la prostituzione di strada perché credeva sinceramente che avrebbe migliorato la condizione delle donne e avrebbe garantito loro maggiore libertà. Dal momento che la lobby pro- prostituzione si basa sulla mistificazione dei fatti, sui miti e sui vecchi classici giochi di potere, è particolarmente insopportabile quando qualcuno di loro passa dall’altra parte.

Valisce mi ha detto che a un evento a Townsville nel quale stava parlando, durante la presentazione del libro “Prostitution Narratives”, un membro senior di Scarlet Alliance (il gruppo australiano della lobby pro-prostituzione) ha tentato in ogni modo di impedirle di parlare. “È salita su una sedia cercando di sovrastare la folla che voleva ascoltare me, fischiando, interrompendomi e urlando” ricorda Valisce. ”Non ho provato rabbia e neanche disturbo. Stranamente mi sono identificata con lei. Penso che avesse paura. Posso capire perché, un tempo sono stata anch’io sulla difensiva“, ‘Non togliermi quello con cui mi guadagno da vivere. Non ho nient’altro. Non so dove altro andare’. L’ho guardata, le ho sorriso, ho annuito e le ho detto ‘Ti capisco’. Non era una risposta preparata, era istinto”.

Valisce aveva poi invitato il membro di Scarlet Alliance e le altre donne pro-prostituzione che la accompagnavano a parlare con lei dopo l’evento. “Una venne da me e riuscimmo a parlare serenamente. Le altre tre mi accerchiarono. Fu una sensazione strana. Poi si avvicinarono e cominciarono a urlare tutte insieme con le voci che si sovrapponevano l’una sull’altra.”

“Vivono costantemente sulla difensiva, ma non riescono ad accettare che non si sia d’accordo sulle soluzioni ai problemi. Non è stato certamente il solo episodio di bullismo che mi sia capitato e neanche minimamente il peggiore. È stato in quel momento che mi sono resa conto di come avessi vissuto sul limite per tanto tempo e di come fare la vita non mi mancasse per nulla.”

Anche Mau è stata oggetto di bullismo da parte della lobby pro-prostituzione che l’ha accusata di aver inventato la storia di essere una sopravvissuta all’industria del sesso. “I lobbisti mi hanno contattata su Twitter e hanno cercato di farmi passare per pazza. Esiste un gruppo di sex workers qui in Germania”, dice Mau. “sono sempre presenti su internet e hanno scritto che ero un fake, che mi ero inventata tutto. Lo dicono di chiunque dica la verità sulla prostituzione”.

Presto Mau si rese conto che molti giornalisti credevano alla storia dei lobbisti pro- prostituzione secondo cui lei avrebbe inventato la sua storia nella prostituzione. “I giornalisti tedeschi non mi contattavano perché pensavano che io fossi una che fingeva. Se cerchi su internet trovi scritto che io non esisto”, dice Mau. “Mi ha hanno mandato mail fingendo di essere una stazione radio che voleva intervistarmi e speravano che gli dessi il mio numero di telefono, ma non l’ho fatto”.

“Der Spiegel mi ha contattata”, racconta Mau, “e dopo avermi intervistata per un articolo sul mercato del sesso ha voluto la prova della mia esistenza, che è piuttosto difficile per me perché non posso dare il mio nome o il mio numero di telefono. È veramente meschino quello che sta facendo la lobby. Non puoi provare che esisti e che sei stata una prostituta. Non c’è nessun pezzo di carta che dice che sei una prostituta”.

LA LOTTA PER IL “DIRITTO” DI VENDERE SESSO

Tre attiviste pro-prostituzione, Terri-Jean Bedford (che aveva precedentemento gestito agenzie di escort), l’accademica Amy Lebovitch e Valerie Scott, hanno trascinato il governo canadese in tribunale sostenendo che la sua legge sulla prostituzione fosse incostituzionale. Le tre donne portavano avanti una compagna per eliminare tutte le leggi riguardanti il mercato del sesso.

Bridget Perrier si trovava in tribunale e, dopo la decisione del giudice, Bedford iniziò a scuotere il suo frustino (Bedford praticava BDSM), divertendo i tanti giornalisti intervenuti per scrivere su quello che stava accadendo. Perrier aveva portato con sé una cinghia che aveva chiamato “il bastone della sua pappona”, raccontando ai giornalisti che era stata picchiata dalla sua pappona con quello strumento tutti i giorni.

In tribunale con Perrier c’era sua figlia adottiva Angel, la cui mamma è stata uccisa da Pickton. “Terri-Jean era troppo codarda per affrontarmi, così si mise a inseguire una diciottenne la cui madre è stata assassinata da un serial killer di donne prostituite”, dice Perrier. “Ma avevo istruito bene la mia bambina. La mia bambina le disse: ‘Sul corpo di mia madre morta non saremo mai d’accordo che regolamentare la prostituzione sia un bene per le donne’”.

“Angel le disse che avrebbe combattuto perché la prostituzione non fosse legittimata, e Terri- Jean si spinse fino al punto di mettere le mani addosso alla mia bambina. Dopo che ebbe finito di punire mia figlia si mise ad inseguire una delle nostre sopravvissute, una ragazza che ha subito torture sessuali da quando aveva 11 anni fino ai 25. Andò da lei dicendole: ‘Perché piangi, questo è un giorno vittorioso per noi’. Mi ricordo la nostra ragazza che la guardava, e c’era una foto di questa ragazza e Terri-Jean sui giornali, e questa sopravvissuta puntò il dito dritto contro Terri-Jean e le disse: “Questo è un giorno d’inferno”.

“La lobby pro-prostituzione ha scaricato le foto delle mie bambine da facebook ”, dice Perrier “e ci hanno scritto sotto ‘le future puttane di Bridget’ . La lobby mi ha mandato foto di bambine che avevano rapporti con uomini adulti. Non riuscivo a smettere di guardare quelle foto perché la mamma che è in me voleva entrare in quelle foto per salvare quelle bambine piccole. Quelle erano bambine di 4 anni”. […]

Alice è stata prostituita nel Queensland all’età di 22 anni. “ Non avevo mai sentito il termine ‘gaslighting’ fino a quando non ho raccontato pubblicamente la mia storia di quando sono stata nella prostituzione”, dice Alice. “Il gaslighting è qualcosa che ho vissuto in modo continuo nella mia vita, a cominciare da quelli che mi hanno sfruttata sessualmente quando ero minorenne, da quando avevo 5 anni, fino all’età adulta, quando l’ho subito da vari altri abusanti e persone violente. Ma per nessun motivo al mondo mi sarei aspettata di incontrare persone che mettevano in atto gli stessi comportamenti dopo che avevano saputo che ero sopravvissuta all’industria del sesso”.

“L’aperta opposizione e il comportamento messo in atto nei miei confronti dalla lobby pro- prostituzione da quando ho cominciato a parlare in pubblico della mia esperienza nell’industria del sesso ha preso di sorpresa perfino il mio io pessimista catastrofico” racconta Alice. “Posso dire adesso con certezza che la lobby pro-prostituzione è il mostro più grande, più spietato e di gran lunga più crudele che io abbia dovuto affrontare, peggio delle malattie mentali che ho sviluppato come risultato di tutti i traumi che ho subito”.

Poco tempo dopo che Alice aveva criticato apertamente l’industria del sesso e raccontato le sue esperienze personali all’interno di essa, la lobby pro-prostituzione ha cominciato immediatamente ad etichettarla come SWERF (femminista radicale che esclude le sex worker), affermando che lei odiasse le donne che si trovavano nella prostituzione. “La lobbypro-prostituzione mette continuamente in dubbio il mio passato e dichiara che mi sono inventata il fatto di aver lavorato nell’industria del sesso,” dice Alice. “Quelli che non mi danno della bugiarda mi dicono che sono ‘naif’ ,‘stupida’ e che sono stata ‘sfruttata e usata’ dalle abolizioniste per portare avanti la loro causa. Altre mi hanno accusata di aver voluto fare soldi pubblicando la mia storia e dicono che rubo soldi alle sopravvissute e alle donne che si trovano nell’industria”.

Alla conferenza “L’oppressione più antica del mondo”, che si è tenuta nell’aprile del 2016 a Melbourne, in Australia, alcuni contestatori sono saltati fuori nel luogo di incontro distribuendo volantini che contenevano propaganda a favore dell’industria del sesso e sui cosiddetti benefici per coloro che scelgono di fare l’esperienza del sex work. In uno dei cartelloni di protesta c’era scritto “Perché essere poveri?” La lobby pro-prostituzione aveva cercato di far cancellare la conferenza prima che avesse luogo sostenendo che la discussione sui danni del mercato del sesso, che secondo la lobby sono invenzioni, sarebbe stata pericolosa per le donne che scelgono di stare nella prostituzione.

Le sopravvissute mi hanno anche raccontato di numerosi casi nei quali la lobby pro- prostituzione irrompeva durante eventi abolizionisti cercando di convincere le donne che erano uscite dalla prostituzione a tornarci, sostenendo che le sopravvissute dovevano aver vissuto delle sfortunate e rare brutte esperienze con i clienti e i papponi, e avrebbero dovuto lavorare nei bordelli “giusti”.

“Durante un evento, appena 10 minuti dopo il mio racconto del trauma terribile che l’esperienza nell’industria del sesso mi ha lasciato,” dice Alice, “una donna è venuta da me e ha iniziato a parlarmi di come si stava rendendo conto delle terribili condizioni lavorative che esistevano nei bordelli nell’area in cui eravamo (un posto dove la prostituzione è legale e regolamentata). Per lei le terribili condizioni di lavoro non includevano gli abusi dei clienti e dei datori di lavoro, o l’abuso massiccio di droghe usate comunemente come mezzo per sopportare i continui traumi”

 “No, per lei, le terribili condizioni di lavoro erano costituite dal fatto che, dal momento che la prostituzione era regolamentata con bordelli legali, chiunque ci lavorasse doveva consegnare una porzione dei suoi guadagni ai propri datori di lavoro. Presupponendo in maniera errata che si trattasse del posto dove avevo lavorato all’interno dell’industria del sesso australiana, questa donna mi assicurò che ‘le condizioni sono davvero migliori nel New South Wales e ti consiglio davvero di venire giù e dare un’altra chance al sex work’. Ero completamente sotto shock – non aveva ascoltato la mia storia che avevo raccontato appena 10 minuti prima? Scoprii più tardi che la donna con la quale avevo parlato aveva di recente lasciato la sua posizione di presidente di un gruppo austrialiano di sex worker – una posizione che aveva mantenuto per almeno dieci anni”.

Sono stata testimone degli abusi e delle calunnie diffuse contro Moran in più di un’occasione. Moran descrive il trattamento che le ha riservato la lobby pro-prostituzione come profondamente lacerante e distruttivo

 Lo stesso schema si ripete nella vita di tutte le sopravvissute che prendono parola in pubblico. A Berlino, durante la conferenza per il lancio del suo libro, la prima domanda che è stata fatta a Moran è stata: “che cos’hai da dire a quelli che sostengono che hai inventato tutto?” “Non c’è da meravigliarsi se le donne più giovani, più vulnerabili sono perseguitate proprio perché prendono parola pubblicamente. Ovviamente si tratta di una strategia consapevole da parte della lobby pro-prostituzione, e queste donne giovani non riescono a reggere lo stress,” dice Moran. “Sono felice di essere arrivata a fare attivismo quando avevo passato i 35 anni ed ero uscita dalla prostituzione da più di dieci anni. Niente può perseguitarmi e sono ben capace di gestire lo stress.”

Il movimento delle sopravvissute all’industria del sesso continua a crescere nonostante gli sforzi di papponi e lobbisti pro-prostituzione. Una cosa che ho capito durante il tempo che ho passato con le sopravvissute abolizioniste è quanto siano piene di speranza e ottimiste, nonostante tutte le barriere e gli ostacoli che devono affrontare.

“Sono qui per fare la differenza ”, mi ha detto una sopravvissuta che ho incontrato nel Minnesota. “Per parlare per conto delle persone considerate inutili. Oggi piango perché sono guarita, perché ho vinto, perché sono sopravvissuta.”


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“Femminile plurale”, scritta una meravigliosa pagina di Cultura


La Provincia, 6 novembre 2018


– Ad Allumiere sabato pomeriggio si è scritta una meravigliosa pagina di cultura con la “C” maiuscola che resterà indelebile nel cuore di tutti.

Ad Allumiere sabato pomeriggio si è scritta una meravigliosa pagina di cultura con la “C” maiuscola che resterà indelebile nel cuore di tutti. Tantissime persone nell’Auditorium (e altrettante nell’androne del museo con la diretta streaming e altre sono rimaste fuori per mancanza di spazio) hanno assistito alla finale della prima edizione del concorso letterario “Femminile plurale”, madrina d’eccezione la grande, Dacia Maraini, la più grande scrittrice vivente, una donna eccezionale che ha incantato tutti. Letteratura, musica, arte ma anche le tematiche attuali narrate nei libri finalisti: queste le sfaccettature meravigliose della cultura a tuttotondo toccate durante la manifestazione e tutte queste arti sono state presentate ai massimi livelli rendendo speciale e unica la serata tanto che all’unisono il pubblico, le scrittrici finaliste e il pubblico si sono complimentati per la perfetta organizzazione. A dirigere e gestire gli spazi e i momenti come un perfetto direttore d’orchestra è stato il presentatore d’eccezione Gino Saladini che, tra l’altro, ne ha approfittato anche per fare un elogio della cultura e ha invitato a «spegnere più spesso televisioni e mezzi informatici e dedicarsi alla lettura e alla Cultura in tutte le sue componenti. Leggete, leggete, leggete».

La manifestazione è stata eccezionalmente organizzata dall’assessore alla Cultura e alle Pari Opportunità Brunella Franceschini in collaborazione con il sindaco Pasquini, la Pro Loco, l’amministrazione comunale e un eccezionale gruppo di lavoro composto da Flavia Verbo, Valerio Chiacchierini,  Tiziana Franceshini, Francesca Tiselli, Cecilia Toffali e Karyn Minerva e con il prezioso contributo della Fondazione Cariciv e del Consiglio Regionale del Lazio.

  Lo scettro della vittoria di questa prima edizione è andato al libro reportage “Nonostante il velo scritto dalla giornalista Michela Fontana (edito da VandAePublishing e Morellini); secondo posto per “Gli anni forti” scritto da Paola Martini (ed. Manni); terzo posto, invece, per “La Ragazza nella foto” di Donatella Alfonso e Nerella Sommariva (ed All Around).

Intelligente, chiara e sensibile Dacia Maraini ha raccontato la sua vita, i suoi libri, la sua famiglia e i tanti amici con cui ha diviso porzioni di vita fra i quali Pasolini, Moravia (autore della prefazione del suo primo libro) e tante grandi scrittrici e alla fine è stata disponibile a incontrare i tanti ammiratori e a firmare loro le copie dei suoi libri che erano in vendita durante la manifestazione;  ha raccontato della sua passione per i viaggi ereditata dalla nonna «che sola zaino in spalla ha girato il mondo». La Maraini ha parlato del ruolo della scrittura al femminile nel tempo, sottolineando come questa sia discriminata, specie dalle istituzioni: «Oggi  le cose sono cambiate – ha spiegato – grazie soprattutto a quelle autrici che nel secondo dopoguerra, col sostegno dell’editore Luigi Einaudi, si definirono scrittori, elevando la prosa femminile fino ad allora confinata ai romanzi rosa. Penso a Lalla Romano, Anna Banti, Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Natalia Ginzburg. Avendole conosciute posso dire che erano donne eccezionali e coraggiose, sia pure diverse tra loro».  Ha raccontato che  deve la sua passione per la lettura e la scrittura alla mamma e alla nonna che erano scrittrici, al padre etnologo che scriveva i  saggi « Tornati dal campo di concentramento in Giappone eravamo – ha spiegato ancora – poverissimi – l’unica cosa che a casa nostra non mancava mai erano i libri. Leggere è importante per la propria formazione, è un motore che mette in motosa fantasia. Il libro viene scritto da uno scrittore ma ogni lettore lo riscrive nella sua fantasia». Ha raccontato le sue esperienze da scrittrice di testi teatrali di nicchia (uno che qualche anno fa ha debuttato a Civitavecchia) e di suoi testi utilizzati per il cinema. Durante la serata le autrici finaliste hanno raccontato i loro libri con intervalli di musica al pianoforte (a quattro mani) eseguita magistralmente da Paola Ingletti e Assunta Cavallari e con alcune pagine dei libri lette e recitate dall’attrice Novella Modellini. Tutti e tre i libri hanno toccato tematiche forti: Donatella Alfono con “La Ragazza della foto” ha raccontato la storia vera di un partigiano ebreo di buona famiglia e una giovane contadina, Paola Martini con “Gli anni forti” ha tracciato uno spaccato del decennio tra il 1968 e il 1978, quando in Italia, le donne conquistarono diritti fondamentali come quello alla sessualità, alla maternità consapevole, all’uguaglianza fra uomo e donna; infine la vincitrice Michela Fontana con “Nonostante il velo” ha parlato della condizione delle donne in Arabia Saudita. Non a caso Allumiere con Femminile plurale ha scelto di premiare e mettere in gioco scrittrici donne «di oltre 5mila concorsi letterari per la prima volta Allumiere – ha spiegato la giurista Veronica Ricotta ha indetto un concorso di questo genere». «La comunità di Allumiere – ha spiegato l’assessore Brunella Franceschini – deve molto alle donne, fin da quando, mentre gli uomini lavoravano nelle cave di allume, loro mandavano avanti la vita familiare e sociale. Negli anni ’70, poi ad Allumiere nacque la prima cooperativa femminile che confezionava abiti, “La Lumiera” e che è ricordata nella mostra fotografica nel Palazzo Camerale a cura di Rita Moraldi, una delle sue fondatrici».

Impeccabili gli alunni dell’Istituto alberghiero Stendhal, sotto la supervisione della dirigente Stefania Tinti, che sono stati perfetti camerieri e hostess durante l’aperitivo finale. Da rilevare che il book office della libreria “Scrittori e Manoscritti”  di Ladispoli ha registrato il tutto esaurito per i tre libri finalisti e quelli della Maraini  (la scrittrice presenterà il suo ultimo libro proprio nella libreria di Ladispoli).

La presidente della Fondazione Cariciv Gabriella Sarracco, piacevolmente colpita dalla manifestazione ha già anticipato il sostegno dell’Ente per l’edizione del 2019 di questo concorso. Orgoglioso il sindaco Antonio Pasquini: «Complimenti all’assessore Brunella Franceschini e a tutto il suo gruppo che è stato fantastico. Un anno di grande lavoro svolto con passione, professionalità, spirito di gruppo ed amore verso il prossimo. Ritengo giusto, importante e doveroso voler premiare il valore della donna, ancor oggi, purtroppo, troppo spesso messi in ombra. Il successo di questa prima edizione è stata una partenza fantastica per un grande progetto che guiderà positivamente la nostra comunità. Questo vuole anche dire donare al prossimo. Grazie ragazze».


 

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“Femminile plurale”, Dacia Maraini ospite alla chiusura del concorso


di Tiziana Cimaroli (Il Messaggero, 2 novembre 2018)


In nome e per conto delle donne, arriva ad Allumiere la prima edizione di “Femminile plurale”, atteso concorso letterario la cui finalissima si svolgerà domani alle 17.30 nella Sala nobile del Palazzo camerale di piazza della Repubblica. Continua a leggere “Femminile plurale”, Dacia Maraini ospite alla chiusura del concorso