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Recensione di “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco su Letterate Magazine

Le vacanze, ahinoi, sono quasi giunte al termine.

In dirittura d’arrivo Silvia Neonato consiglia “Mio figlio è femminista” di Monica Lanfranco edito VandA Edizioni.

Folgorante e sincero, un libro snello e profondo che mai come in questi tempi andrebbe letto, per incamerare nel cervello e nel cuore ciò che l’autrice illustra. Parlo di “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato”, VandA edizioni, 2023 di Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice, formatrice femminista di lunga esperienza e, anche questo conta, madre di due maschi ora adulti. Lanfranco – che è stata una delle ideatrici di Punto G, il progetto femminista del G8 di Genova nel 2001 e che dirige la rivista Marea – spiega, senza far lezione, come educare un bimbo fin da piccolo a rispettare le donne, dandogli esempi concreti del proprio valore di donna e combattendo con fermezza gli stereotipi anche con i/le docenti dell’asilo e delle superiori. C’è un capitolo dedicato alle parole e un altro ai giocattoli e ai colori: fondamentali per contrastare il machismo e lui deve imparare, accettando la frustrazione, che “no” significa no e che può essere un’occasione. Nei capitoli a seguire ci incita a insegnare ai cuccioli i lavori domestici e la cura di piante, persone e animali, a parlare con loro di violenza maschile sulle donne, spiega come è importante che faccia amicizia con le bambine e che impari a cucinare e a presentare bene i piatti, quando è adolescente, perché la seduzione comincia dalla gola. E infine, ma ci sarebbe tanto da dire, Monica è convinta che il patriarcato si può smontare, che la non violenza si può insegnare, che la sessualità dei genitori va raccontata perché è da quel gesto d’amore che loro, i figli, nascono. Altrimenti resta solo la scuola violenta e senza gioia dei filmati porno che, scrive l’autrice, bimbi e bimbe consumano già a 8/9 anni.

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Articolo di Monica Lanfranco su “Mio figlio è femminista”

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Come crescere, in un’epoca in cui purtroppo si verificano ancora femminicidi e violenze sulle donne, figli maschi femministi?

Monica Lanfranco, giornalista, formatrice e attivista, ha recentemente pubblicato il libro Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (Vanda Edizioni), nel quale argomenta la concreta e importante possibilità di arginare la violenza maschile sulle donne cambiando le parole e le pratiche educative e la cultura fin dalla base.

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Recensione su “Lo scandalo della felicità” di Pina Mandolfo

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Con eccezionale maestria, Pina Mandolfo ci presenta una delle troppe figure femminili che giacciono sommesse e sommerse nel grande fiume della storia, restituendole dignità, visibilità, luce.

La principessa Anna Valdina viene rinchiusa in convento ancora bambina, nella Palermo del 1642.  Un destino altrettanto triste attende le sue sorelle. Ma Anna non si arrende: per decenni anni lotterà legalmente, tenacemente, per ottenere lo scioglimento dei voti perpetui che le sono stati imposti. Rifiuta persino di fare carriera tra le mura del chiostro, ricusando il titolo di badessa. Fino ad ottenere la sospirata, meritata libertà!

Per un momento, il cammino di Anna si incrocia con quello di Eleonora De Moura, unica donna vicerè di Sicilia, designata dal marito, senza altri eredi, in punto di morte. Eleonora regna per un mese soltanto: ma realizza importanti riforme.

Abbassa il prezzo del pane in modo significativo. Riduce assai le tasse per le famiglie numerose e concede loro aiuti concreti. Garantisce una equa dote alle ragazze in difficoltà che intendono sposarsi. Designa un magistrato del commercio, per favorire negozianti e artigiani, riunendo e agevolando oltre 72 maestranze. Ma la nobiltà e il clero la scacciano prima che possa liberare Anna Valdina dal suo giogo, accogliendone le suppliche!

Quando lascia il monastero, dopo una diatriba legale interminabile, Anna è una determinata sessantenne. Muore il 2 agosto 1702. Ha gustato la libertà per soli tre anni.

Il racconto è chiaro, avvincente, esauriente, soffuso di tenera poesia. Pagine importanti per ricordarci l’atrocità delle monacazioni forzate, sia maschili che femminili: una ingiustizia che si è protratta per secoli.

“Lo scandalo della felicità” di Pina Mandolfo è stampato da Vanda Edizioni. Pag. 173. Euro 16.

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Articolo su Settimana News da Paolo M. Cattorini, “Ri-fare il genere”

Il monito della Beauvoir: “donne non si nasce ma si diventa” innerva tuttora, pur in nuove declinazioni, le teorie del femminismo (e del gender). Basterebbe ricordare la vicenda intellettuale di Monique Wittig (1935-2003), importante riferimento per il femminismo lesbico studiata e parzialmente criticata dalla Butler.

Dalla Wittig, Butler deriva la nozione di contratto eterosessuale quale paradigma epistemico che assegna intellegibilità ai corpi solo a partire da un genere stabilmente incorniciato-da e diretto-alla pratica dell’eterosessualità (e attraverso questa, alla procreazione). Per Wittig non si deve venire a patti col “regime” eterosessuale se si vuole prevenire in radice l’opposizione politica uomo-donna. Il vissuto lesbico destruttura la fissità binaria da cui deriva la tradizionale identità “femminile”.

Turbato da queste disgreganti critiche, il mercato mediatico dell’immagine ammicca e paga profumatamente, pur di riassimilare pacificamente il “corpo lesbico” ai canoni della moda (Il corpo lesbico è il titolo di un noto volume della Wittig ripubblicato recentemente da VandA Ed., Milano, 2023) invitando le “devianti” negli show televisivi più frequentati dagli e dalle influencer e you-tuber (i nuovi educatori morali sponsorizzati dal fashion business). Se donne si diventa (“one is not born a woman” – come Wittig traduce la Beauvoir) non lo si diventa per costituzione biogenetica o per rivelazione spiritualistica, ma attraverso pratiche come quella della scrittura, in cui si lavora sul linguaggio (inteso come vera e propria macchina da guerra culturale), in modo che esso riconosca forme minoritarie di vissuto erotico, rimosse dai cataloghi segnici dominanti.

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Il corpo lesbico – Articolo su Dinamo Press

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Uscito nel 1973 per le Éditions de Minuit, ed oggi riproposto in una traduzione di Deborah Ardilli per i tipi di VandA, “Il corpo lesbico” è uno dei testi in cui Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale e dove il lesbismo diventa qualsiasi soggetto che pratica la sovversione dell’ordine eterosessista e patriarcale. Attraverso un’opera di sabotaggio dei codici ideologici e linguistici che hanno dominato secoli di letteratura sull’amore, Wittig incarica la scrittura e il linguaggio di reinventare un mondo libero dal giogo della norma eterosessuale e maschile

Se per il primo femminismo la questione della liberazione era incentrata sulla lotta all’oggettivazione della donna da parte dell’ordine patriarcale, per Monique Wittig la donna non esiste se non come corpo lesbico. Vista l’importanza che negli anni Settanta del secolo scorso, nel pieno della conflittualità che animava tutti i movimenti di liberazione, rivestiva l’orientamento sessuale all’interno delle Questions Féministes, l’oggetto, o meglio, il soggetto del contendere è proprio il lesbismo come pratica di sovversione dei rapporti di forza materiali e simbolici che strutturano la norma eterosessuale capitalista. Per Wittig parlare della “donna” esclusivamente nei termini di differenza sessuale è fuorviante in quanto, seppur inconsapevolmente, va a rinforzare la lingua dell’economico – l’obbligo per la donna di riprodurre e prendersi cura della forza-lavoro – e a legittimare la lingua del Significante Fallo – la Donna esiste in quanto non-tutto castrato e assoggettato.

Per il movimento delle donne di allora era quindi poco percepita la «possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni» (Ardilli, p.12), come sostiene nella sua sapiente prefazione Deborah Ardilli, curatrice e traduttrice della nuova edizione di Il corpo lesbico per i tipi di VandA, che segue e “restaura” quella del 1976 curata da Christine Bazzin e Elisabetta Rasy per le Edizioni delle Donne. Per questa ragione, prosegue Ardilli, il lesbismo politico teorizzato e vissuto in prima persona da Wittig era visto come rischioso: nel migliore dei casi, il rapporto di sessaggio denunciato dalla scrittrice francese – lo stato di soggezione al potere dell’uomo e di assoggettamento alle dinamiche sociali del patriarcato –  era  considerato velleitario rispetto alla forza primaria e “trascendentale” della Legge (di Natura). Proprio per questo Psychanalyse et Politique, il gruppo che ruotava intorno alla figura carismatica di Antoinette Fouque, stigmatizzava il pensiero lesbico di Wittig come grottesca imitazione del modello maschile, tanto che Il corpo lesbico è stato più volte, e sconsideratamente, definito il frutto dell’“allucinazione onirica” di un’omosessuale in preda a deliri erotici vergati sotto l’egida di Saffo. Per il femminismo storico, insomma, il riconoscimento della libido femminile si riduceva a mera valorizzazione simbolica in grado di ripristinare un’equa e sana relazione eterosessuale, in cui libertà e amore costituivano i poli su cui far convergere le aspirazioni di emancipazione delle donne. La radicalità politica del lesbismo non può pertanto che essere invisibilizzata in nome di una critica dei rapporti di forza tra uomo e donna basata esclusivamente sulla sovversione delle norme e non dei rapporti sociali che tali norme giustificano e realizzano, consentendo la materializzazione del «rapporto di appropriazione generalizzata della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (Ardilli, p. 19).

Quando Il corpo lesbico venne pubblicato nel 1973 dalle Éditions de Minuit, Wittig è nel pieno della sua fase di scrittrice sperimentale, autorevole esponente dell’avanguardia letteraria dei nouveaux romanciers, in cui militavano figure di spicco del dissenso narrativo quali Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor, Claude Simon e Nathalie Sarraute. Alcuni anni prima Wittig aveva pubblicato L’Opoponax, il primo volume della silloge pronominale successivamente integrata da Le guerrigliere e, appunto, da Il corpo lesbico.L’Opoponax, creatura anti-mitica – inscritta cioè in quella fenditura, in quel margine, che turba e interrompe la solida permanenza assiomatica dell’immagine del mondo cristallizzata dal realismo etero-capitalista –, ibrido né animale né vegetale, che irrompe saltuariamente anche tra le pagine di Il corpo lesbico,anticipa gli attuali grafemi con cui si sta smantellando il falso mito dell’identità di genere. Inoltre, il ricorso straniante ad aggroviglianti ed aggrovigliati neologismi e l’uso ossessivo del pronome io lesbica, che confligge con quello io donna, costituiscono il corpo politico di un’espressività che si batte contro la tradizione del romanzo, con le sue trame, le sue psicologie, le sue logiche narrative e i suoi segretucci edipici, aggiungerebbero Deleuze e Guattari.

Ma, infine, che cosa è Il corpo lesbico, e come si legge? Il nodo da cui partire, non per interpretare la creatura mostruosa di Wittig ma, semmai, per misinterpretarla (o disinterpetrarla), aderendo così all’alternativo mondo amazzone della scrittrice è prendere le mosse, come sottolinea Ardilli, dalla celebre affermazione di Simone de Beauvoir secondo cui donna non si nasce. Questo enunciato miliare non solo è assunto da Wittig in tutta la sua dirompenza, ma la scrittrice sviluppa anche un suo completamento e una sua deriva, portando in scena una realtà ancor più oscena: se donna non si nasce sicuramente donna si muore. Questo è, in sintesi, quello che “succede” nei suoi scritti di finzione, come pure Il corpo lesbico testimonia. L’isola abitata, più che descritta, da Wittig, questo Eden anfibio, al contempo e indissolubilmente paradisiaco e infernale, in cui vivono solo “femmine” e dove tutto è declinato in grammatica lesbica – animal(e), cos(e), uman(e), personagg(e) mitich(e) –, è la libido femminile stessa, la cui scrittura è già di per sé lettura. Scrittura e lettura sono femmine e lesbiche, in quanto corpi testuali da eviscerare nella diffrazione soggettiva/possessiva di un’autrice che dà del tu alla lettrice amante. Il pronome personale e possessivo in prima persona è barrato graficamente e pertanto i/o è un attante relazionale, affettivo e sessuale più che il personaggio di un racconto erotico omosessuale. Inoltre i/o tu, «le due istanze di enunciazione che nel testo danno corpo alla passione lesbica» (Ardilli, p. 34), sono i pronomi che pongono la questione ideologica e storica dei soggetti femminili, come sottolinea la stessa Wittig in un suo intervento del 1975.

In fondo, quindi, Il corpo lesbico è un romancenient’altro – si fa per dire – che una storia d’amore tra l’i/o della scrittrice e il tu della lettrice. È tra queste due polarità che prende forma il divenire lesbico del mondo-tutto. Ma a chi si rivolge Wittig con quel tu? Certo non alla donna, categoria conosciuta e, per questo, vittima del discorso e della letteratura, bensì alla m/ia più sconosciuta, all’amante complice – in tutte le accezioni del termine – all’apice della raffigurazione dell’amore lesbico, a partire dalla sua posizione privilegiata di intellettuale che dispone del plus/valore delle parole: «I/o sono colei che muggisce con i suoi tre corni, i/o sono la tripla, io sono la benevola infernale, i/o sono la nera la rossa la bianca, i/o sono la grandissima l’altissima la potentissima colei il cui alito deleterio ha intossicato migliaia di generazioni e così sia, i/o siedo nell’alto dei cieli nel cerchio stellare dove sta Saffo dalle guance viola […], ma tu vieni subito m/ia più adorabile i/o abbandono la m/ia posizione indubitabilmente gerarchica […] mi getto ai tuoi piedi di cui la m/ia lingua lecca la polvere, i/o ti dico benedetta fra le donne tu che per prima sei venuta a sollevarm/i dal m/io posto di guardia situazione quanto mai eclatante tuttavia triste a causa della m/ia grande solitudine» (p. 191).

Con questo solo brano già si evince la maestria poetica di una scrittrice pienamente a proprio agio con i riferimenti della “grande” letteratura – da Saffo ai libri fondativi dell’onto-teologia occidentale, passando per le sue e i suoi contemporane* –, nonché la parentela per contagio e alleanza – non per filiazione ri/produttiva – con il pensiero deleuziano. Il divenire lesbica/animala – tutte le animali che convivono con le amazzoni dell’isola sono sempre declinate al femminile (la cangura, la serpa, la giumenta…) – significa tessere relazioni nonumane – ossia, come afferma Deleuze nella videointervista rilasciata nel 1988 a Claire Parnet, avere un rapporto animale con l’animale. Analogamente, la lettrice deve intrattenere un rapporto lesbico con la scrittrice lesbica. E ancora: quello che affascina Deleuze è che tutti gli animali hanno un mondo che gli umani non considerano o si limitano a descrivere e analizzare dall’alto della loro supposta posizione privilegiata. Allo stesso modo, Wittig crea un mondo lesbico, dove i corpi lesbici sono anatomie rovesciate, decostruzioni de-evolute, processi invertiti da un corpo a un altro corpo, corpi con così tanti organi, esposti e descritti in maniera talmente minuziosa, da divenire insostenibili per l’Eteronormatività, il Patriarcato, la Storia, il Capitale, la Razza e l’Umano.

Il teriomorfismo, l’ibrido femmina/animale è allora da considerarsi non solo oltre l’umano ma più in profondità oltre la specie: «Tocco le tue mammelle dure, le stringo nella m/ia mano. Tu ti reggi ritta sulle zampe con una di loro a momenti raspi il suolo. La tua testa sulla m/ia nuca pesa, i tuoi canini m/i incidono la carne nella parte più sensibile, m/i tieni tra le zampe […], m/i strappi la pelle con gli artigli delle tue quattro zampe […], m/i aggrappo alla tua pelliccia […], a un tratto tutta febbrile m/i prendi sulla tua schiena m/ia lupa […] le m/ie gambe serrandoti i fianchi il m/io sesso sussultante contro i tuoi lombi, ti metti a galoppare» (pp. 67-68). Correndo sensualmente con questo ibrido, in un processo di perenne ibridazione, Wittig descrive con inusitata potenza una sessualità in cui i corpi lesbici vengono sottratti al genere etero-pornografico: corpi letteralmente fatti a pezzi per essere poi ricomposti in un divenire in cui il piacere/dolore, la carnefice/vittima, la predatrice/preda sono ecceità magnetiche e cortocircuitanti che strappano visioni alla misera realtà dell’erotismo omologato: «I/o sono da te montata a pelo. Le tue cosce m/i stringono i fianchi. […] La m/ia testa è scossa tirata per tutta la criniera dalle tue mani. […] Tu armi i tuoi talloni allora e le tue gambe. Premi su di m/e con tutta la tua forza voce stridente, m/i laceri i fianchi con le tue numerose punte d’acciaio, li scortichi, ne fai uscire la carne viva […]. Allora così tormentata in tutte le m/ie parti i/o m/i slancio in una galoppata furiosa, i m/iei zoccoli martellano la terra con violenza, nitrisco senza fine, urlo con tutte le m/ie setole rizzate, ti porto via» (pp. 102-103).

Wittig, che nel 1976 abbandona la Francia per gli Stati Uniti, sembra così anticipare il post-porno americano, che reifica le posizioni del femminismo storico per poi riappropriarsene nella ricomposizione di soggettività eterodosse, sia rispetto alla categoria “eterosessualità” sia rispetto alla categoria “donna”, soggettività che diventano immediatamente soggett* rivoluzionar*. È proprio in questo frangente storico, infatti, che assistiamo all’emergere di soggettività politiche – nere e latine, migranti e precarie, prostitute e queer – relegate ai margini delle elaborazioni teoriche del femminismo bianco, soggettività rivoluzionarie che aprono inedite questioni sul sesso e pro-sesso, fino ad allora ignorate, invisibilizzate o del tutto trascurate. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla decostruzione pansessuale di Annie Sprinkle che materializza, come afferma Preciado, «uno spazio di azione politica attraverso il quale le donne e le minoranze sessuali possono ridefinire il loro corpo e inventare nuove forme di produzione del piacere che resistano alla normalizzazione pornografica dominante».

Wittig scrive il suo romance, la sua storia d’amore con la lettrice – su/a molto tormentata, amante impaziente, esultante, interdetta, solare, celestiale, amante sovrana  come se fosse già morta e vagasse nei meandri di uno spazio-altrove, dove ad esprimersi non è più il soggetto-oggetto donna, ma il corpo lesbico in quanto cadavere squisito. La confidenza con cui la scrittrice gioca con il proprio corpo vivo/morto è la stessa con cui dispone, sovvertendola, la relazione impossibile dell’amore con la morte. Se il mito, incluso quello di Eros e Thanatos, «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze […] organizza un mondo senza contraddizioni […], dispiegato nell’evidenza» (Roland Barthes, Miti d’oggi, p. 223-224), al mito eterosessuale che performa uomini e donne come gruppi naturali, Wittig contrappone l’anti-mito dell’al-di-là, una cosmologia dei desideri che si consumano su un’isola in/umana (postuma e postumana), cioè letteralmente priva di uomini e donne: «Di tanto in tanto le m/ie braccia gialle e putrefatte da cui escono lunghi vermi ti sfiorano, qualcuno di loro ti striscia sulla schiena, tu fremi […]. Lungo gallerie sottosuoli minati cripte grotte catacombe ci muoviamo mentre canti con voce vittoriosa la gioia di ritrovarm/i» (p. 65).

Come sottolinea Marcuse in L’uomo a una dimensione a proposito della letteratura d’avanguardia succeduta alla produzione artistica dell’alta cultura che, pur sostenuta dalle classi privilegiate, già conteneva in nuce la contraddizione tra il potere che concede e l’artista che sublima la propria alienazione da un mondo che rifiuta, la nuova dimensione dell’arte nelle società tecnologicamente avanzate è contrassegnata dalla rottura della comunicazione. È questa dimensione a connotare la scrittura di Wittig che proprio sulla distruzione del linguaggio a favore delle parole – isolate dal mare della comunicazione – fonda il proprio discorso poetico. Aderendo alle semiotiche di Barthes e rinunciando alle regole della proposizione, Wittig «designa un universo intollerabile, autodistruttivo, privo di continuità» (Marcuse, p. 88), crea un mondo che sovverte l’esperienza prestabilita della natura che homo (sapiens, hetero, pater)si è storicamente dato. Le parole di Wittig, per riprendere Il grado zero della scrittura di Barthes, sono segni «senza legami, forti della violenza del loro prorompere in luce […] queste parole poetiche escludono gli uomini» (p. 72).

L’opera di politicizzazione del lesbismo di Wittig sta suscitando sempre più interesse non solo in ambito accademico. L’horror femministaper esempio, sembra incarnare la visione della scrittrice francese, che situa nell’occhio – globo oculare, retina, nervo ottico – e non nello sguardo – in cui si annida il potere vivisettorio del regista – le lacrime amare della messa in scena. Quello che registe come Julia Ducournau – autrice di Raw Titane, due dei più emblematici film del filone cinematografico de-genere de-generato – vogliono esplicitare è proprio la dimensione sublime del corpo come nuova poetica della carne, profetizzata a suo tempo dal maschilismo esasperato di Cronenberg. Come nella scrittura di Wittig, in questi film il corpo lesbico è una macchina da guerra che affronta polisemicamente il corpo sociale, il corpo testuale e il corpo fisico come proiezioni del mito eterosessuale da distruggere.

Ma, allora, cosa può un corpo lesbico? Può senz’altro afferire a un altro corpo, a un corpo altro. La relazione tra due corpi, lo stato di affezione descritto da Spinoza, è una forma di conoscenza che Wittig descrive minuziosamente, immaginandola come una serie di infiniti processi di composizione e di decomposizione. Le lezioni deleuziane su Spinoza ritraggono il male come un cattivo incontro tra due corpi, una cattiva combinazione tra un corpo che disgrega, taglia e smembra e un altro che subisce questa alienazione dell’agire. In questo senso, l’isola delle lesbiche diventa il luogo dove è possibile comprendere di che cosa sia capace un corpo. Le personagge teriomorfe di Wittig rappresentano mappe affettive che, oltrepassando i presunti confini di specie, razza e genere, rimettono in discussione anche la “natura” eterosessuale delle “donne”: «Decomporre il corpo in parcelle infime, s/marcarlo dalla valorizzazione selettiva (labbra, seno, glutei, apparato riproduttivo) che compongono il mito della Donna» (Ardilli, p. 50). Il che ci riporta, come lungo il bordo di un’isola, al punto di partenza: distruggere la costruzione materialsemiotica eterosessuale del corpo significa affermare che non esistono donne ma corpi lesbici.

Forse il solo modo per de/finire questo libro è restituire alla parola il carattere, il peso e la dimensione che la logica propositiva della letteratura le ha irrimediabilmente tolto. Utilizzare il grado zero della letteratura per renderla indipendente dalla lingua degli uomini e dalla scrittura connotativa del romanzo borghese. A cominciare da prima della prima pagina: «LA CIPRINA LA BAVA LA SALIVA IL MOCCIO IL SUDORE LE LACRIME IL CERUME L’URINA LE FECI GLI ESCREMENTI IL SANGUE LA LINFA LA GELATINA L’ACQUA IL CHILO IL CIMO GLI UMORI LE SECREZIONI IL PUS LE….».

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“Insegnate che no significa no” – Estratto da “Mio figlio è femminista” su Il Fatto Quotidiano

Estratto da “Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato” di Monica Lanfranco (Vanda edizioni), su Il Fatto Quotidiano

Insegnate che ‘no’ significa no
Cresciamo in una cultura ancora in grande prevalenza pervasa da influenze culturali patriarcali misogine e, di conseguenza, rischiamo di educare le persone giovani che abbiamo accanto trasmettendo, in particolare ai nostri figli maschi, un pregiudizio atavico: quello secondo il quale le ragazze e le donne dicono di no alle avances e alle proposte sessuali, ma in realtà questo loro rifiuto è ambiguo, e in parte si tratta di un sì solo rimandato, che quindi potrebbe essere anticipato con qualche ‘forzatura’.

Sembra un dettaglio di poco conto ma attenzione: il pericolo molto concreto è che passi il messaggio che le femmine umane, oltre a non essere per nulla chiare e autonome rispetto ai loro desideri e decisioni, siano creature un po’ incerte e quindi da ‘accompagnare’, magari con una spinta un po’ rude, soprattutto nelle faccende sessuali.

Si tratta di un ben misero scenario relazionale, nel quale gli uomini sarebbero predoni costantemente in caccia di donne all’apparenza riluttanti ma in realtà vogliose, che di conseguenza descrive, e rende lecita, l’ottima probabilità di una sessualità tossica e impositiva da una parte e arrendevole e mai limpida dall’altra.

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Il mio nome è Aoise

“Si strinse a Prudence che dormiva con lei. Il suo corpo era enorme, un infinito complesso privo di proporzioni: le mani, le gambe, le braccia, i seni generosi, la pancia, il naso che le cascava sul viso, gli occhi neri che ricordavano gli anfratti delle savane. Emanava odore di casa, di terra nigeriana.”

Buongiorno Book Lovers oggi vi parlo di un libro molto particolare, il tema trattato è attuale e deve farci riflettere.
Mentre mi dedicavo alla lettura di questo libro mi è capitato di vedere un programma dove l’argomento era proprio quello del libro, la tratta delle donne da sfruttare per la prostituzione.
Il mio nome è Aoise” di Marta Correggia è un libro che racconta la verità nella sua crudezza, nella sua crudeltà, parole, quelle scritte, che ci fanno percepire le atrocità e la sofferenza che queste donne subiscono e sentono, ci fanno capire come le credenze popolari sono ancora un mezzo di corruzione e di manipolazione delle menti di queste donne, che colpiscono la loro semplicità, i loro affetti, il loro credo. L’autrice con il suo linguaggio semplice e scorrevole riusce a portare il lettore in quel mondo fatto di corruzione, cattiveria, di sfruttamento.
Il mio nome è Aoise” racconta la vita di una giovane donna nigeriana costretta a lasciare il suo villaggio, la sua terra, la sua famiglia per raggiungere un paese lontano, un sogno, un lavoro onesto che le permetta di aiutare la sua famiglia. Aoise ha perso il padre, unica fonte di sostentamento per la famiglia, i piccoli lavoretti suoi, della madre e dei fratelli non sono sufficienti a volte neanche per comprare qualcosa da mangiare. Un giorno le viene presentato un uomo che offre denaro per il viaggio di Aoise verso l’Italia dove lavorerà come parrucchiera, con lo stipendio potrà estinguere il debito e inviare denaro a casa. Per assicurarsi il saldo del debito la ragazza viene sottoposta ad un rito, se lei non rispetterà le regole, non salderà il debito, gli spiriti faranno qualcosa di male alla sua famiglia.
L’autrice racconta in maniera molto dettagliata il rito a cui la protagonista è sottoposta, il viaggio che affronta dalla Nigeria all’Italia, la traversata, i pericoli, fino a quando Aoise si ritroverà in un’abitazione di Castel Volturno e scoprire che è stata venduta per prostituirsi. Da quel momento in poi Aoise non ha più una vita, non ha più sogni, non ha più un corpo suo, non ha più un nome. Aoise diventa Erabon.

“Mentre i suoi ricci cadevano a terra uno dopo l’altro, Erabon immaginò che ad ogni ciocca era un pezza della sua vita di prima che veniva reciso.”

L’autrice, Marta Correggia, riesce perfettamente a dividere Aoise da Erabon. Quando parla di Aoise il racconto è poetico, gioioso, anche se parla di una vita di povertà, ci sono quelle piccole cose, quei racconti del nonno, la famiglia riunita, gli insegnamenti del papà, i primi amori, la scuola che lei ama tanto, che rendono Aoise felice di vivere, vivere la semplicità del suo piccolo villaggio. Erabon, il racconto diventa crudo, freddo, spietato, crudele. Erabon non è felice, cerca di ritagliarsi piccoli frammenti nascosti di gioiosità, in quel momento ritorna ad essere Aoise. Aoise è libera. Erabon non è libera. Erabon è una schiava. Erabon è la schiava di uomini che vogliono solo pagare per fare sesso. Erabon è una puttana.
Ma Erabon può tornare ad essere Aoise? Che prezzo ha la libertà? È vero quello che le hanno raccontato degli spiriti malvagi che si vendicano? Le credenze rendono liberi?

Anche in luoghi oscuri entra la luce, lieve, sotto forma di un piccolo raggio, per Erabon la luce si chiama Francis. Con Francis Erabon ritorna ad essere Aoise. Francis le racconta il profumo della libertà. Francis le fa un piccolo regalo, una radio con le cuffie, che potrà ascoltare di nascosto. La musica è libertà, è la sua terra. La musica racconta la nostalgia, la lontananza, i ricordi. La musica porta amore nel cuore di Aoise.

“Era il colore delle cose che cambiava, le pareti si allungavano e il bagno diventava il salone di un castello, il lavandino una sorgente di acqua fresca in mezzo al bosco. La bellezza entrava sotto forma di un sogno musicale nella testa di Erabon che diventava Aoise per il tempo di un giro di do e di un accordo di settima, diventava aria, si alzava sopra le nuvole e poi tornava a essere terra.”

Il mio nome è Aoise” un romanzo che porta il lettore a riflettere, a pensare, pur essendo un romanzo di “fantasia” rispecchia la realtà. Tutti i giorni sulla nostra costa arrivano, senza che noi lo sappiamo, tante Aoise. Affrontano un viaggio verso la schiavitù non la libertà, verso la falsità non la verità. Più si allontanano dalle coste del loro paese più perdono un pezzo del loro essere. Più diventano, a loro insaputa, Erabon. Esiste anche un’altra dura realtà e verità non tutte le Erabon ritornano ad essere Aoise. Perché la verità spesso fa male, è difficile da affrontare, ma è il prezzo da pagare per essere liberi.
Erabon dovrà accettare la verità, dovrà capire di chi fidarsi, dovrà fidarsi nuovamente di chi non conosce.

Aoise spesso quando non è felice pensa al padre, alle passeggiate in cerca di erbe mediche per curare i malati del villaggio, lei ha imparato i segreti di queste piante ma il padre le ha insegnato altro. Anche i racconti del nonno e le poche parole dello zio le hanno insegnato qualcosa. Spesso ascoltiamo e non sappiamo che un giorno quelle parole ci saranno utili.

“…a guardare il sole che filtra tra gli alberi nelle foreste più scure, a pregare gli dèi e a non arrendersi mai.”

Nei nostri momenti bui, di sconforto ricordiamoci di quel breve momento in cui il sole filtra tra gli alberi, breve ma allo stesso tempo intenso, sfuggente, che ci regala pace, gioia, serenità, vita. In quei momenti ricordiamoci…”Il mio nome è Aoise”.

Giudizio finale:

Casa editrice: VandA edizioni
Prezzo: € 18,00
Pagine: 270

Buona lettura

Recensione a cura di Marta Bianchi. E’ possibile vedere per integrale l’intervista sul sito sottostante.

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A proposito di Elena di Giuseppina Norcia

Voce alle Donne

recensione di Emma Fenu

a proposito elena

A proposito di Elena è un narrazione polifonica, che fonde saggio, piece teatrale e racconto, scritto da Giuseppina Norcia ed edito da Vanda nel 2020.

Di cosa tratta A proposito di Elena?

Fa paura Elena.
Elena dea. Elena bellezza perfetta.
Elena proiezione dell’immaginario maschile.  Elena specchio della violenza della guerra.
Elena doppia. Elena Luna, multiforme e mutaforme.
Elena Donna.

La sua storia racconta cosa gli uomini sono capaci di fare per il possesso. Possesso di una città, di un corpo. Possesso che è abuso, violenza.

Elena odiata dagli uomini sedotti, a fare i conti con i propri mostri, e dalle altre donne. Se l’è andata a cercare, Elena, non è vittima sacrificale come Ifigenia o emblema del coraggio come Antigone.

Elena è rea di essere bella e viva. Imperdonabile.

Non importa se fu stuprata a dodici anni e restituita, come un corpo di bambola, da Teseo.

Non importa se viene rapita e altri decidono una guerra, non lei.

Non importa se disprezza Paride ed è costretta a concedersi.

Non importa se ha un’opinione. Nemmeno le donne hanno orecchie per la storia di Elena.

Solo una donna la difende, la saggia Penelope, quella che sa attendere: sa che è vittima dell’inganno divino che conduce alla follia e sa che non può dire né fare nulla, figuriamoci  se scatenare una guerra. La guerra è la follia degli uomini.

Gli uomini devono essere belli: la frase kalòs (bello) e agathòs (buono) diventa stereotipo: le qualità morali si esplicitano in quelle esteriori.

Ma Elena è una seduttrice pericolosa: in lei si ritrovano Ecate, Persefone e, soprattutto Artemide. E Eva?

Perchè leggere A proposito di Elena?

A proposito di Elena è un libro dalla bellezza travolgente. Seduce con storie, voci, richiami interni al testo, impliciti ed espliciti, connessioni che ricuciscono il mito con la cronaca e raccontano delle donne, non di una, e del corpo di tutte.

Non ho sintetizzato i vari argomenti trattati in modo puntuale e avvincente nei capitoli e l’intersecarsi di voci e storie e urla. Spetta a voi. Necessario è ascoltare, accogliere, comprendere.

L’epilogo invita alla rinascita. Si muore quando le proprie parole sono cancellate e dimenticate, ma si vive nel ventre di ogni storia raccontata dopo millenni di assenza e silenzio imposto.
Sia Voce a Elena, dunque e finalmente.
Sia Voce alle Donne, dunque e finalmente.
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Sinossi

Personaggio controverso e fascinoso, emblema della bellezza pericolosa, Elena di Sparta è portatrice di una complessità che ci sfugge.

Crediamo di conoscerla, eppure, per certi versi, di Elena non si sa niente.

Si sa, invece, l’effetto che fa sugli altri, al punto – così si dice – di aver causato una guerra.

Chi ha paura di Elena, dunque, e perché? Qual è la verità su di lei?

Desiderata e temuta dagli uomini, disprezzata dalle donne, apparentemente Elena non riabilita il femminile, non si presta a essere un’eroina da imitare come Antigone o Ifigenia, donne del coraggio e del sacrificio.

Così sembrerebbe. Ma andando alle radici sembra disvelarsi la possibilità di una storia diversa e di un’altra bellezza.

Perché fra le pieghe della Storia esiste sempre un’altra storia, soprattutto se il soggetto è donna.

Titolo: A proposito di Elena
Autore: Giuseppina Norcia
Edizione: Vanda, 2020

Recensione a cura di Emma Feru. E’ possibile vedere per integrale l’intervista sul sito sottostante.

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Recensione – Il corpo lesbico

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

di Jamila Mascat, articolo su Nazione Indiana

VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l’introduzione.

Qui di seguito l’incipit dell’introduzione e del libro.

di Deborah Ardilli

All’interno del romanzo di formazione della generazione che, nell’ultimo scorcio del Novecento, ha tentato l’assalto al dominio patriarcale, Monique Wittig occupa il posto riservato alle grandi esploratrici, alle intrepide che prendono il largo per inoltrarsi in mare aperto, in attesa di essere raggiunte da chi è rimasta indietro. «Wittig è stata il nostro primo spaesamento culturale», ha scritto Simonetta Spinelli (2001) rievocando la forza d’urto di una scrittrice* capace di far deflagrare assetti categoriali ritenuti intangibili e, perciò stesso, di suscitare reazioni contrastanti nella generazione femminista e lesbica degli anni Settanta. In generale, non è affatto raro che il disorientamento provocato dall’incontro con l’inaudito dia luogo a risposte divergenti, sospese tra i poli estremi dell’accettazione senza riserve e del rifiuto pregiudiziale. Lo spaesamento può essere la prima tappa di un’avventura politica e conoscitiva perseguita fino alle estreme conseguenze o, viceversa, può indurre l’attivazione di meccanismi difensivi finalizzati a neutralizzare l’agente estraneo insinuatosi in un sistema di credenze naturalizzate. In particolare, se si volge lo sguardo alla prima ricezione italiana del Corpo lesbico, apparso in traduzione nel 1976 per le Edizioni delle Donne, salta agli occhi una pronunciata tendenza alla neutralizzazione.

Certo, il vantaggio prospettico della posterità impone un esercizio di carità ermeneutica nei confronti del lavoro di chi ci ha precedute: le valutazioni che oggi sono possibili, all’epoca erano precluse, o rese difficilmente udibili, da una serie di fattori contestuali che hanno pesantemente condizionato la ricezione italiana di Wittig. Nel 1976 non esiste ancora, nel nostro Paese, una vera e propria soggettività lesbofemminista e i contatti del movimento delle donne con l’area francese sono mediati quasi esclusivamente da incontri periodici con le donne di Psychanalyse et politique, il gruppo raccolto intorno all’autorità carismatica di Antoinette Fouque, avverso al riconoscimento politico del lesbismo e incline semmai a riferirsi a un’omosessualità primaria concepita in chiave psicoanalitica. Per Psychanalyse et politique, la funzione del movimento delle donne consisteva infatti nel riattivare l’originaria relazione madre-figlia in modo da farne la via maestra per il recupero della differenza femminile forclusa dall’ordine fallogocentrico. Era questa la forma archetipa dell’omosessualità individuata da Fouque, per altro convinta che non esistesse nulla di più falso della celebre affermazione di Simone de Beauvoir – successivamente ripresa da Wittig in chiave lesbica – secondo cui «donna non si nasce». A propria volta, la valorizzazione simbolica dell’omosessualità primaria e della libido femminile che le era connessa – una libido creandi assimilata in tutto e per tutto alla procreazione – era intesa da Fouque come tappa essenziale di processo più ampio, finalizzato alla costruzione di relazioni più “autentiche” con gli uomini, libere dal potere, fondate sull’amore e sull’avvento di una “vera” eterosessualità. Poste tali premesse, l’ostilità di Psychanalyse et politique era riservata alla tendenza femminista rivoluzionaria, rea di volersi liberare simultaneamente della discriminazione e della differenza sessuale, e a maggior ragione alla coscienza politica lesbica che, in quella tendenza, affondava le proprie radici. Il lesbismo politico, inteso come indisponibilità permanente allo sguardo maschile, come denuncia vivente dell’oppressione patriarcale, come possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni, rappresentava, all’interno del quadro politico e concettuale disegnato da Psychanalyse et politique, una provocazione inconcepibile o, al più, una fissazione di segno regressivo.

Nella battaglia delle idee, Antoinette Fouque poteva inoltre giovarsi di una risorsa egemonica come le éditions des femmes la casa editrice creata nel 1972 da Psychanalyse et politique, grazie ai generosi finanziamenti dell’ereditiera Sylvina Boissonnas, con l’obiettivo di promuovere la letteratura femminile rifiutata dalle case editrici mainstream e di creare un presidio culturale capace di fare da cassa di risonanza alla teoria della differenza sessuale.

L’ambiguità irrisolta tra la denigrazione del lesbismo, squalificato da Psychanalyse et politique come grottesca imitazione del modello maschile, e l’enfatica messa in scena dell’amore tra donne, è stata il binario ideologico su cui ha viaggiato Il corpo lesbico nella sua prima sortita al di qua delle Alpi: circostanza, questa, che ha impedito alle femministe italiane di apprezzare appieno la novità della visione politica del lesbismo tratteggiata da Wittig. Se la scrittrice francese intuisce precocemente la necessità di accelerare il passo per non lasciar rifluire la radicalità originaria del movimento, le italiane continuano invece a procedere con maggiore prudenza. Del resto, l’eco dei conflitti che infiammano il movimento di liberazione delle donne a Parigi, in particolare a partire dal momento in cui Wittig inizia a premere (senza successo) per la costituzione di un Fronte Lesbico Internazionale**, non raggiunge il nostro Paese: le prime manifestazioni di autocoscienza lesbica legate al femminismo si sviluppano in un contesto non toccato dalla «grande disputa tra le madri e le amazzoni» (Wittig e Zeig [1976] 2020, p. 51) che, a metà degli anni Settanta, porta la scrittrice ad allontanarsi dalla Francia e a stabilirsi negli Stati Uniti. Estranee ai quadri di riferimento entro cui si svolge la discussione fra le femministe italiane in quegli anni sono anche le premesse teoriche che, in Wittig, saldano l’affermazione del punto di vista lesbico all’attacco sferrato contro l’eterosessualità, intesa come sistema sociale fondato sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini e come forma ideologica volta a giustificare, tramite la dottrina della differenza tra i sessi, tale appropriazione. Mancano ancora all’appello gli scritti in cui Wittig espone i lineamenti teorici della propria politica; e soprattutto manca, in Italia, un filone autoctono di femminismo radicale e materialista in grado di sintonizzarsi con la proposta della francese.

Date queste condizioni, sfugge una chiave interpretativa indispensabile per avvicinare Il corpo lesbico: nella pratica politica, letteraria e teorica di Wittig il lesbismo non denota un orientamento sessuale o un marchio identitario, non configura un’ennesima differenza essenziale candidata al riconoscimento. Esso si pone invece come negazione determinata di un rapporto sociale di oppressione e, perciò stesso, come punto prospettico privilegiato in vista della ricostruzione del contratto sociale al di là dei meccanismi costitutivi di alterizzazione e inferiorizzazione delle donne riprodotti nel contesto del dominio eterosessuale. Come ha sottolineato Christine Delphy, sua sodale all’interno delle Féministes Révolutionnaires e delle Gouines Rouges (le “lesbicacce rosse”) nei primi anni Settanta e poi ancora nei tre anni di vita della rivista Questions féministes (1977-1980), Wittig non è stata certo la prima scrittrice francese a far sapere di essere “omosessuale”: è stata invece la prima «ad aver collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura» (Delphy [1985] 2020). Al di fuori di queste coordinate, la prima ricezione italiana del Corpo lesbico risente di una provincializzazione profondamente equivoca del messaggio wittighiano. Ascritto d’ufficio al novero della “scrittura femminile”, il libro è presentato come un esempio di rivalutazione della differenza sessuale, alla sua figurazione del lesbismo vengono attribuite le fattezze di un’omosessualità onirica equivalente all’autoerotismo femminile e i presupposti di poetica che governano l’orchestrazione del testo passano clamorosamente inosservati.

[…]

*Wittig prediligeva per sé la denominazione écrivain (scrittore), in luogo del femminile écrivaine (scrittrice), per distanziarsi da esponenti dell’écriture féminine come Hélène Cixous, Luce Irigaray, Annie Leclerc e Chantal Chawaf, a cui imputa un fraintendimento naturalistico del lavoro di scrittura, ridotto alla stregua di una secrezione naturale. Ciò nonostante, al pari di altre studiose (per esempio Feole 2020), utilizzerò il sostantivo “scrittrice” per indicare Wittig, ferma restando la necessità di dissociare il termine da ogni riferimento alla “scrittura femminile” e al suo apparato categoriale: differenza, specificità, natura, produzione inconscia, rimandi metaforici alla generatività corporea. Sulla critica di Wittig all’écriture féminine, cfr. Wenzel 1981; Griffin Crowder 1983; Armengaud 1998; Lasserre 2018.

** Wittig inizia a pensare al progetto della costituzione di un Fronte Lesbico Internazionale nel novembre del 1974, in occasione della Conferenza Internazionale delle Donne di Francoforte, a cui partecipano 600 donne provenienti da 18 paesi. L’idea di una coalizione lesbica internazionale è la proposta politica che Wittig lancia per evitare un riassorbimento del movimento di liberazione delle donne all’interno dell’ideologia patriarcale, eventualità che nella Francia di quel periodo appariva tutt’altro che remota: il 1974, infatti, non è solo l’anno dell’esplosione pubblica dell’écriture féminine, ma anche quello della creazione del Segretariato di Stato sulla condizione femminile, istituito dopo l’elezione presidenziale di Valéry Giscard d’Estaing. La proposta, tuttavia, non sopravvive all’ostilità che Wittig incontra non tanto da parte di Psychanalyse et politique quanto da parte della componente maggioritaria delle Féministes Révolutionnaires. Per la ricostruzione di queste vicende, si vedano Turcotte 2003 ed Eloit 2018; 2019. L’amarezza e la disillusione di Wittig per gli esiti di quelle vicende hanno trovato una trasposizione letteraria in Paris-la-politique (Wittig 1999).

***

Monique Wittig,  Il corpo lesbico

In questa geenna dorata adorata nera è tempo di dire addio m/ia molto bella m/ia molto forte m/ia molto indomita m/ia molto sapiente m/ia molto feroce m/ia molto dolce m/ia prediletta, a ciò che esse chiamano l’affetto la tenerezza o il grazioso abbandono. Ciò che ha corso qui, nessuna lo ignora, non ha nome per ora, che esse lo cerchino se ci tengono veramente, che si lancino in una battaglia di belle rivalità, cosa di cui i/o m/i disinteresso quasi completamente mentre tu puoi con voce da sirena supplicare qualcuna dalle ginocchia brillanti di venirti in aiuto. Ma lo sai, nessuna potrà sopportare di vederti gli occhi revulsi le palpebre tagliate gli intestini gialli fumanti spalmati nell’incavo delle tue mani la lingua sputata fuori dalla bocca i lunghi filamenti verdi della bile colanti sui tuoi seni, nessuna potrà sopportare l’ascolto della tua risata bassa frenetica insistente. Lo splendore dei tuoi denti la tua gioia il tuo dolore la vita segreta delle tue viscere il tuo sangue le tue arterie le tue vene i tuoi abitacoli cavi i tuoi organi i tuoi nervi la loro disgregazione il loro zampillo la morte la lenta decomposizione il lezzo il divoramento da parte dei vermi il tuo cranio aperto, tutto sarà per loro ugualmente insopportabile.

Se qualcuna pronuncia il tuo nome m/i sembra che le orecchie siano sul punto di caderm/i pesantemente a terra, sento il sangue surriscaldarsi nelle m/ie arterie, percepisco d’un tratto i circuiti che irriga, un grido m/i sale dal fondo dei polmoni per farm/i scoppiare, stento a contenerlo, i/o divento bruscamente il luogo dei più oscuri misteri, la pelle m/i si accappona e si copre di macchie, i/o sono la pece che brucia le teste assalitrici, i/o sono il coltello che squarcia la carotide delle agnelle neonate, i/o sono le pallottole delle mitragliatrici che perforano gli intestini, i/o sono le tenaglie arroventate al fuoco che tormentano le carni, i/o sono la frusta che flagella la pelle, i/o sono la corrente elettrica che folgora e paralizza i muscoli, i/o sono il bavaglio che imbavaglia la bocca, i/o sono la benda che copre gli occhi, i/o sono i lacci che legano le mani, i/o sono l’aguzzina forsennata galvanizzata dalle torture e le tue grida m/i eccitano tanto più m/ia prediletta perché le trattieni. A questo punto i/o ti chiamo in m/io aiuto Saffo m/ia incomparabile, damm/i a migliaia le dita che leniscono le ferite, damm/i le labbra la lingua la saliva che porta nel lento nel dolce nel velenoso paese da cui non si può fare ritorno.

Scopro che la tua pelle può essere rimossa delicatamente pellicola per pellicola, tiro, si solleva, si avvolge sopra le tue ginocchia, a partire dalle ninfe tiro, scivola lungo il ventre, sottile fino all’estrema trasparenza, a partire dai lombi i/o tiro, la pelle scopre i muscoli rotondi e i trapezi della schiena, si solleva fino alla nuca, arrivo sotto i tuoi capelli, le m/ie dita ne attraversano la massa, tocco il tuo cranio, lo tengo con tutte le dita, lo comprimo, palpo la pelle sull’insieme della scatola cranica, strappo brutalmente la pelle sotto i capelli, scopro la bellezza dell’osso lucente percorso da vasi sanguigni, le m/ie mani frantumano la volta e l’occipite dietro, le m/ie dita ora sprofondano nelle circonvoluzioni cerebrali, le meningi sono attraversate mentre il liquido rachidiano defluisce da ogni parte, le m/ie mani sono immerse negli emisferi molli, cerco il bulbo rachidiano e il cervelletto racchiusi sotto da qualche parte, ti ho afferrata ora tutta intera muta immobilizzata ogni grido bloccato in gola i tuoi ultimi pensieri dietro gli occhi chiusi nelle m/ie mani, il giorno non è più puro del fondo del m/io cuore m/ia amatissima.

Con i tuoi diecimila occhi tu m/i guardi, lo fai e sono i/o, non m/i muovo, ho i piedi completamente piantati nella terra del suolo, m/i lascio raggiungere dai tuoi diecimila sguardi o se preferisci dallo sguardo unico dei tuoi diecimila occhi ma non è lo stesso, questo sguardo immenso m/i tocca in ogni parte, esito a muoverm/i, se alzo le braccia verso il sole tu abbassi gli occhi di sbieco rispetto alla luce, scintillano ma tu m/i guardi oppure se vado verso l’ombra ho freddo i tuoi occhi non sono visibili là dove tu m/i segui neanch’i/o sono vista da te, i/o sono muta in questo deserto svuotato dei tuoi diecimila occhi più nero del nero in cui i tuoi occhi m/i apparirebbero diecimila alla volta neri e brillanti, i/o sono sola fino a quando sento come dei rumori di campane dei rintocchi si dice, tremo, ho le vertigini, m/i risuona dentro, m/i sconvolge, è la musica degli occhi m/i dico, sia che si urtino dolcemente e con violenza sia che da soli producano questi suoni molteplici, cado bocconi davanti o dietro da questa parte o dall’altra, gesticolo disordinatamente il tempo di capire che i/o non posso sfuggire alla molteplicità dei tuoi sguardi, ovunque i/o sia tu m/i guardi m/ia ineffabile con i tuoi diecimila occhi.

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Presentazione – Lo scandalo della felicità

Cinquant’anni per uscire dal convento: alla Casa delle donne il libro sulla storia vera di Vandina, monacata da bambina

Articolo originariamente comparso su La Repubblica

Lunedì 17 aprile, alle ore 18, alla Casa delle donne in via della Lungara, la presentazione de Il segreto della felicità, l’ultimo libro di Pina Gandolfo. L’autrice dialogherà con Francesca Comencini, Maria Rosa Cutrufelli, Laura Delli Colli

Alla Casa delle donne di Roma, si parla de Lo scandalo della felicità. È l’ultimo libro pubblicato da Pina Mandolfo, giornalista, scrittrice, regista che nel volume edito da VandA edizioni racconta la storia vera, ambienta nella Palermo del 1600, di Anna Vandina, la donna che fu monacata da bambina e trascorse quasi 50 anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per sciogliersi (liberarsi) dal voto reliogioso. Alla fine Vandina ce la farà.

Ma la storia degli anni trascorsi nel chiuso di un convento si intreccia con i fatti più rilevanti della Palermo di epoca spagnola. Un racconto carico di tensione. 

“Di tutta la passione verso un personaggio femminile – dice Mandolfo, già autrice nel 1996 di Desiderio per Baldini&Castoldi – non comune, di cui ho voluto narrare la grandezza, descrivendone l’esemplarità di donna assoggettata ma non soggetta”.

Alla presentazione del libro, in programma lunedì 17 aprile alle 18 alla Casa delle donne di Roma, in via della Lungara, l’autrice dialogherà con Francesca ComenciniMaria Rosa CutrufelliLaura Delli ColliPatrizia D’Antona leggerà dei brani del libro. Coordina l’incontro Maria Palazzesi.

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L’omaggio a Monique Wittig – Bookpride

in un talk condotto da Carlotta Cossutta e Deborah Ardilli

Appunti per un corpo rivoluzionario 

15 / 4 / 2023, articolo su Global Project

Domenica 11 marzo il Book Pride di Milano ha fatto un omaggio alla scrittrice Monique Wittiga vent’anni dalla sua morte, con un talk organizzato da VandA Edizioni. Il focus del talk è stato quello di riscoprire la sua produzione politica ed il suo modo unico di concepire i codici linguistici. Per fare ciò le relatrici Carlotta Cossutta e Deborah Ardilli hanno utilizzato Il corpo lesbico, libro che la Wittig ha scritto nel 1973, ristampato quest’anno da VandA e curato dalla stessa Ardilli.

Il filo conduttore dell’incontro è stato il lesbismo come atto rivoluzionario, ovvero la trasformazione da oggetto passivo a soggetto attivo. Non si tratta semplicemente dell’orientamento sessuale ma di pratiche sociali che mettono in crisi l’ordine costituito, auto-elettosi come dogmatico e citando Wittig «Il lesbismo è molto più dell’omosessualità. Il lesbismo è molto più della sessualità. […] La “donna” ha senso solo nei sistemi di pensiero e nei sistemi economici sessuali e ne consegue che le lesbiche non sono “donne”».

Siamo abituatx ad una rappresentazione del femminile sotto l’attento occhio del male gaze, in cui il corpo viene erotizzato dal patriarcato e proprio qui si inserisce Wittig, scorporando il corpo dallo sguardo maschile e riportandolo a qualcosa che “non ha ancora nome”. Ardilli sottolinea più volte come il termine “corpo” sia polisemico, non esiste solo a livello fisico ma anche sociale, evacuato teoricamente dalla presenza maschile.

Il corpo lesbico e il corpus letterario lesbico nascono dalla distruzione del corpus dominante (eterosessuale) – che vede le donne come appropriate dagli uomini, sinonimo di patriarcato e legittimazione ideologica – e vogliono sconvolgere ed aggredire i pilastri della nostra percezione eterosessuale del mondo.

Le protagoniste nello scritto di Wittig non sono personaggi convenzionali ma due pronomi personali: io e tu, pensati in una relazione non gerarchica e permutabili. I due pronomi, nel corpo dei frammenti, subiscono una metamorfosi e vengono usati per reinterpretare, per esempio, storie del mondo classico. Ricorre infatti nei miti l’inganno che prelude uno stupro e Wittig cerca di cambiare il corso della storia utilizzando la poesia.

Cossutta e Ardilli entrano nel vivo del discorso sbattendo la porta senza preoccuparsi di offendere una qualche parte del pubblico presente e questo perché il centro del talk mirava a sovvertire il pensiero comune. D’altronde i temi affrontati da Wittig sono essi stessi rivoluzionari e il suo concetto di lesbismo è da intendersi come rivolta. Essere “donna”, per la scrittrice, significa essere appropriata dagli uomini; rompere il contratto sessuale significa di conseguenza cercare di mettere fine alla storia materiale e simbolica di appropriazione.

Wittig ne “Il corpo lesbico” supera il dimorfismo sessuale, il corpo si materializza e smaterializza in un loop senza fine, costruendo un sistema di segni ed espressivo che non ha precedenti. Questo libro rimane ad oggi uno dei più complessi ed oscuri della letteratura wittighiana e per quanto sia sempre stata una figura estremamente conversa nel panorama culturale europeo è però innegabile che il suo pensiero abbia procurato disturbo e che abbia creato un dibattito mai chiuso sulla concezione della libertà individuale.

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Recensione – Lo scandalo della felicità

Articolo di Ivana Margarese, originariamente comparso su Marel – voci dall’isola

“A volte una donna, dimenticata e taciuta, si “appella” a un’altra donna per prendere corpo e uscire dall’oblio. È un richiamo misterioso che, negli ultimi decenni, storiche, letterate, artiste hanno imparato a riconoscere e decifrare. Siamo una schiera che porta alla luce un incommensurabile patrimonio di vite celate per costruire, finalmente, una genealogia femminile: solo allora un millennio diverrà un giorno. Un giorno in cui altri e altre conosceranno le “sconosciute” nascoste negli scarti della storia”.
Pina Mandolfo racconta la storia di una donna coraggiosa, la principessa Anna Valdina, che nel 1600 a Palermo fu monacata a forza quasi bambina e trascorse cinquant’anni della sua vita nel tentativo di ottenere un processo per lo scioglimento dei voti, fino a riuscirci. La storia privata si intreccia con eventi e personaggi della Palermo spagnola, contrapponendo la logica del desiderio e della scelta del singolo agli intrecci di potere del tempo in un romanzo dal ritmo musicale e appassionato che permette al lettore di entrare dentro “una stanza tutta per sé”.


Lo scandalo della felicità
 è un titolo molto bello che ben rende la vicenda che racconti in questo romanzo, ovvero quella della principessa Anna Valdina, costretta a farsi monaca appena adolescente, contro la sua volontà. Come nasce l’esigenza di raccontare questa storia? Cosa ti ha condotto a Anna Valdina?

Camminando per le vie di Palermo mi sono imbattuta per caso in una mostra dell’Archivio di Stato  che metteva in mostra alcune pergamene usate per le professioni di voto. La stessa mostra pubblicizzava il carteggio di un processo per lo scioglimento dei voti richiesto da una donna, Anna Valdina, di illustri natali monacata a forza nel 1600. Essendo il mio progetto di vita quello di portare alla luce donne taciute dalla storia non potevo che raccogliere, quasi come un dovere, i dettagli di questa vicenda che mi incuriosì molto a tal punto che trascorsi dei mesi dentro l’archivio per decifrare e poi finalmente riuscire a leggere le testimonianze del processo.

“Scrivendo di Anna Valdina, immaginando la sua vita, sentivo la mia intrecciarsi alla sua, in quel prodigioso corpo a corpo che si stabilisce tra chi scrive e le sue creature. Il suo tempo è diventato il mio e quello di tante donne che, ieri come oggi, lottano per mettersi al mondo libere”. La protagonista, come te, è siciliana e ha vissuto in un secolo di sfarzi, inganni e ipocrisie ostile alla sua voglia di chiarezza e di espressione senza infingimenti. Ritengo che l’habitus siciliano si riveli spesso piuttosto teatrale o legato allo sguardo, al silenzioso movimento del guardare ed essere guardati più che all’azione palese e manifesta. Vorrei una tua considerazione.

Personalmente non credo che il “principio” di vanità sia peculiare della tradizione siciliana. La nobiltà delle corti europee ruotava intorno all’apparire. Dietro il quale nascondere intrighi, silenzi, trame. Forse oggi quel costume è superato ma la spavalda abitudine della maldicenza, del turpiloquio usati e abusati senza filtri non sono da meno. Restringendo il campo alla nostra terra direi che la teatralità del gesto e della parola forse è un costume antico ma anche dell’oggi. Lo vedo soprattutto nel parlare palermitano talvolta esagerato e triviale, tal’altra gradevole e così coinvolgente da stupire e del tutto peculiare la cui singolarità è difficile da imitare.

Tra i ringraziamenti c’è anche quello a Maria Nadotti, donna impegnata da sempre nella riflessione sulla condizione femminile. Qual è il rapporto che vi unisce?

Maria è una vecchia e cara amica. Ci siamo incontrate casualmente nel corso di un convegno della Società Italiana delle Storiche a Siena circa ventotto anni fa. Da allora la nostra amicizia è cresciuta condividendo eventi letterari, festival cinematografici e momenti di vita comune. La complicità fatta di ammirazione reciproca di condivisione di idee e progetti ha nutrito la nostra relazione.

“Angoscia, per mettere in scacco la morte e trascinare la vita, qui, sul luogo in cui una donna possa avanzarsi attraverso l’angoscia, sentirsi ascoltata da donne, nel luogo che non rigetta, sentirsi letta, accompagnata, nel luogo che fa corpo con il tuo corpo, al di là della Legge e della sua scena della castrazione, nello spazio già aperto dal movimento delle donne, quel gesto, quel pensiero che soli possono dare al testo poetico la sua portata politica”. All’inizio del romanzo riporti queste straordinarie parole di Hélène Cixous. E via via nel testo in apertura delle varie parti troviamo in epigrafe Adrienne Rich, Anna Maria Ortese, Virginia Woolf e altre che intrecciano la loro voce a quella di Anna e alla tua creando così una disseminazione di voci femminili che raccontano la storia di una difficile conquista della libertà per le donne. Non a caso in conclusione c’è un riferimento a Olympe de Gouges, morta per la sua rivendicazione di libertà.

Portare alla luce il soggetto femminile precipitato nelle scorie della storia o creare un legame con altre donne dell’oggi il cui vissuto è fonte di stima, di sana emulazione è la strada per la creazione di un corpo collettivo forte che potrebbe incidere nella crescita e nella messa al mondo della libertà delle donne. E’ la necessità di creare quella genealogia femminile imprevista dai canoni disciplinari. Impedita da una sudditanza creata dall’impianto potente della disparità di genere. Le donne citate nel mio libro oltre alle protagoniste sono le tante a cui dobbiamo appellarci e alle quali io mi appello insieme a tante altre più o meno note per colmare la distanza tra noi e la cultura che ci è stata data. Nutrimento simbolico per il nostro sesso. Anna in convento fa esperienza dell’invidia e del livore delle altre monache ma anche del sentimento di amicizia e solidarietà tra donne in maniera non dissimile a ciò che ciascuna di noi ha sperimentato nel corso della sua vita. Che ruolo ha l’amicizia nel sostenere le nostre idee?

Ritengo che le invidie e le gelosie tra donne siano un veleno letale che indebolisce il nostro sesso e ci toglie la capacità e la forza per un cambiamento radicale. Come già detto solo la solidarietà, l’ammirazione, la complicità è la strada per prendere in mano il mondo e donare pace e bellezza.

Che ruolo ha l’attesa in questo romanzo?

 “L’attesa” era il titolo che in un primo momento avevo scelto per il mio libro. L’attesa della protagonista durata oltre cinquant’anni mi è sembrata qualcosa di straordinario. Giorni, mesi, anni incredibilmente lunghi con un unico progetto la libertà. Un canto di libertà che difficilmenteNun essere umano riesce a portare avanti. Immaginare Anna Valdina nutrirsi di questo sentimento senza mai lasciarsi prendere dal desiderio di cedere è così vicino a qualcosa che è mio. La lotta che dagli anni ’70 ad oggi con tante altre donne mettiamo in atto contro la misoginia imperante, più o meno manifesta, che affligge il nostro mondo e che ci affligge. Ma dire “Lo scandalo della felicità” poi mi è sembrato poi più significativo perché lottare per la nostra libertà quando c’è qualcuno che ti impedisce fa scandalo esige gesti e parole scandalose. Così che l’attesa si fa scandalosa per la singolarità di gesti e parole che la nutrono.

Infine vorrei chiederti un parere sui cambiamenti che osservi in termini di diritto per le donne e su cosa ti auguri per il futuro.

    -Purtroppo la risposta è semplice e non certo positiva. Abbiamo raggiunto obiettivi impensabili anni fa. Ma l’equivoco dell’emancipazione ci rende ancora soggette e discriminate. Nel nostro privato sentiamo di aver raggiunto una autodeterminazione che troppo spesso non corrisponde al nostro stare al mondo. E se in molti paesi le donne sono ancora assoggettate, non credo che nel mondo occidentale si viva la prossimità di ruoli di vera parità pur nella nostra irriducibile differenza. Quella parità che ci consenta di essere guida del mondo. Un mondo che il patriarcato e il soggetto maschile, diciamolo pure, ci consegna giorno dopo giorno, sempre più alla deriva. Colpevole di discriminazioni, violenze, stupri, femminicidi, per non parlare di guerre e azioni rovinose per il pianeta. Lotteremo ancora, così come recitava uno slogan del femminismo glorioso degli anni ’70 “La lotta non è finita”. Quella lotta che ha regalato esito felice alla mia protagonista la assumo come simbolica per un esito simile per noi donne tutte che nell’oggi cerchiamo la strada scandalosa della vera democrazia: la felicità.

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Recensione – Il mio nome è Aoise

A cura di Emma Fenu, comparsa originariamente su Cultura al Femminile

Il mio nome è Aoise è un romanzo di Marta Correggia, magistrata, edito da Vanda nel 2022.

Di cosa tratta Il mio nome è Aoise?

Aoise raccoglie erbe medicamentose nella foresta.

Erabon riceve una scarica di pugni in faccia.

Aoise corre nelle piantagioni di cacao.

Erabon sale su barcone in balia delle onde.

Aoise va a scuola ed ha la grafia più bella della classe.

Erabon si tinge le palpebre di azzurro e la bocca di rosso.

Aoise si addormemta sullo stuoino ascoltando le fiabe del nonno.

Erabon è corpo da macello, penetrato per tutto in giorno.

Aioise è la parte pura di Erabon, quella che credeva di fare la parrucchiera in Italia, di innamorarsi e diventare madre, di studiare l’italiano ed apprendere sempre più cose.

Erabon è la schiava del sesso, solo carne a cui hanno tolto perfino il nome, l’identità e la sacralità del ventre.

Ci sarà un giorno in cui Aoise, nel suo grembo che è stato di tutti, lascerà spazio ad Erabon, la chiuderà nelle sue viscere, lasciando che il passato sia storia.

Perché leggere  Il mio nome è Aoise?

Il romanzo racconta una delle tante vicende che coinvolgono le prostitute nigeriane: ragazze giovani e ingenue che affrontano un viaggio estenuante, si sottopongono a rituali magici per cui, se scappano. gli spiriti dei morti si vendicheranno sulla famiglia, vengono violentate e picchiate e infinr costrette a prostituirsi tutto il giorno fino a riscattare la liberta per la somma di 50.000 euro, una cifra enorme considerando che da sole sostengono le piccole spese e inviano denaro in patria.

Un libro crudo, straziante e poetico sul corpo delle donne, sull’uso di ciò che ancora viene considerato oggetto di piacere e possesso, e sulla rinascita. Da leggere.

Sinossi

Una volta arrivata a Castel Volturno, ad Aoise non rimane nulla, neppure il suo nome.

Lei e le sisters, Joy, Friday, e Prudence, hanno già giurato il Ju Ju e attraverso i riti sciamanici, le ragazze nigeriane restano vincolate per anni al loro destino di prostituzione.

Se disobbediscono, gli spiriti se la prendono con le loro famiglie.

E poi senza soldi, dove possono andare?

All’interno della Connection House, Aloise vive esperienze di estrema violenza. Ma in quell’inferno in terra si consumano anche sentimenti di amicizia, di complicità di protezione fra donne.

Donne come lei, ognuna con un nome, una faccia e una storia. Una storia vera, un romanzo sull’orrore della prostituzione e dello sfruttamento umano, ma anche sulla forza dell’amicizia e dell’amore, sul coraggio e su quella resistenza nutrita dalla speranza che possono portare anche le più disgraziate ragazze di Benin City a costruirsi una vita nuova, lontano dalla fame e dallo sfruttamento.