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12 case, tanti pianeti. L’affido familiare in giocose storie, di Agnese Bizzarri

12 case, tanti pianeti affronta un tema importante: l’affidamento. Lo fa attraverso i disegni di Margherita Braga e le storie di alcuni piccoli amici che vanno incontro, proprio come accade ai bambini, a diversi cambiamenti.

Non tutti siamo uguali, qual è allora il segreto per affidarsi? Forse si tratta solo di imparare a guardare con nuovi occhi o con quelli di un camaleonte e allora una o due case possano sembrare anche poche e quella dell’affidamento può diventare un’esperienza bellissima. 

Trattate in tutta la loro complessità queste storie raccontano gli aspetti positivi e negativi legati al cambiar casa e al conoscere una nuova famiglia.

Con una cura e un’attenzione particolare Agnese Bizzarri e Margherita Braga confezionano un delizioso libricino in grado di far riflettere grandi e piccini.

Leggine un estratto…

“Sono Ibic, e vivo in 12 case.
“Cosa? 12 case!!! Ma come è possibile? Chi porta la spesa? Ma in tutte ci sono le scale? Ma per cambiarti la canottiera fai 12 valigie? E i quaderni di scuola li tieni in tutte le case?”


Ora cerco di chiarirti meglio. Qui nello spazio tutto è tanto: il cielo, le stelle, le nebulose, i pianeti, i buchi neri, gli amici, i genitori, le case…
Appunto, torniamo alle case. Vediamo. Sono 12:”

“nella prima vivono i miei genitori, quelli del primo pianeta,
nella seconda casa vivono i miei genitori, quelli del secondo pianeta,
nella terza gli amici del primo pianeta,
nella quarta gli amici degli amici del primo pianeta,
nella quinta gli amici degli amici del secondo pianeta,
nella sesta i nonni del primo pianeta,
nella settima i nonni del secondo pianeta,
nell’ottava gli zii del primo pianeta,
nella nona gli zii del secondo pianeta,
nella decima i cugini del primo pianeta,
nell’undicesima i cugini del secondo pianeta,
nella dodicesima la tata del primo pianeta.
Si può dire che non mi sono mai annoiato.
Scusa, ti ho interrotto. Mi stavi dicendo che tra poco avrai due case, che è complicato quando porti un giocattolo nella prima casa e magari nella seconda hai scordato il quaderno di matematica.

Due sole case? Mi spiace moltissimo! Troppo poche. Se te ne servono altre, dieci le metto io. Di più non posso.”

Ti è piaciuto l’estratto? Scopri il libro: 12 case, tante pianeti, di Agnese Bizzarri

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Maschiaccio. Un’autobiografia a fumetti, di Liz Prince

«Liz Prince, maschiaccio, anni 4.

Atteggiamento generale: felice come una pasqua a meno che non debba indossare una gonna».

Così inizia la graphic novel Maschiaccio di Liz Prince, nella quale l’autrice attraverso un suo fumettistico alter ego di 31 anni rilegge con fare aneddotico alcuni momenti della sua vita.

Che significa se a una bambina non piacciono i vestiti, il rosa o giocare con le bambole insieme alle amichette? È automaticamente un maschiaccio? 

Con un’ironia tagliente Liz Prince attraverso il suo fumetto ci costringe a riflettere su come “banali” momenti quotidiani possano reiterare le costrizioni di genere e di come del genere si possano involontariamente far propri gli stereotipi. 

Leggine un estratto…

Ti è piaciuto questo estratto? Scopri il libro: Maschiaccio. Un’autobiografia a fumetti, di Liz Prince

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Giusi Norcia con “A proposito di Elena” rianima il dramma antico

Su Avvenire, il giornalista Giuseppe Matarazzo ha inserito un bel riferimento a “A proposito di Elena“, il nuovo libro di Giuseppina Norcia, in un articolo dedicato interamente alle “voci sole” del dramma antico.

L’articolo di Giuseppe Matarazzo su Avvenire

Eccone uno stralcio:

“Come la scrittrice e grecista, Giuseppina Norcia, insegnante di Drammaturgia antica nella stessa Accademia dell’Inda. «Mythos significa racconto – esordisce Norcia –. Per esistere un mito ha bisogno di essere narrato, oggi come allora, altrimenti si spegne, si fossilizza. La sua capacità di essere mappa dell’anima tesse e insieme rinnova il legame tra le nostre origini e la contemporaneità; ci appartiene non in quanto attuale ma perché universale, in un respiro più ampio che unisce le tre dimensioni del Tempo,
passato presente e futuro. Chi racconta un mito “entra nella storia”, fa vibrare il suono delle proprie domande, pone le urgenze del suo tempo». Elena è il mito che lo scorso anno ha incantato il pubblico di Siracusa, interpretata da Laura Marinoni per la regia di Davide Livermore. Ci siamo lasciati lì. Dove Elena aleggia ancora. E proprio alla regina di Sparta Giuseppina Norcia ha dedicato il suo ultimo libro, “A proposito di Elena
(VandA edizioni, pagine 120, euro 14,00) dove mescola meravigliosamente
i generi, unendo il saggio, la narrazione, il teatro. Dal mito di ieri alla “Elena 2.0” di oggi. «Alcuni miti o personaggi possono rimanere quasi sopiti, per poi risvegliarsi, attivarsi quando risuonano con un dato tempo. Credo che in questo momento un personaggio come Elena sia interprete di temi urgenti, dall’uso dei corpi delle donne alle cause (o ai pretesti…) dei conflitti, dal rapporto tra verità e mistificazione al potere tremendo o salvifico che la bellezza ha sul cuore umano. Quale bellezza, dunque, salverà il mondo?». Questione senza tempo. Di drammi che aspettano di tornare in scena.”

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“A proposito di Elena” – intervista a Giusi Norcia su letture.org

Su letture.org è uscita una bella intervista a Giusi Norcia per la pubblicazione del suo nuovo libro “A proposito di Elena“.

Eccone uno stralcio:

Dott.ssa Giuseppina Norcia, Lei è autrice del libro A proposito di Elena edito da VandA: cosa sappiamo di Elena di Sparta?
Il Mito greco è per me, da sempre, fonte di ispirazione e materia viva, da narrare e plasmare, per la sua capacità di essere mappa dell’anima e nel contempo – come diceva Kerényi – un tessuto senza orli, che non ha mai fine. I grandi personaggi del mito – pensiamo a Odisseo e Penelope, Agamennone ed Ettore, Achille, Elena… – popolano la nostra immaginazione attraverso i racconti dell’infanzia, le letture scolastiche, la cinematografia, oltre che, naturalmente, le letture personali o gli studi specialistici. Il loro essere patrimonio comune e condiviso nasconde tuttavia un’insidia, alimenta l’illusione di conoscerli, schiacciandoli così nel cliché che li semplifica: l’astuzia e la fedele attesa, il potere e la lealtà, la forza, la bellezza… Credo che accostarsi a loro per narrarne ancora la storia richieda uno sguardo rinnovato, la capacità di ascoltarli come se fosse la prima volta: allora, se poniamo altre domande, il Mito risponderà diversamente rigenerandosi con noi. Cosa sappiamo di Elena? – è stata proprio la prima domanda che mi sono posta, a proposito della regina di Sparta. Sul suo conto si dicono molte cose, storie che si intrecciano e a tratti si contraddicono. Sappiamo che è figlia di Tindaro e Leda, sovrani di Sparta, ma che in realtà è di stirpe divina, generata da Zeus che si unisce in forma di cigno alla bellissima madre. Secondo un’altra versione della storia, Elena sarebbe figlia di Nemesi, divinità legata all’equilibrio del mondo e alla giustizia redistributrice. Così, lungo il sentiero del mito, necessità e bellezza si congiungono. Lei è la sposa di Menelao e l’amata di Paride con cui fugge a Troia, eppure altrove narrarono di una nuvola d’aria, di un eidolon mandato nella rocca di Ilio a seminare morte e inganni, mentre la vera Elena sarebbe stata condotta in Egitto. Due uomini, due città, due Elene complicano la storia specchiandosi gli uni nelle altre. Così, il pensiero dominante in principio era che di Elena non si sapesse niente. Il grande paradosso di Elena, la bella per antonomasia, è che il suo aspetto non sia mai descritto: «Non sappiamo se i suoi capelli siano lisci come la seta o indomabili e crespi, del colore del grano o scuri come la notte. Ditemi, ha qualcosa che la rende unica, qualche amabile imperfezione? Un neo sul labbro, una lieve fessura tra i denti? Come cammina Elena? Ama muovere le mani al ritmo delle sue parole? Nessuno lo sa. Di Elena non si sa niente» “

Per leggere l’intera intervista clicca qui.

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Prostituzione: un lavoro come un altro?

Su Volerelaluna è uscito un articolo di Valentina Pazé a proposito della problematica legata alla denuncia di abbandono dei e delle sex worker durante l’emergenza sanitaria e il lockdown del Paese, che presenta bene la posizione di Luciana Tavernini, Silvia Niccolai, Daniela Danna e Grazia Villa, autrici di Né sesso né lavoro.

Eccone un estratto:

“Tra i settori economici che sono stati certamente penalizzati dal lockdown c’è anche il mercato del sesso. Lo ricorda, su il manifesto del 12 maggio, Shendi Veli (https://ilmanifesto.it/lemergenza-umanitaria-del-lavoro-sessuale/) , denunciando l’abbandono in cui sono stati lasciati i e le sex worker (di cui parlerò d’ora in poi al femminile, data la netta prevalenza delle donne nel settore) durante la pandemia. E riproponendo le classiche rivendicazioni dei movimenti per la “decriminalizzazione”: dal riconoscimento della prostituzione come attività lavorativa in piena regola alla legalizzazione delle attività collaterali, come il favoreggiamento, che nel nostro paese è un reato che viene talvolta contestato anche a chi affitta la casa a una prostituta o abita con lei (secondo un’interpretazione peraltro scorretta della legge Merlin, criticata da Silvia Niccolai in AA.VV., Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, Milano 2019, pp70-117).

Intervenendo su 27esima ora del 22 maggio (https://27esimaora.corriere.it/20_maggio_22/prostituzione-lavoro-o-sfruttamento-b8170e3c-9bd6-11ea-aab2-c1d41bfb67c5.shtml), Luciana Tavernini mostra l’altra faccia della medaglia: «Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincere che tutto, perfino l’accesso all’interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzare il prezzo. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro». E dunque, anziché chiedere di legalizzare le attività di coloro che guadagnano dalla prostituzione altrui, bisognerebbe attuare quella parte della legge Merlin che prevede formazione e inserimento lavorativo per le donne che desiderano cambiare vita. Uscendo da un “giro” in cui la stragrande maggioranza di loro è finita per bisogno, e talvolta per vera e propria costrizione (le straniere vittime della tratta), non certo per scelta.

Il contrasto tra queste due posizioni sembra irriducibile e riguarda la stessa scelta delle parole: prostituzione o sex work? “Stupro a pagamento” (come è intitolato il bel volume autobiografico di Rachel Moran) o «un lavoro come un altro», di cui si tratterebbe di garantire l’esercizio in condizioni di legalità e sicurezza? Il tema è di quelli che dividono, anche a sinistra, anche all’interno del femminismo e delle associazioni per la difesa dei diritti umani. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti, data la molteplicità delle questioni in gioco: dalla visione del corpo, della sessualità, delle relazioni tra i sessi alle nostre idee sulla libertà, i diritti, il rapporto tra Stato e mercato.”

Per leggere tutto l’articolo clicca qui.

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Lettera alla redazione. Contro il sex work non contro le sex workers – il manifesto

Il dibattito . Riceviamo e pubblichiamo un ulteriore contributo sulla questione del sex work. La discussione è emersa in seguito a un reportage pubblicato su il manifesto “L’emergenza umanitaria del lavoro sessuale”

Cara Redazione,

invece di dare l’adeguato spazio alle esperienze, relazioni, riflessioni del movimento neo abolizionista purtroppo in alcuni articoli da voi pubblicati se ne travisano le posizioni.

Soprattutto io e altre donne ma anche degli uomini che fanno parte del movimento neo abolizionista siamo contro la prostituzione, non contro chi viene prostituita. Abbiamo relazioni e sosteniamo il movimento delle sopravvissute alla prostituzione, come ad esempio Rachel Moran e SPACE INTERNATIONAL.

Conosciamo direttamente donne di origine straniera che sono state portate in Italia con la tratta e sappiamo i problemi per liberarsene e la gioia quando vi riescono. Conosciamo le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza e anche di questo parlano.

Riteniamo la legge Merlin un grande passo di civiltà e la difendiamo contro le cattive interpretazioni, come argomenta la costituzionalista Silvia Niccolai in Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione (VandA, 2019). Lottiamo contro le sue revisioni che, fingendosi libertarie, rendono libero lo sfruttamento della prostituzione altrui, come risulta dall’attento esame dell’avvocata Grazia Villa nello stesso libro

Siamo contro il sex work.

Per sesso io ho sempre inteso poter scegliere il partner con cui stare e come farlo per avere un piacere reciproco, altrimenti è stupro a pagamento, titolo del libro di Rachel Moran (Round Robin, 2017). Mi sembrava che fosse una posizione condivisa nella sinistra e con i movimenti omosessuali e trans.

Non si rende dignitoso lo sfruttamento chiamandolo lavoro. È un vecchio trucco. Anche gli schiavisti dicevano che sarebbe bastato chiamare gli schiavi assistenti di piantagione per far cessare le lotte abolizioniste. Ma allora il movimento operaio inglese e le femministe non ci sono cascati. Ho lottato e lotto per un’idea di lavoro dove si pongano dei limiti al mercato, ad esempio che l’interno del mio corpo non sia vendibile. E che nessuna sia costretta a farlo per potersi mantenere. Uso il femminile perché non mi piace nascondere che la stragrande maggioranza è donna.

I modi e il senso del mio essere donna è una ricerca libera e quotidiana, rafforzata da donne e uomini che scelgo e stimo. Non mi hanno mai aiutato i vari apprezzamenti di un maschio qualsiasi su pezzi del mio corpo e neppure i fischi, come fossi un cane, oggi sempre più in disuso.

Mi documento su quello che succede nei paesi dove la regolamentazione come in Germania e la decriminalizzazione come in Nuova Zelanda hanno permesso guadagni all’industria prostitutiva, rendendo più povere le prostituite Vedi ad esempio, Julie Bindel, Il mito pretty woman (Vanda, 2019).

Luciana Tavernini della Libreria delle Donne di Milano

Edizione del Manifesto del 26.05.2020

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“A proposito di Elena”, Giuseppina Norcia

Fascino. Tradimento. Guerra. “Una guerra per una donna!”. Sono questi i primi pensieri che suscita Elena di Sparta quando il suo Mito viene evocato.

Lei è la donna dalla bellezza “imperdonabile”, desiderata (e temuta) dagli uomini, disprezzata dalle donne quando, “vestali del patriarcato” la additano come causa del Conflitto e strumento di perdizione, in quel gioco di specchi che strategicamente devia l’attenzione dai soggetti all’oggetto del desiderio.



Così, ripercorrendo la Sua storia con uno sguardo rinnovato emergono altre verità, temi antichissimi e urgenti nel nostro presente. L’uso e abuso del corpo delle donne, la fabbrica della propaganda bellica, la bellezza da possedere a tutti i costi o asservire al Potere come strumento di seduzione.

C’è un’ Elena-Lolita rapita da Teseo che vuole “conoscerla tutta”, a soli dodici anni… In quegli istanti sento ancora la mascella di Teseo costringere la mia, il cigolio del carro in fuga lungo strade di polvere, il letto in cui il mio cuore corse per la prima volta incontro all’ombra.

C’è un’’Elena assediata chiusa nella rocca, non così diversa da Briseide, la ragazza su cui si scatena la contesa tra Achille e Agamennone, o dalle Troiane che saranno deportate dai vincitori. Donne ridotte ad essere «il premio più ambito, che suggella lo status nella gerarchia dei guerrieri, belle da esibire, esaltanti da possedere, con quei corpi da espugnare come fossero città. Così il sesso diviene un’espansione del potere e della guerra.»

C’è un’Elena che “merita” di essere molestata perché in fondo le piace: Dimmi, presa la giovane [Elena], non ve la siete ripassata a turno, visto che a lei piace avere tanti amanti? dicono a Odisseo i Satiri che, nel Ciclope di Euripide, sono al servizio di Polifemo nel suo antro, «mettendo in scena la fantasia punitiva e dominatrice del branco verso la donna accusata d’essere di facili costumi. Di essersela cercata».

Afrodite può portare molti doni o trasformarsi in una presenza oscura, quando la donna è costretta a “offrire” l’accesso al proprio corpo. Accade nel III libro dell’Iliade, dove la presunta femme fatale portatrice di guerra è, o almeno è anche, una donna costretta a concedersi a Paride da una “dea maîtresse” che minaccia di punirla; accade alle donne costrette a vendersi in quello stupro a pagamento che, per la violenza ad esso connaturata, smentisce la definizione di sex workers.

Eppure, nelle pieghe del Mito esiste un’altra Elena, una donna “divina” e potente, in grado di rigenerarsi e proteggere, creatura legata alle forze originarie della Vita e a quel tempio d’alberi che è la Natura. È questo il momento di richiamarla, questa Elena in esilio da troppo tempo e viva dentro ognuna, dentro ognuno di noi. È tempo, finalmente, di “guardarla”. 
«Come un uovo si dischiude il mio ventre gravido di nuove parole… “contemplazione, dignità, amore”.
Ascoltate, come un vento, la mia voce. Sono luna, albero, sorgente.
Deponete al suolo le armi. Ascoltate. Li sentite i battiti?
È la Vita che rinasce.»

Leggine un estratto…

Giovane donna E l’hai più vista?

Donna Chi?

Giovane donna Elena.

Donna Da molto tempo nessuno la vede più. Scomparsa. Si dice persino che non sia mai esistita.

Giovane donna La amavano tutti.

Donna Amavano?

Giovane donna Ognuno di loro l’avrebbe desiderata per sé, così andarono a prendersela.

Donna Povera Elena, non la invidio. 

Giovane donna E perché mai? La bellezza è un dono, la tratti come fosse una malattia!

Donna Furono tutti fin troppo pronti ad impugnare lance e scudi per lei, contro di lei. 

Giovane donna Qualcuno ti ha mai detto come era fatta?

Donna Nessuno lo sa, perché nessuno l’ha mai guardata: bisognava adorarla come una dea o possederla come una femmina. 

Credi ancora che la amassero? 

Giovane donna Fino ad esserne terrorizzati…

…Lei appare sempre con un fruscio di vesti leggere e una luminescenza che irretisce.

Gli occhi le si posano addosso, rapiti. Allora, il tempo si ferma sull’orlo dell’abisso e sbiadisce la memoria di ciò che era stato – tangibile, reale – fino a un istante prima. 

È la donna dalla bellezza insostenibile, eppure non è mai descritta.

Non sappiamo se i suoi capelli siano lisci come la seta o indomabili e crespi, del colore del grano o scuri come la notte.

Ditemi, ha qualcosa che la rende unica, qualche amabile imperfezione? Un neo sul labbro, una lieve fessura tra i denti? Come cammina Elena? Ama muovere le mani al ritmo delle sue parole? Nessuno lo sa. 

Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla ma non l’abbiamo mai guardata. È questo il suo paradosso, o forse l’indizio che ci lascia, agli albori di un viaggio nel suo mondo misterioso.

Di lei si conosce, però, l’effetto che ha sugli altri.

Incantamento. L’indicibile desiderio di possederla per sempre. Il piacere frammisto a un terribile senso di libertà. La paura, anche. 

Lei è la grande disvelatrice, lo specchio dei desideri, ma gli esseri umani non sono sempre all’altezza della verità. Come muri mal costruiti, si sfarinano al suo incedere gli intonaci dei vincoli prestabiliti, delle convenzioni sociali, delle apparenze.

Bisogna tenerla lontana. Così, sulle mura di Troia i vecchi la guardano e parlano stridendo come cicale sugli alberi, con voce sottile: “Somiglia alle immortali terribilmente”, dicono. “E se è così bella è meglio che se ne vada”.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: “A proposito di Elena” di Giuseppina Norcia

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Le difensore dei diritti delle donne incarcerate da due anni – Michela Fontana

Michela Fontana

28 maggio 2020

Sono passati poco più di due anni da quando, il 15 maggio 2018, tredici attiviste saudite sono state incarcerate per le loro pacifiche lotte per il diritto alla guida dell’automobile (concesso dal re alle donne nel giugno successivo) e per la modifica della norma sul guardiano, che in Arabia Saudita ha potere assoluto sulla donna di cui è tutore.  Cinque di loro sono ancora in carcere , mentre otto sono state liberate, pur rimanendo tutte  in attesa di processo. Alcune di loro sono state torturate e sottoposte ad abusi. Lo ricorda un comunicato di Amnesty International  del 15 maggio scorso, dove l’organizzazione per i diritti umani chiede la scarcerazione delle attiviste e degli altri attivisti  che sono stati imprigionati nello stesso periodo. 

Durante la mia permanenza in Arabia Saudita, dal 2010 al 2013 ho  incontrato e intervistato tre delle attiviste incarcerate,  Eman al- Nafjan,  Aziza al- Yousef, Hatoon al-Fassi. Racconto le loro storie insieme a quelle di molte altre donne di diverse  estrazioni sociali ed esperienze di vita, nel mio libro Nonostante il velo ( VandA epubishing-Morellini ), premio Femminile Plurale di Allumiere 2018, attualmente in libreria nella versione riveduta.

Le loro testimonianze appassionate, a volte sconvolgenti,  fanno luce dall’interno su una società come quella saudita che considera le donne proprietà degli uomini e le priva di molti diritti elementari. Eman al-Nafjan è stata mia amica, preziosa  testimone  e compagna di viaggio  durante la nostra spedizione nella parte più conservatrice del paese dove anch’io dovevo girare con il viso interamente coperto. Poco dopo la mia partenza nel 2013, due delle donne che ho intervistato Roua e Omaima, sono fuggite dal paese, la prima ha trovato asilo politico in Canada la seconda in Italia,  che ha lasciato da poco per l’Irlanda.

Anche se a partire  dal 2018, l’erede al trono Muhammed Bin Salman, ha alleggerito alcuni divieti sociali, limitando tra l’altro  il potere della polizia religiosa  e ha concesso alle donne alcune libertà prima impensabili, come la possibilità di andare allo stadio con la famiglia e di viaggiare  senza il permesso del guardiano, l’Arabia Saudita rimane uno stato di polizia dove gli attivisti rischiano l’incarcerazione a vita o  la stessa vita, come il giornalista Jamal Khashoggi, barbaramente assassinato nel consolato saudita a Istanbul nel 2018. La strada per una vera emancipazione delle donne è ancora lunga e difficile.

Acquistate “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita” di Michela Fontana qui.
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Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, di Aph Ko e Syl Ko

“Dimenticate ciò che pensate di sapere sul femminismo nero, l’antirazzismo e la liberazione animale. Venite a intraprendere il viaggio insieme a queste due sorelle rivoluzionarie per cambiare il futuro del femminismo, della giustizia razziale, dell’etica e del veganismo”.

Cit. A. Breeze Harper

Nato dal lavoro sul web di due sorelle, “Afro-ismo” è un libro che mette a tema e intreccia animalità, animalizzazione, razzismo e supremazia bianca. 

Le autrici,  Aph e Syl Ko, mescolano gli elementi provenienti dalla cultura pop come i video, i blog e i social network e i concetti degli animal studies, degli studi critici sulla razza, sui neri e sul femminismo con l’intento di mostrare come sia necessario decostruire la relazione che gli umani impostano con gli animali e di come ciò sia un passo fondamentale per iniziare a mettere in discussione tutto ciò che crediamo dato e immaginare nuove vie.

Leggine un estratto…

“Avete mai incontrato qualcuno che mangia carne e vi bombarda
con innumerevoli domande basate su situazioni improbabili
solo per aver messo in discussione le sue abitudini alimentari?
Questa persona solitamente afferma: “Ma cosa faremmo
di tutti gli animali negli allevamenti se questi ultimi
non esistessero più? Dovremmo liberarli tutti in una volta?
Non sarebbe un problema?”. Oppure, avete mai parlato con
qualcuno della fine del sistema carcerario, e questa persona a
un certo punto dice: “Se dovessimo chiudere le prigioni, che
dovremmo fare con tutti i prigionieri, lasciarli semplicemente
uscire?”. Benché queste domande siano frustranti e a volte
prevedibili, mostrano fino a che punto le persone siano colonizzate
dal sistema vigente, tanto da non riuscire nemmeno a
immaginare nuove possibilità. Non sono in grado di figurarsi
un sistema diverso da quello che è stato loro imposto.
Trovarsi in un contesto nuovo e caotico fa parte dell’attivismo,
ed è ciò che ci permette di varcare la soglia di un territorio
concettuale inedito. Quando si abbandonano le più banali
convinzioni, può succedere di non sapere esattamente cosa
fare, ed è questa la situazione in cui dovrebbero trovarsi
molti più attivisti. La confusione è di solito un sintomo della
decolonizzazione del sé dal sistema vigente. Le risposte non ti
vengono semplicemente offerte, dal momento che d’ora in poi
sei costretto a pensare in maniera critica. Devi creare nuovi

schemi e immaginare nuovi modi di interagire con le persone
e di fare le cose. Spesso le persone colonizzate dal sistema contemporaneo
pongono le domande in modo paternalistico,
perché non vogliono che i cambiamenti avvengano, dal momento
che la maggior parte delle persone vive all’interno della
propria comfort zone. Il cambiamento è una minaccia.
Ricordo che una volta dissi a un professore sessista della
mia università che ero femminista. Avevamo appena terminato
una riunione e stavamo uscendo dall’edificio. Mentre camminavamo
verso l’uscita, mi chiese: “So che sei femminista e
non voglio offenderti, posso aprirti la porta? Consenti agli
uomini che ti aprano la porta o ti offendi?”.
Ovviamente, me lo stava chiedendo in tono paternalistico
per deridere le mie convinzioni politiche. Tuttavia, le sue domande
mi hanno fatto capire come fosse lui quello ansioso,
perché non voleva affrontare la sua confusione sulle interazioni
di genere. Era lui a essere ansioso e a non saper cosa fare
quando si trattava di aprire la porta, non io. Del resto, sono
certa che da quando le donne hanno conquistato maggiori diritti
negli Stati Uniti, gli uomini condizionati a considerarci
degli esseri sciocchi hanno reagito negativamente, sottolineando
quanto fossero confusi. Devo pagare la cena? Comprare
fiori? Aprire la porta?
Credo che la confusione sia positiva.
Il discorso sulla cavalleria, con la gente che continua a
chiedere se “la cavalleria è morta” o se dovrebbe tornare di
moda, non riappare per caso: è il contraccolpo all’avanzata
femminista. La mia generazione, quella dei cosiddetti millennial,
prova particolare nostalgia per la galanteria perché evidentemente
era “molto più facile allora”. Era più facile vivere
in un periodo in cui tali comportamenti potevano essere espliciti,
perché non dovevi metterli in discussione: la società ti diceva
cosa fare, come vestirti, come comportarti, e se seguivi il
copione ricevevi la ricompensa.

Molti uomini sciovinisti, aggrappati alle norme di genere
del passato, quando incontrano le donne danno al femminismo
la colpa di aver contribuito alla loro confusione. Sono
convinti che le interazioni di genere siano molto più stressanti
di prima. Tuttavia, non sapere come parlare o come comportarsi
con le donne è qualcosa di prezioso. Significa che non si
guarda più alle donne dal punto di vista univoco che ci vuole
tutte facilmente impressionate da esibizioni di finto rispetto
(aprirle la porta, ma al contempo non prendere sul serio ciò
che dice). Confusione significa che si è entrati in un nuovo
territorio e quel che bisogna fare è pensare. Non sapere cosa
fare perché i tuoi riferimenti stanno cambiando funge da catalizzatore:
dà vita a momenti in cui il tuo sé colonizzato si trova
a confrontarsi, o scontrarsi, con il tuo sé “decolonizzante”.
L’unico modo in cui possiamo ripartire da zero è darci la
possibilità di essere confusi. Gli spazi dell’attivismo sono in
fermento proprio perché le persone non vogliono accogliere
questa confusione necessaria. È divertente buttare lì la parola
“intersezionalità”, ma le persone in realtà hanno paura di creare
connessioni tra i diversi movimenti, perché ciò implicherebbe
creare nuovi schemi per il proprio attivismo. Ed è difficile,
specialmente se l’attivismo che pratichi è diventato la tua
identità.
L’attivismo è fatto quasi sempre di mantra e copioni già
scritti, non incoraggia il pensiero critico o le domande. In
realtà mi sono accorta che, quando ci impegniamo con altre
persone nell’attivismo, spesso si creano situazioni piuttosto
violente, perché riproducono gli stessi problemi contro i quali
si sta lottando. Persino i movimenti di giustizia sociale che si
aggrappano dogmaticamente all’intersezionalità sono spazi relativamente
acritici in cui le persone cercano una struttura da
seguire, non una struttura utile alla riflessione critica. Quando
pensi criticamente, non ti aggrappi necessariamente a un modello
o a un modo specifico di vedere il mondo: cambi continuamente
le prospettive, le dislochi.

Come ho scritto nel terzo capitolo, i vegan bianchi hanno
attaccato il mio articolo sui 100 Vegani Neri perché ritenevano
che spostare l’attenzione sulla razza e sull’animalità nell’ambito
dei diritti animali avrebbe distratto le persone dall’aiutare
“gli animali”. Sebbene molte persone fossero arrabbiate,
alcune sembravano davvero spaventate dal fatto che il
loro movimento stesse cambiando, al punto da affermare che
chi parla di razza e animalità (come me) appartiene a una “setta”
(non sto scherzando). No, non faccio parte di una setta. In
effetti, se non si riesce a interpretare le mie azioni o teorie come
qualcosa di diverso da un culto, allora forse si fa effettivamente
parte di un gruppo con una visione del mondo rigida.
Dato che esiste uno schema già consolidato su come impegnarsi
nell’attivismo per i diritti degli animali, alcune persone
si spaventano quando vedono messe in pratica modalità differenti.
Sono terrorizzate dai tentativi, compiuti da alcuni attivisti,
di mostrare come lo specismo si colleghi al razzismo e al
sessismo, perché “solitamente” non si fa così. Ho incontrato la
stessa ansia nei movimenti antirazzisti tradizionali. Quando
sollevo le questioni relative ad animalità e razza, spesso mi
trovo di fronte una resistenza immediata da parte di gente nera
che non crede che lo specismo abbia qualcosa a che fare con
il razzismo. In effetti, vengo umiliata sia negli spazi fisici sia in
quelli virtuali che hanno già un modo specifico di condurre
l’attivismo antirazzista, in quanto i modi di pensare che li caratterizzano
non sono progettati per interpretare la teoria che
politicizza l’animalità e la supremazia bianca.
Comprendo intimamente quanto possa essere spaventoso
trovarsi esposti a una teoria che trasforma radicalmente il tuo
attivismo. Di recente, mentre mi stavo preparando per una
presentazione e avevo quasi completato gli appunti, mi è capitato
di leggere alcuni articoli di Tommy Curry, docente di filosofia
africana, che sfidano il modo in cui le persone parlano e teorizzano gli uomini di colore e la violenza razziale.

Curry afferma che gli uomini di colore non sperimentano soltanto il
razzismo, ma simultaneamente anche una forma di razzismo
sessuale, considerato che sono regolarmente molestati sessualmente
e violentati dagli agenti di polizia (cosa che i media
mainstream tendono a non menzionare nelle proprie analisi
del razzismo e della violenza della polizia) e sono sottoposti a
traumi sessuali dai tempi della schiavitù. Curry sottolinea in
maniera brillante che, quando inquadriamo la violenza di genere
come un fenomeno che ruota attorno alle donne (in particolare
alle donne bianche), cancelliamo il modo in cui le
donne bianche hanno storicamente aggredito gli uomini di
colore e continuano a commettere violenza sessuale sui corpi
degli uomini neri. Questi articoli hanno frantumato le strutture
intersezionali che avevo usato nel mio attivismo, e ricordo
di essere andata nel panico: ero d’accordo con l’autore e,
proprio per questo, ritenevo che tutta la mia presentazione
non fosse valida perché mi rendevo conto delle mie innumerevoli
lacune concettuali. Tuttavia, ho integrato le sue teorie
perché ero desiderosa di rendere note queste idee provocatorie
e rivoluzionarie a chi mi avrebbe ascoltato.

Sfortunatamente, molti attivisti non permettono che le
teorie e le pratiche a loro care vengano alterate in maniera così
radicale. Alcuni preferirebbero rimanere in un sistema oppressivo
pur di conservare una qualche parvenza di potere, piuttosto
che affrontare nuove idee e nuove voci che destabilizzano
il loro bisogno di controllo.
Nel marzo 2015 sono stata a una conferenza di Angela
Davis nel corso di un ciclo di studi sulle donne. La parte del
suo incredibile discorso in cui mi sono maggiormente ritrovata
è stata l’analisi di come gli attivisti spesso riproducano comportamenti
oppressivi, non permettendo a sé stessi di cambiare
i propri punti di vista. In sostanza, Davis affermava che tutti
noi usiamo schemi nel nostro attivismo. Quando qualcuno
ci offre nuove informazioni capaci di turbare le nostre strutture,
molti di noi si aggrappano ancora più convintamente ai
propri schemi e punti di vista, perché abbiamo paura di cambiare.
Apparentemente non c’è niente di peggio per un attivista
che essere introdotto a una nuova prospettiva o una nuova
teoria capace di sfidare il modo in cui ha fatto le cose fino a
quel momento. Piuttosto che agire come se quella prospettiva
non esistesse, Davis ha suggerito di immergervisi e permetterci
di confrontarci con essa. Il riflesso di girarci dall’altra parte,
che caratterizza anche gli attivisti, è un prodotto della nostra
colonizzazione.
Dobbiamo incoraggiare le persone a mettere in discussione
i propri comportamenti e favorire la confusione, che è una
delle posizioni più rivoluzionarie in cui trovarsi, perché in tal
modo non si è vincolati da comportamenti e norme oppressive.
In questo spazio possiamo tutti essere architetti concettuali.
Le domande smantellano i copioni culturali e la confusione
può produrre nuovi schemi utili al cambiamento. La confusione
è una fase necessaria dell’attivismo e, se ci si accorge di
sentirsi raramente confusi e messi alla prova, allora forse si sta
seguendo un copione”.

Ti è piaciuto questo estratto? Scopri qui il libro: Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, di Aph Ko e Syl Ko

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VandA all’Italia Book Festival

VandA Edizioni dal 16 al 24 maggio sarà all’Italia Book Festival, la prima fiera italiana della piccola editoria completamente digitale.

In un periodo complesso come quello attuale in cui non è possibile organizzare fiere dell’editoria a breve termine, abbiamo pensato sia importante non disperdere la grande ricchezza e creatività delle case editrici piccole e medie.

L’unione fa la forza! Nasce “Italia Book Festival”, una fiera dell’editoria virtuale dove gli editori avranno la possibilità di presentare il loro lavoro, i lori autori, fare laboratori e vendere libri. Una fiera dell’editoria reale nei contenuti.

I lettori potranno entrare nelle varie sale e girare fra gli stand degli editori, riempire il carrello con i titoli dei libri preferiti. Partecipare alle presentazione degli autori, ai laboratori, seguire le dirette you tube e facebook, gli approfondimenti, le interviste. Gli autori potranno proporre i loro manoscritti alle case editrici presenti, partecipare ai pitch e ai laboratori di scrittura creativa.

Per dare un’occhiata al nostro catalogo cliccate qui!

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L’Italia non rilascia il nullaosta alle coppie italiane per andare a prendere i bambini nati da maternità surrogata

Sul Corriere online è uscito un articolo di Monica Ricci Sargentini a proposito delle problematiche sorte in merito alla maternità surrogata durante questo periodo di emergenza sanitaria mondiale.

Di seguito uno stralcio dell’articolo:

“Si fa sempre più intricata la vicenda dei neonati bloccati in un hotel di Kiev in attesa che i loro genitori intenzionali (tutti stranieri) li vadano a prendere. Tra loro ci sono anche bambini commissionati da coppie italiane. Una di questi è nata il 22 aprile ed è ancora in attesa di essere registrata all’anagrafe. L’avvocato Giorgio Muccio, che rappresenta la coppia, ha scritto il 29 aprile all’ambasciatore italiano a Kiev, Davide La Cecilia e, per conoscenza, al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, chiedendo di concedere ai suoi assistiti «il permesso di recarsi in Ucraina per stato di urgente e indifferibile necessità» ma non ha ottenuto alcuna risposta: «Siamo sconcertati — dice al Corriere il legale —, abbiamo anche inviato ripetuti solleciti. A questo punto dovremo procedere a una diffida».

A differenza della Spagna, che addirittura nei primi giorni di maggio ha organizzato un volo di Stato per sette coppie che erano ricorse alla Gestazione per altri nello Stato, l’Italia ha scelto la via del silenzio. Lo dimostra la lettera di La Cecilia alla Rete contro l’utero in affitto (Radfem Italia, Snoq, Udi, Arcilesbica e molte altre) che gli aveva scritto sulla vicenda dei bambini «parcheggiati» nell’hotel: «Gentili Rappresentanti delle Associazioni firmatarie della lettera aperta, ho guardato anche io con grande disagio e preoccupazione le immagini del video diffuso in rete dalla Biotexcom di Kiev dei neonati radunati in una stanza in attesa dello sblocco della situazione che li riguarda e non esito a definirle aberranti. (…) Abbiamo infatti ricevuto una serie di richieste di autorizzazione all’ingresso nel Paese da parte di connazionali per motivi di maternità surrogata, che non sono state tuttavia riscontrate, nonostante le ingiunzioni ricevute dai loro legali». Il motivo, probabilmente, è che in Italia la pratica è vietata dalla legge 40 e la registrazione all’anagrafe delle coppie committenti potrebbe rappresentare un falso in atto pubblico come stabilito nel 2018 dalla Cassazione a sezione unite in cui si ribadisce il diritto del minore alla verità sulle proprie origini.

Il filmato dei 46 neonati stipati nella hall dell’Hotel Venezia è sconvolgente. I bambini sono tutti nati da utero in affitto e in attesa di essere ritirati da chi ne ha commissionato la nascita (i cosiddetti «genitori intenzionali»). Il lockdown per Coronavirus ne impedisce il ritiro e Denis Herman, legale di BioTexCom, lancia l’appello: «Genitori rivolgetevi ai vostri Ministeri degli Esteri perché contattino il governo ucraino, in modo che vi sia concesso il ritiro in deroga al lockdown». Si tratta di coppie americane, inglesi, cinesi, spagnole, francesi, tedesche, austriache, italiane. L’Ucraina è una meta gettonatissima per la Gestazione per altri perché il costo è un terzo o un quarto delle tariffe di California e Canada. Ci sono agenzie come Gestlife che nella tariffa de luxe includono la sostituzione del bambino nel caso ti morisse entro il primo anno di vita.”

di Monica Ricci Sargentini

Per leggere tutto l’articolo clicca qui.

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Manifesti femministi

a cura di Deborah Ardilli

Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato? Attraverso quali linguaggi ha presto forma? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto»? 


Il nuovo saggio di Deborah Ardilli, “Manifesti femministi”, è un’occasione per conoscere e interrogarsi sul femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1946-1977). 


Leggine un estratto…  

“Che cosa è stato il femminismo radicale? Perché ha trovato in tutto il mondo un canale di espressione privilegiato (ancorché non esclusivo” nella gemmazione multipla di manifesti firmati ora collettivamente, ora individualmente? Attraverso quali linguaggi ha preso forma quella singolare combinazione di insubordinazione e tensione utopica che ha alimentato il rinnovamento del movimento femminista negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso? Quali tabù hanno dovuto essere infranti per lasciare venire a galla quello che Carla Lonzi nel 1971 avrebbe battezzato come il «soggetto imprevisto»?  Fino a che punto le femministe si sono riconosciute nella prescrizione lonziana di «muoversi su un altro piano» rispetto alle forme del conflitto sociale innervate dalla dialettica signoria-servitù e animate prevalentemente da collettività maschili? E fino a che punto hanno invece avvertito la necessità di un intervento puntuale nella storia, in forza dell’estensione della dialettica servo-padrone al territorio inesplorato delle classi di sesso? Quali resistenze è stato necessario vincere per poter strappare il velo di naturalità che avvolgeva (e in larga parte continua ad avvolgere) il rapporto di genere? […] Sono queste alcune delle domande che potrebbero orientare la lettura dei testi confluiti nella raccolta che avete tra le mani.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Manifesti femministi, a cura di Deborah Ardilli


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Trilogia Scum. Scritti di Valerie Solanas

a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli

Per molto tempo il nome di Valerie Solanas è stato associato solo al ferimento di Andy Warhol, in realtà l’autrice di “Trilogia Scum” è stata la pioniera del femminismo radicale. Una figura spesso mal interpretata, strumentalizzata e fino a oggi rimossa sia dagli archivi della controcultura che dal femminismo. 


Trilogia Scum”, pubblicato da VandA Edizioni, ripara questo torto pubblicando tutti gli scritti dell’autrice inserendo anche due inediti importanti “Up Your Ass” e il racconto “Come conquistare la classe agiata. Prontuario per fanciulle”.

Leggine un estratto…

“Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile.

Oggi è tecnicamente possibile riprodursi senza l’aiuto dei maschi (o, se è per questo, delle femmine) e produrre soltanto femmine. Dobbiamo cominciare a farlo subito. Conservare il maschio non serve più nemmeno al pur discutibile obiettivo della riproduzione. Il maschio è un incidente biologico: poiché il gene Y (maschile) è un gene X (femminile) incompleto, ha una serie incompleta di cromosomi. In altre parole, il maschio è una femmina incompleta, un aborto ambulante, abortito a livello genetico. Essere maschio equivale a essere deficiente, emotivamente limitato; la maschilità è una tara e i maschi sono emotivamente storpi.

Il maschio è completamente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace di empatizzare con gli altri o di identificarsi con loro, incapace di amore, amicizia, affetto, tenerezza. È un’unità completamente isolata, incapace di qualsiasi rapporto. Le sue reazioni sono interamente viscerali, non cerebrali; la sua intelligenza è un mero strumento al servizio dei suoi istinti e dei suoi bisogni; è incapace di passioni della mente, di interazione intellettuale; non è in grado di relazionarsi a nulla, fuorché alle proprie sensazioni fisiche. È un’escrescenza inerte, un morto vivente, incapace di dare o ricevere piacere o felicità; di conseguenza, nel migliore dei casi, è una noia infinita, un inetto inoffensivo, perché solo chi è capace di interessarsi veramente agli altri può essere seducente. Il maschio è imprigionato in una zona grigia a metà strada tra gli umani e le scimmie, ma è molto peggio delle scimmie perché, diversamente da loro, dispone di un’ampia gamma di sentimenti negativi – odio, gelosia, disprezzo, disgusto, senso di colpa, vergogna, insicurezza – e, inoltre, è consapevole di ciò che è e di ciò che non è.

Benché completamente fisico, il maschio è inadatto persino a fare lo stallone. Anche ipotizzando che abbia la competenza tecnica necessaria, di cui comunque pochi uomini dispongono, egli è, in primo luogo, incapace di godersi una bella scopata sensuale e piccante, essendo divorato dai sensi di colpa, dalla vergogna, dalla paura e dall’insicurezza, sentimenti radicati nella natura maschile, che anche l’addestramento più illuminato può soltanto moderare. In secondo luogo, il godimento fisico che ne ricava è prossimo allo zero. E, in terzo luogo, non empatizza con la sua partner, ma è ossessionato dal pensiero di come se la cava, di fornire una prestazione d’eccellenza, di fare un lavoro a regola d’arte. Equiparare un uomo a un animale significa fargli un complimento: è una macchina, un dildo ambulante. Si dice spesso che gli uomini usano le donne. Usarle a che scopo? Sicuramente non per ricavarne piacere.

Divorato dal senso di colpa, dalla vergogna, da paure e insicurezze e capace, se è fortunato, di sensazioni fisiche appena percettibili, il maschio ha tuttavia l’ossessione di scopare; attraverserà a nuoto un fiume di muco, passerà a guado un miglio di vomito immerso fino alle narici, se si convince che ci sarà una figa accogliente ad attenderlo. Scoperà una donna che disprezza, una qualsiasi befana sdentata, e oltretutto pagherà per farlo. Perché? La risposta non sta nel bisogno di alleviare la tensione fisica, visto che la masturbazione è sufficiente allo scopo. E non si tratta nemmeno di soddisfare il suo ego, visto che allora non si spiega come mai scopi anche bambini e cadaveri.

Completamente egocentrico, incapace di relazionarsi, empatizzare o identificarsi con gli altri, colmo di una sessualità debordante, pervasiva e diffusa, il maschio è psichicamente passivo. Odia la propria passività e per questo motivo la proietta sulle donne, definisce il maschio come attivo, quindi si mette all’opera per dimostrare di esserlo (“dimostrare di essere un Uomo”). Il mezzo principale a cui ricorre per dimostrarlo è scopare (il Grande Uomo con un Gran Cazzo che si fa un Gran Pezzo di Figa). Poiché si sta affannando a dimostrare un errore, deve ripetere la “dimostrazione” all’infinito. Scopare, pertanto, è un tentativo disperato e compulsivo per dimostrare di non essere passivo, di non essere una donna; ma lui è passivo, e vuole essere una donna.

Essendo una femmina incompleta, il maschio trascorre la vita cercando di completarsi, di diventare femmina. Prova a farlo mettendosi costantemente alla ricerca di una femmina con cui fraternizzare, cercando di fondersi con lei e di vivere attraverso di lei, e rivendicando come proprie tutte le caratteristiche femminili – forza e indipendenza emotiva, energia, dinamismo, risolutezza, disinvoltura, obiettività, assertività, coraggio, integrità, vitalità, intensità, profondità di carattere, fascino e così via – e proiettando sulle donne tutti i tratti maschili – vanità, frivolezza, banalità, debolezza e così via.

Bisogna riconoscere, tuttavia, che esiste un campo in cui la superiorità del maschio sulla femmina è lampante: le pubbliche relazioni. (Ha fatto un ottimo lavoro quando si è trattato di convincere milioni di donne che gli uomini sono donne e le donne sono uomini.) La pretesa maschile che le donne si realizzino attraverso la maternità e la sessualità rispecchia l’idea di ciò che i maschi troverebbero gratificante se fossero femmine. In altre parole, le donne non soffrono di invidia del pene; sono gli uomini a invidiare la figa. Quando il maschio accetta la propria passività si definisce donna (tanto i maschi quanto le femmine sono convinti che gli uomini siano donne e che le donne siano uomini) e diventa un travestito, perde il desiderio di scopare (o di fare qualsiasi altra cosa, a dire il vero; essere una drag queen lo appaga pienamente) e si fa tagliare via l’uccello. “Essere una donna” gli permette così di raggiungere una sensibilità sessuale continua e diffusa. Scopare, per un uomo, è una difesa contro il desiderio di essere femmina. Il sesso è di per sé una sublimazione”.

Ti è piaciuto questo brano? Trovi il libro qui: Trilogia Scum. Scritti di Valerie Solanas, a cura di Stefania Arcara e Deborah Ardilli.

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Radio inBlu – Intervista ad Agnese Bizzarri

Questa settimana su radio inBlu si lascia spazio ai bambini, in una bella intervista Agnese Bizzarri presenta la favola sul Coronavirus “Il tempo dei colori” che ha ispirato il contest ricondiviso anche dall’ONU.

Per ascoltare l’intervista completa cliccate qui.

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Valerie Solanas – intervista alla regista Mary Harron

Su Volture.com è stata pubblicata un’intervista a Mary Harron, la regista canadese di American Psycho, L’altra Grace e Ho sparato a Andy Warhol, film del 1996 basato sulla vera storia di Valerie Solanas, femminista radicale e autrice dei nostri “Manifesto SCUM“, “Trilogia SCUM” e “Up your ass“.

Valerie Solanas sta vivendo un momento di grande riconoscimento. Negli ultimi vent’anni, Solanas è stata il soggetto di numerosi libri accademici e di critica e ha ispirato ben tre opere teatrali e un romanzo. Nel 2017 è stata persino ritratta in un episodio della serie televisiva statunitense American Horror Story.

Qui di seguito un estratto dell’intervista originale:

And then I Shot Andy Warhol was a hit at Sundance

In 1996, Variety’s Todd McCarthy wrote, “Filmmakers have been dancing around the idea of dealing with Andy Warhol and his world ever since his death. Now that it’s been done, the result, as well as the angle taken on the material, is as unexpected as it is riveting.”.
The offer to do the script for American Psycho came in right after I got back from Sundance. That’s what happens if you have a first film that does well at Sundance.

Valerie Solanas is having a big moment now

Over the last two decades, Solanas has been the subject of a number of academic and critical books and the inspiration for three plays and a novel. In 2017, she was portrayed in an episode of American Horror Story: Cult by Lena Dunham..
At the time, feminism was not cool. At all. Now everyone wants to say they’re a feminist. But at the time — I never denied it. I always said I was, because I felt like, without feminism, I would never be doing this.

Where do you think your feminism comes from?

It was pretty instinctive. My mother was very old school in a lot of ways. She believed men were superior to women with two exceptions — my sister and myself. She was very ambitious for me and wanted me to be an artist. She would’ve been horrified if I hadn’t. She was very upset that my sister married and had kids early. At the same time, we’d disagree. She thought feminism was silly. She ran a radio program, and on her show, they used to excerpt books, and she refused to do Simone de Beauvoir. Still, I always thought I was going to have a career. That’s how I thought about my future — my career, my work, my ambition.

But I always felt like people were saying “Are you a feminist?” back in the day because they wanted to pigeonhole you as an ideological filmmaker, which I’m not, I don’t believe.”

Per leggere l’intervista completa clicca qui.

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“Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione”

di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa

Firmato da quattro autrici: la sociologa Daniela Danna, la costituzionalista Silvia Niccolai, la storica Luciana Tavernini e l’avvocata Grazia Villa, “Né sesso né né lavoro” è un testo fondamentale per chi voglia capire un po’ di più il dibattito su prostituzione e sex work in Italia. 

Un libro scritto a più voci ma con una visione comune che intende aiutare chi legge a sfilare la testa dalla sabbia dei luoghi comuni, andare oltre slogan sempre più diffusi che, volendo sdoganare la questione, negano gravi problemi sociali e mentono spudoratamente.

Il sex work non è un lavoro come un altro, il concetto stesso di sex work stravolge il senso sia del sesso sia del lavoro.

Forti di competenze specifiche, le quattro autrici mostrano i differenti aspetti del fenomeno in un’analisi calata nella peculiare realtà dell’abolizionismo tradito nel nostro paese, dove la lotta alla tratta non è una priorità e dove sulla prostituzione vige il laissez faire. Dall’esame dei modelli di politiche internazionali all’analisi della Legge Merlin (male interpretata) e delle numerose proposte parlamentari di modifica della legge, all’appassionata riflessione sulla portata della prostituzione negli attuali rapporti umani.


Leggine un estratto…

“Ho capito il mio atteggiamento e quello di diverse mie amiche verso la prostituzione quando li ho associati a un episodio della mia infanzia. Avevo quasi tre anni quando mi sono allontanata dalla casa dei nonni per cercare i miei genitori, usciti a fare la spesa. Inerpicandomi per un sentiero fra i boschi, arrivai a un maso vicino e, sentendo il cane abbaiarmi contro, mi coprii il viso con le mani, lasciando aperte le dita. Nel mio pensiero magico, nascondendo il viso mi sarei resa irriconoscibile e il cane non mi avrebbe vista, mentre io lo avrei controllato e mi sarei avvicinata il meno possibile.

Con la prostituzione è andata così.

Sapevo che esisteva, non avevo bisogno che restasse nelle “case chiuse” con i vetri oscurati; non era la buona educazione o il bon ton a non farmene parlare, piuttosto la sottile paura che la cosa mi riguardasse. Insomma, intravedere era un modo per tenere lontane le sue implicazioni. Intuivo quanto la prostituzione fosse connessa al contratto sessuale degli uomini tra loro per avere accesso al corpo femminile, e dunque anche al mio; alla pretesa che i desideri maschili fossero gli unici legittimi, che il ruolo delle donne fosse quello di supportarli e di essere lo specchio in cui l’uomo diventa grande (dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna). Ma io non volevo vivere all’ombra di qualcuno e il mio desiderio, proprio per l’incontro col femminismo, continuava e continua ad accendersi. Un desiderio che ha reso evidente quanto mi andasse stretta la divisione patriarcale delle donne in due grandi categorie: le procreatrici e le donne di piacere, le donne per bene e le donne per male. Le prime devono garantire la certezza e la continuità della discendenza, un’ossessione maschile che ha prodotto nei secoli una serie di abomini: dalle spose ignoranti e molto giovani alla prova della verginità della prima notte, dall’escissione della clitoride, non solo fisica (mia madre neppure sapeva della sua esistenza, guai a toccarsi lì ), alla fasciatura dei piedi delle donne cinesi durata secoli, dall’organizzazione di harem custoditi da eunuchi ai delitti d’onore, dai matrimoni riparatori alla patria potestà che toglieva le creature alla madre in caso di adulterio, solo per fare qualche esempio. Le altre, le donne per male, devono garantire il piacere sessuale maschile, un’esperienza così attraente da far “perdere la testa” e per la quale, come per la funzione delle prime, le donne sono necessarie. Anche qui invenzioni a dir poco obbrobriose: dalle molestie, considerate modi naturali di rapportarsi alle donne fin da bambine e adolescenti, allo stupro individuale come manifestazione di controllo sull’altra, dallo stupro di gruppo come forma di coesione tra uomini alle diverse modalità di organizzare la prostituzione, dove il denaro paga la prestazione richiesta cancellando chi la fornisce.

Soprattutto nelle istituzioni maschili segregate, per esempio negli eserciti, le donne prostituite, anche con l’inganno, erano una costante ritenuta inevitabile e solo da poco si comincia a esprimere parole di condanna. Basti pensare alle comfort women per le truppe giapponesi, all’invenzione del “madamato” per quelle italiane nelle colonie, per non parlare del sistema di R&R ( rest & recreation ), in particolare per le truppe USA durante la guerra del Vietnam. Nella Roma papale del Cinquecento, piena di celibi, vi era uno stuolo di cortigiane, spesso costrette a questo ruolo dopo il cosiddetto “trentuno”: uno stupro collettivo a cui partecipavano trentuno uomini – come si racconta accadde a Lorenzina, la figlia di un fornaio (Lawner, 1988, pp. 10-11).

Del resto, nei casini italiani del primo dopoguerra la media di quaranta “marchette” era considerata bassa (Merlin e Barberis, 1955, pp. 25 e 30). E dal 1995 alcune suore cominciano a presentare rapporti-denuncia ufficiali sugli abusi di preti verso le consorelle. Per tenere ben separate le due categorie femminili, sulle donne che non rispettano le regole maschili da un lato ricade la vergogna, dall’altro s’innesca la paura di punizioni sia per le prime sia per le seconde, basti pensare che nel Cinquecento, il secolo del cosiddetto Rinascimento, una cortigiana che non si era mostrata disponibile a tempo debito poteva essere punita dall’amante con uno stupro organizzato con l’inganno e la complicità di ottanta uomini (Lawner, 1988, pp. 75-77).

Ho potuto vedere le violenze connesse a questa divisione innaturale quando, oltre quarant’anni dopo, ho definito con altre “molestia” quello che un medico mi aveva fatto e che continuavo a minimizzare, situazione che m’impediva di fidarmi del mio sentire e di prendere parola pubblicamente in modo autentico. Non avevo timore a fare lezioni anche davanti a trecento persone come ripetitrice di pensieri altrui o nascondendo con l’ironia i miei, di cui non riuscivo a essere sicura (Tavernini, 2012 e 2014).

Vivere attenta a non cadere nella vergogna e ad allontanare la paura mi aveva spinta a introiettare il desiderio maschile pensando così di esaudire anche il mio, a non voler vedere la violenza a cui ero stata sottoposta per continuare a percepirmi viva: la violenza ti fa diventare cosa, ed è quanto di più vicino alla morte ci sia.

Le pratiche femministe che, pur modificandosi nel tempo, hanno mantenuto l’interrogarsi tra donne a partire da sé, mi hanno permesso di tenere le dita aperte per non cancellare l’esperienza di quelle che vivevano con la prostituzione. Anch’io ho gridato nei cortei non più puttane, non più madonne, solo donne: la separazione dunque doveva crollare, ma non significava l’instaurarsi di un nuovo e unico modello. Con le amiche dell’autocoscienza, con cui continuo a incontrarmi, e con quelle con cui ricerco da decenni, ho compreso che il nostro immaginario era colonizzato da film e racconti che confermavano le modalità maschili d’incontro sessuale e in un primo tempo ho rischiato di accontentarmi della liberazione sessuale.

Essere sessualmente disponibili si rivelò uno scacco, desideravamo invece scoprire, con chi decidevamo di provare, il piacere nostro e anche suo. Insomma, volevamo la libertà sessuale”.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa” 

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“La piccola principe”, di Daniela Danna

“La piccola principe” di Daniela Danna si apre come una lettera in cui l’autrice si rivolge a chi legge immaginando che anche lei, specie se nella fase di crescita, si stia interrogando sulla sua identità sessuale.

«Se pensi che potresti essere un maschio perché hai una fortissima simpatia, un’attrazione, un desiderio di stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, devi sapere che questo sentimento non deve essere fonte di vergogna, anche se non è irrazionale la tua paura di rivelarlo». L’autrice infatti racconta con naturalezza la paura che spesso accompagna chi si fa queste domande e gli effetti che queste possono avere.


Leggine un estratto…

“Ciao! Scrivo a te che sei giovane, che stai per svilupparti e diventare un’adulta e che ti stai interrogando su come crescere e identificarti… Mi rivolgo a te al femminile perché – anche se pensi che potresti essere maschio – nella tua prima parte di vita in questa società ti hanno trattata come si è soliti trattare le femmine, cioè sei stata cresciuta con una certa pressione, sociale se non familiare, verso l’adesione ai modelli sociali femminili.

Se pensi che potresti essere un maschio perché hai una fortissima simpatia, un’attrazione, un desiderio di stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, devi sapere che questo sentimento non deve essere fonte di vergogna, anche se non è irrazionale la tua paura di rivelarlo. Sappi che stare insieme a un’altra ragazza, o a una donna, non è mai stato facile, che anche noi lesbiche abbiamo tenuto dentro questo sentimento prima di parlarne a chiunque, timorose di essere etichettate negativamente, di essere ostracizzate.

I legami tra femmine – a partire da quelli tra madre e figlia – nella nostra società non sono incoraggiati, non sono ben visti, sia che si tratti di amicizia, di affetto, di amore, o anche di trasmissione culturale. Ci insegnano che il primo posto nel cuore di una femmina deve essere occupato da un maschio (fidanzato, marito, padre, Gesù, Dio) ed è una delle ragioni per cui chiamiamo patriarcale la società in cui viviamo. Noi che amiamo le donne pensiamo che questo imperativo sia sbagliato, che le femmine dovrebbero essere lasciate libere, anche di darsi forza l’una con l’altra. Noi ci chiamiamo lesbiche perché diamo importanza a questa forza, come fece la maestra e poeta Saffo, e vogliamo dire al mondo che amiamo le donne, vogliamo stare con loro. Potrebbe non essere il tuo caso, chissà.

Quello che succede nell’infanzia o nell’adolescenza non è un destino ineluttabile. Ma è importante – lo si scopre nella vita – essere fedeli a se stesse per poter essere felici.”

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui “La piccola principe”, di Daniela Danna

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“Temporary Mother”, di Marina Terragni

“Il mercato è fatto così: ne fa sempre una questione di soldi, riconduce tutto alla misura universale del denaro”, così inizia “Temporary mother” di Marina Terragni per riflettere su come oggi la maternità a pagamento sia un colossale giro d’affari da almeno 3 miliardi di dollari. 

Se inizialmente la surrogacy poteva sembrare un mezzo di liberazione per le donne oggi, anche secondo i possibilisti, le donne non si sono affatto liberate, anzi sono diventate mezzi di produzione.

Invece di riflettere su come la libertà riproduttiva delle donne sia oppressa ovunque e di come ciò infici sulla possibilità di avere o meno figli ci affidiamo al capitalismo perché ci fornisce la soluzione dimenticando che ha anche creato il problema.

Quei figli che non ci è consentito avere possiamo sempre comprarli. Basta pagare.


Leggine un estratto…

“Tante di noi resistono all’idea della maternità per contratto e
per soldi, e si dicono invece possibiliste sull’“utero” solidale.

L’associazione Arcilesbica ne parla in un documento dove
si dice che la GPA “se realizzata per solidarietà è altruistica, se
si dà per un compenso è commerciale. La GPA può sussistere
nel momento in cui risulta essere un atto volontario, per sottolineare
questa volontarietà è necessaria la gratuità, anche
economica, del gesto…”.
Gratuità che peraltro si realizza solo in un numero pressoché
insignificante di casi: normalmente si tratta di una transazione
economica.


Anche in quei paesi, come il Canada, dove la legge riconosce
alle gestanti per altri un’indennità comprensiva del rimborso
delle spese mediche, si tratta in realtà di un compenso a
tutti gli effetti. Le donne si offrono per avere quei soldi.
Secondo Arcilesbica, il fatto che in una GPA non passi denaro
costituirebbe una garanzia sufficiente. La faccenda mi
pare più sottile.

Chiedere a una donna che si offra gratis o
quasi gratis per il suo biolavoro è farle una richiesta molto
ambigua. Su questa “generosità” è costruito tutto il marketing
delle agenzie che vendono surrogacy – ci torneremo più
avanti. Ma il punto è un altro.


La madre di mio padre lavorava, e aveva dato “a balia” il
suo bambino neonato. Com’era giusto, le balie da latte ricevevano
un compenso per il loro dono prezioso: si trattava in
genere di donne povere a cui quei soldi facevano comodo.

Mio padre fu sempre affezionato alla sua balia e ai figli di lei
che chiamava, come si diceva allora, fratelli di latte: c’era un
lessico affettuoso che conferiva esistenza simbolica a quelle
relazioni. Con lei e con quei fratelli rimase sempre in legame.
Lì passavano soldi, ma la relazione rimaneva al centro.
Oggi le balie da latte non esistono quasi più, ma esistono
donne, spesso straniere, che affiancano o sostituiscono la madre
nel lavoro di cura della creatura e per questo ricevono un
compenso. Si tratta in questo caso di accudimento, di nutrimento
affettivo e non del latte. Anche qui i soldi non surrogano
la relazione, sono solo una componente della relazione,
dalla quale peraltro la madre non scompare.

In questione non è nemmeno il quanto, come tante e tanti
ritengono: e allora la cosa va bene se si tratta di un semplice
rimborso, non va bene se è un canone di locazione pieno.
Si tratta piuttosto di capire che cosa si compra, con quei
soldi. Se si compra il diritto di rompere la relazione e fare
sparire la madre dalla vita della creatura. Se i soldi diventano
un sostituto, un surrogato di quella relazione.
Vero che in una GPA autenticamente solidale io quella
donna non dovrei pagarla. Ma potrei decidere di farle un
gran dono, o anche di darle dei soldi: il fatto non è questo.
Quello che conta è che io non paghi quella donna perché
sparisca e si lasci cancellare dalla vita della creatura e dalla
mia. Che io non pretenda di surrogare quella relazione con il
denaro.

Il modello potrebbe essere quello di una libera relazione
tra due donne, come nel caso delle balie da latte, in cui nessuna
debba scomparire dalla vita della creatura e dell’altra
madre. Una relazione in cui la gestante accetti il rischio e la
gioia di quella relazione possibilmente per la vita, e non solo
di offrire per nove mesi il suo grembo. In questo modo non
sparirebbe la madre. Sparirebbe invece la gran parte dei problemi che pesano sulla vita di questi bambini. Sarebbe chiaro
da subito com’è andata. E che loro sono i figli fortunati di un
plus d’amore.

Per Rosemarie Tong il problema non sta nella GPA in sé,
ma nell’uso che ne viene fatto in un contesto patriarcale: “La
maternità surrogata diventa fonte di sfruttamento se gli uomini
hanno il controllo delle regole, dei tribunali, del corpo
delle donne”, dice. “L’etica femminista richiede che le donne
denuncino, resistano, e sconfiggano questi e altri tipi di controlli
di stampo patriarcale. Solo allora saremo in grado di
poter determinare se la maternità gestazionale abbia realmente
un futuro come una modalità di riproduzione veramente
collaborativa – un processo che aumenti la libertà e la felicità
delle donne che scelgono di aiutarsi le une con le altre per
avere un figlio” (Nuove maternità).

Quando sono gli uomini a decidere, quando le leggi, e in
particolare le leggi di mercato, sono le loro, apri la porta all’utero
“etico e solidale” e di lì passerà il business della GPA
commerciale: di tutto viene fatto profitto.

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: Temporary Mother, di Marina Terragni

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#iorestoacasaconvanda – la nuova rubrica video di VandA Edizioni

#iorestoacasaconvanda è un format che VandA ha creato per mantenere viva la relazione fra lettori e autori in questo periodo di “reclusione”.

Per non perdere il filo del pensiero. Per mettere al lavoro la nostra sapienza accumulata e non restare attoniti e in contemplazione di qualcosa che sembra più grande di noi. Perché solo il pensiero e la saggezza che da esso deriva porta alla coscienza e quindi alla libertà.

Come ci ha insegnato il femminismo, autocoscienza e relazione sono le due grandi leve dell’emancipazione. Ed è su questa strada che vogliamo proseguire.

Dunque parliamoci e ascoltiamoci!

Quello che sta capitando ha molto a che vedere con le cose a cui da tempo VandA sta riflettendo: la crisi di un modello di società e di economia, i danni del mercatismo e della globalizzazione, il maschile tossico, la violazione dei corpi, della Natura, della Terra, la libertà intesa come individualismo e assenza di limiti.

I nostri autori in video riprenderanno le loro tesi, i loro libri e ci intratterranno con storie, interventi, brevi lectio, riflessioni, letture, narrazioni, audio.


Ecco la programmazione del format #iorestoacasaconvanda:

Martedì 7 aprile
Lectio economia (durata circa 20’’)
Pierangelo Dacrema, “Dov’è l’Europa?”

Venerdì 10 aprile
Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 9’’)
Chiara Giunta, “Innamorate“, Letture di Francesca Fichera

Martedì 14 aprile
Saggistica: presentazione con autrice e lettura (durata 10”)
Carol J. Adams, “Carne da Macello, Letture di Barbara Mugnai

Venerdì 17 aprile
Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 10″)
Agnese Bizzarri, “L’Italia a Colori, Letture di Marco De Francesca

Martedì 21 aprile
Intervento: neoliberismo e violazione di corpi (durata 10″)
Marina Terragni, “Utero in affitto mille motivi per dire NO

Venerdì 24 aprile
Intervento con autrice (durata 10’’)
Sofie della Vanth, “Pandemia Covid-19: il punto di vista di una sciamana

Martedì 28 aprile
Teatro: presentazione con performance audio (durata 12″)
Donatella Massara, “Donne che attraversano la scena teatrale“, recitato di Donatella Massara

Venerdì 1 maggio: Festa del Lavoro
Lectio neoliberismo (durata circa 20″)
Pierangelo Dacrema, “Se il mercato sostituisce il lavoro

Martedì 5 maggio
Poesia: presentazione con autore e lettura (durata 10″)
Pippo Ruiz, “Le metamorfosi dell’Haiku

Venerdì 8 maggio
Narrativa: presentazione con autrice e letture (durata 10″)
Anna Maria Briga, “Ci sei“, illustrazioni di Maria Vittoria Sesta

Martedì 12 maggio
Saggistica: intervento con autrice (durata 14″)
Giuseppina Norcia, “A proposito di Elena“, letture di Galatea Ranzi

Venerdì 15 maggio
Saggistica: intervento con autrice (durata 10″)
Michela Fontana, “Nonostante il velo

Venerdì 22 maggio
Lectio economia
Pierangelo Dacrema, “La morte del denaro

Venerdì 29 maggio
Narrativa: intervento con autrice (durata 8″)
Katia M., “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre


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La buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio), Pierangelo Dacrema

“Le dimensioni del debito pubblico italiano sono un fattore di rischio che ostacola qualunque politica di sviluppo della nostra economia. Un problema annoso, tema di dibattito e di scontro a ogni vigilia del voto. Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta”. 

Pierangelo Dacrema in “La buona moneta” offre una raccolta di spunti per un’economia del futuro.

Se, come spesso accade nei ragionamenti economici, il denaro è sia causa che soluzione come procurarsi moneta?

Leggine un estratto…  

“L’idea all’origine della proposta che formulerò in modo articolato nella terza parte di questo lavoro non è affatto nuova. Nuova semmai è la proposta, anche sotto l’aspetto tecnico.

L’idea, infatti, è stata non solo formulata ma anche applicata con successo nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, ed è alla base del “miracolo” compiuto dalla politica economica del governo nazionalsocialista prima della sciagurata decisione di scatenare la guerra in Europa e nel mondo.

A tale proposito credo che si possa trovare ormai ampio consenso sul principio per cui una condanna senza appello del nazismo per gli orribili delitti e le devastazioni di cui si è reso responsabile sia compatibile con un’analisi degli apprezzabili risultati da esso ottenuti, fino al 1937, sul piano economico-sociale. Studiosi come Joachim Fest non hanno esitato ad ammettere 1 che, se Hitler fosse morto prima del 1938 – o non avesse invaso l’Austria perseverando poi nel folle disegno che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale –, sarebbe stato ricordato come un grande statista tedesco, forse il più grande.

Quando Adolf Hitler, nel gennaio del 1933, riceve da Paul von Hindenburgh l’incarico di formare il nuovo governo, la Germania è un Paese allo stremo. Sono fatti noti, ma è il caso di ricordarli brevemente. Una trentina di partiti e sei milioni e mezzo di disoccupati – poco meno di un quarto della forza lavoro del Paese – rendono la situazione potenzialmente esplosiva. La nazione è oberata di debiti per le riparazioni di guerra, praticamente impossibili da pagare, l’indigenza è diffusa, un gran numero di famiglie e di individui è alla fame. Ed è proprio cavalcando questo malcontento che lo NSDAP – Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – ottiene un risultato elettorale più che soddisfacente. Con le parole roboanti e lo stile tipici di un dittatore che si trova a un passo del potere assoluto, Hitler fa alcune promesse ai tedeschi. E le mantiene. Con un Rudolph Hess sorridente e ammiccante al suo fianco, si rivolge a un pubblico osannante ricordando che lui e i suoi seguaci erano in sette, all’inizio. E che ora sono diventati milioni.

Per questo potrà permettersi di selezionare, allontanare gli opportunisti e gli incapaci, scegliere i migliori. Parlando d’economia, giura di avere come unico obiettivo il benessere del popolo tedesco, e assicura di tenere ben presente come la prosperità nasca dal lavoro, dall’attività del popolo, e non dal denaro, che ne è banale e meccanica conseguenza. Promette che lo Stato non lascerà isolati gli individui operosi, volenterosi e intenzionati a collaborare, a entrare in azione a vantaggio di tutti. Garantisce un controllo dello Stato sull’attività dei privati e un rapporto di collaborazione tra Stato e industria destinato ad aumentare la produzione e una distribuzione della ricchezza nazionale attenta ai meriti e ai bisogni individuali.

Con la nazionalizzazione di diverse grandi imprese, ma sempre in dialogo con l’industria privata, lancia un programma di investimenti pubblici volto a rivoluzionare il sistema dei trasporti, a potenziare le infrastrutture, a dare ai tedeschi nuove prospettive. Artefice della politica economica del governo nazista dall’inizio del 1933 alla fine del 1937 è Hjalmar Schacht, che non è nazionalsocialista (e per di più ha origini ebraiche). Ciò a riprova di come certi giudizi possano, e forse debbano, tenersi separati. È probabile che Schacht avesse visto in Hitler il capo di una forza politica – eccentrico sia il capo che il partito da lui creato – capace di mettersi alla guida di un Paese bisognoso soprattutto di: a) godere di un periodo di stabilità politica; b) approfittare di tale periodo per risollevare le sorti di un’economia che versava in condizioni disastrose. È probabile, anzi, quasi certo, che Hitler accarezzasse fin dal 1933 i suoi perniciosi disegni di guerra e di dominio sull’Europa, e che avesse visto in Schacht l’uomo giusto per realizzarli (senza un’economia forte alle spalle, la guerra sarebbe parsa una follia anche al più folle dei dittatori). Perché la scelta del Führer si è rivelata (malauguratamente) intelligente? Stiamo parlando, ripeto, di eventi e di uomini ben conosciuti. Ma ripercorrere in estrema sintesi alcuni brani del passato può rendere più facile l’analisi del presente e l’individuazione di possibili soluzioni per il futuro.

Si consideri che Schacht è già un eroe nazionale. Diventato responsabile economico della Repubblica di Weimar su incarico del cancelliere Gustav Stresemann nel 1923, nonché presidente della Reichsbank nel 1924, diffonde sul mercato una nuova valuta, il Rentenmark, che soppianta il vecchio marco, ormai inservibile, e sconfigge l’iperinflazione di quel tempo. Rimane al vertice dell’istituto di emissione fino al marzo del 1930, sei mesi dopo l’inizio della Grande Depressione. Hitler si esprimeva in modo enfatico, drammatico. Era amato, il suo eloquio era estremamente appassionato. Un tipo strano. Ma strana era anche la situazione.

Nel marzo del 1933 Schacht accetta di tornare a essere il presidente della Reichsbank, e nell’agosto del 1934 diventa ministro dell’Economia. I risultati ottenuti dall’economia tedesca sotto la sua guida, in pochi anni, sono oggettivamente straordinari. Già alla fine del 1936 la disoccupazione è ridotta al minimo e tutti i settori dell’industria registrano fenomenali incrementi della produzione.

È giudizio unanime che il successo di questa operazione di rilancio del sistema economico sia dovuto in buona misura ad alcune innovazioni introdotte da Schacht nel sistema dei pagamenti. Si tratta in particolare di due accorgimenti, entrambi volti all’esigenza di offrire liquidità al sistema evitando di creare un eccesso di base monetaria con la deprecabile conseguenza dell’inflazione, un problema di cui la Germania ha un ricordo fresco e drammatico. La prima innovazione riguarda le modalità di finanziamento delle importazioni, vale a dire delle merci di cui il Paese ha un estremo bisogno, soprattutto in campo alimentare.

L’idea è semplice e centrata sull’obiettivo: non deprimere il marco, la valuta nazionale. Il che significa non costringere la banca centrale a emettere marchi o a spendere valuta estera, che la banca si trova costretta ad amministrare con molta parsimonia. Le importazioni, pertanto, vengono pagate con cambiali spendibili solo in Germania, sul mercato tedesco. Il risultato è che ogni spesa all’estero (importazione) destinata a rifornire il sistema produttivo tedesco si traduce in una spesa dall’estero che alimenta il sistema ulteriormente (esportazione). Si tratta in sostanza di un baratto con esiti virtuosi, capace di scavalcare qualunque forma di intermediazione finanziaria associata di norma a qualsiasi operazione economica (considerando economica un’operazione per cui esiste un soggetto che produce e che vende – l’offerta – e un altro che acquista e consuma – la domanda). Facile fornire un esempio. L’Argentina è ricca di grano e di carne, che può esportare in abbondanza. E la Germania è in grado di produrre macchine utensili di cui l’Argentina ha bisogno per favorire un progresso tecnologico che non è capace di promuovere da sola. Benissimo. La Germania avrà il grano e la carne di cui necessita in cambio di tecnologia pagata dall’Argentina con strumenti finanziari spendibili solo in Germania. È un baratto, nient’altro che un baratto assistito e garantito dallo Stato.

La seconda idea, per quanto in tutto simile alla prima, è ancora più ardita, e si risolve in un meccanismo di finanziamento della spesa pubblica senza il ricorso a emissioni di moneta né al collocamento di veri e propri titoli di Stato. Nella Germania che i nazisti si accingono a governare la liquidità scarseggia, le aziende licenziano o, nella migliore delle ipotesi, non assumono, ed esiste una capacità produttiva largamente inutilizzata.

Occorrerebbe una politica monetaria di stimolo, fortemente espansiva, che trova però un ostacolo insormontabile nel pericolo dell’inflazione e nella diffidenza dell’Europa nei confronti di una valuta come il marco e di una nazione come la Germania, che si ha ragione di considerare risentita, umiliata, e sempre pronta a varare una politica del riarmo. Schacht decide allora di creare la Metallurgischen Forschungsgesellschaft, Società per la ricerca metallurgica (abbreviata in MEFO). L’organismo, interamente posseduto dalla Reichsbank, è una scatola vuota: non fa nulla e non possiede nulla. Però ha la peculiare e pregiata caratteristica di poter emettere cambiali garantite, di fatto, dallo Stato (più esattamente dalla Reichsbank). Queste cambiali – i titoli MEFO – rendono il 4 per cento su base annua e hanno scadenza breve, trimestrale o quadrimestrale. Possono tuttavia essere rinnovate fino a cinque anni. Attraverso di esse la MEFO – indirettamente la Reichsbank, e in sostanza lo Stato – può raccogliere denaro ma può anche pagare in via dilazionata le commesse industriali, vale a dire sostenere la spesa pubblica, finanziare la produzione e la domanda globale. Da notare che i soggetti, per lo più industriali, che accettano titoli MEFO in pagamento si rendono conto di poter decidere di non rinnovarli, o di scontarli presso la Reichsbank ottenendo moneta ufficiale, marchi. Ma non lo fanno, vuoi perché i titoli hanno un rendimento interessante, vuoi, soprattutto, perché hanno fiducia in questi titoli.

Per le aziende tedesche è prevista poi la possibilità di emettere cambiali garantite dalla MEFO, circostanza, quest’ultima, che accredita i titoli in loro possesso come strumenti di pagamento del tutto affidabili. Il risultato è che i titoli MEFO proliferano, circolano come moneta e, come la moneta, servono al finanziamento e al funzionamento del sistema economico. Si tenga presente che i MEFO sono spendibili solo in Germania. Ma è quanto si è pianificato fin dall’inizio: doveva essere la Germania a trarne beneficio. E così fu. La Germania godette per diversi anni di un regime di doppia circolazione della moneta che si rivelò molto utile per la rivitalizzazione dell’industria nazionale.”

Ti è piaciuto questo libro? Lo trovi qui: La buona moneta. Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po’ meglio)