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Giusi Norcia con “A proposito di Elena” rianima il dramma antico

Su Avvenire, il giornalista Giuseppe Matarazzo ha inserito un bel riferimento a “A proposito di Elena“, il nuovo libro di Giuseppina Norcia, in un articolo dedicato interamente alle “voci sole” del dramma antico.

L’articolo di Giuseppe Matarazzo su Avvenire

Eccone uno stralcio:

“Come la scrittrice e grecista, Giuseppina Norcia, insegnante di Drammaturgia antica nella stessa Accademia dell’Inda. «Mythos significa racconto – esordisce Norcia –. Per esistere un mito ha bisogno di essere narrato, oggi come allora, altrimenti si spegne, si fossilizza. La sua capacità di essere mappa dell’anima tesse e insieme rinnova il legame tra le nostre origini e la contemporaneità; ci appartiene non in quanto attuale ma perché universale, in un respiro più ampio che unisce le tre dimensioni del Tempo,
passato presente e futuro. Chi racconta un mito “entra nella storia”, fa vibrare il suono delle proprie domande, pone le urgenze del suo tempo». Elena è il mito che lo scorso anno ha incantato il pubblico di Siracusa, interpretata da Laura Marinoni per la regia di Davide Livermore. Ci siamo lasciati lì. Dove Elena aleggia ancora. E proprio alla regina di Sparta Giuseppina Norcia ha dedicato il suo ultimo libro, “A proposito di Elena
(VandA edizioni, pagine 120, euro 14,00) dove mescola meravigliosamente
i generi, unendo il saggio, la narrazione, il teatro. Dal mito di ieri alla “Elena 2.0” di oggi. «Alcuni miti o personaggi possono rimanere quasi sopiti, per poi risvegliarsi, attivarsi quando risuonano con un dato tempo. Credo che in questo momento un personaggio come Elena sia interprete di temi urgenti, dall’uso dei corpi delle donne alle cause (o ai pretesti…) dei conflitti, dal rapporto tra verità e mistificazione al potere tremendo o salvifico che la bellezza ha sul cuore umano. Quale bellezza, dunque, salverà il mondo?». Questione senza tempo. Di drammi che aspettano di tornare in scena.”

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“A proposito di Elena” – intervista a Giusi Norcia su letture.org

Su letture.org è uscita una bella intervista a Giusi Norcia per la pubblicazione del suo nuovo libro “A proposito di Elena“.

Eccone uno stralcio:

Dott.ssa Giuseppina Norcia, Lei è autrice del libro A proposito di Elena edito da VandA: cosa sappiamo di Elena di Sparta?
Il Mito greco è per me, da sempre, fonte di ispirazione e materia viva, da narrare e plasmare, per la sua capacità di essere mappa dell’anima e nel contempo – come diceva Kerényi – un tessuto senza orli, che non ha mai fine. I grandi personaggi del mito – pensiamo a Odisseo e Penelope, Agamennone ed Ettore, Achille, Elena… – popolano la nostra immaginazione attraverso i racconti dell’infanzia, le letture scolastiche, la cinematografia, oltre che, naturalmente, le letture personali o gli studi specialistici. Il loro essere patrimonio comune e condiviso nasconde tuttavia un’insidia, alimenta l’illusione di conoscerli, schiacciandoli così nel cliché che li semplifica: l’astuzia e la fedele attesa, il potere e la lealtà, la forza, la bellezza… Credo che accostarsi a loro per narrarne ancora la storia richieda uno sguardo rinnovato, la capacità di ascoltarli come se fosse la prima volta: allora, se poniamo altre domande, il Mito risponderà diversamente rigenerandosi con noi. Cosa sappiamo di Elena? – è stata proprio la prima domanda che mi sono posta, a proposito della regina di Sparta. Sul suo conto si dicono molte cose, storie che si intrecciano e a tratti si contraddicono. Sappiamo che è figlia di Tindaro e Leda, sovrani di Sparta, ma che in realtà è di stirpe divina, generata da Zeus che si unisce in forma di cigno alla bellissima madre. Secondo un’altra versione della storia, Elena sarebbe figlia di Nemesi, divinità legata all’equilibrio del mondo e alla giustizia redistributrice. Così, lungo il sentiero del mito, necessità e bellezza si congiungono. Lei è la sposa di Menelao e l’amata di Paride con cui fugge a Troia, eppure altrove narrarono di una nuvola d’aria, di un eidolon mandato nella rocca di Ilio a seminare morte e inganni, mentre la vera Elena sarebbe stata condotta in Egitto. Due uomini, due città, due Elene complicano la storia specchiandosi gli uni nelle altre. Così, il pensiero dominante in principio era che di Elena non si sapesse niente. Il grande paradosso di Elena, la bella per antonomasia, è che il suo aspetto non sia mai descritto: «Non sappiamo se i suoi capelli siano lisci come la seta o indomabili e crespi, del colore del grano o scuri come la notte. Ditemi, ha qualcosa che la rende unica, qualche amabile imperfezione? Un neo sul labbro, una lieve fessura tra i denti? Come cammina Elena? Ama muovere le mani al ritmo delle sue parole? Nessuno lo sa. Di Elena non si sa niente» “

Per leggere l’intera intervista clicca qui.

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Prostituzione: un lavoro come un altro?

Su Volerelaluna è uscito un articolo di Valentina Pazé a proposito della problematica legata alla denuncia di abbandono dei e delle sex worker durante l’emergenza sanitaria e il lockdown del Paese, che presenta bene la posizione di Luciana Tavernini, Silvia Niccolai, Daniela Danna e Grazia Villa, autrici di Né sesso né lavoro.

Eccone un estratto:

“Tra i settori economici che sono stati certamente penalizzati dal lockdown c’è anche il mercato del sesso. Lo ricorda, su il manifesto del 12 maggio, Shendi Veli (https://ilmanifesto.it/lemergenza-umanitaria-del-lavoro-sessuale/) , denunciando l’abbandono in cui sono stati lasciati i e le sex worker (di cui parlerò d’ora in poi al femminile, data la netta prevalenza delle donne nel settore) durante la pandemia. E riproponendo le classiche rivendicazioni dei movimenti per la “decriminalizzazione”: dal riconoscimento della prostituzione come attività lavorativa in piena regola alla legalizzazione delle attività collaterali, come il favoreggiamento, che nel nostro paese è un reato che viene talvolta contestato anche a chi affitta la casa a una prostituta o abita con lei (secondo un’interpretazione peraltro scorretta della legge Merlin, criticata da Silvia Niccolai in AA.VV., Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, Milano 2019, pp70-117).

Intervenendo su 27esima ora del 22 maggio (https://27esimaora.corriere.it/20_maggio_22/prostituzione-lavoro-o-sfruttamento-b8170e3c-9bd6-11ea-aab2-c1d41bfb67c5.shtml), Luciana Tavernini mostra l’altra faccia della medaglia: «Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincere che tutto, perfino l’accesso all’interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzare il prezzo. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro». E dunque, anziché chiedere di legalizzare le attività di coloro che guadagnano dalla prostituzione altrui, bisognerebbe attuare quella parte della legge Merlin che prevede formazione e inserimento lavorativo per le donne che desiderano cambiare vita. Uscendo da un “giro” in cui la stragrande maggioranza di loro è finita per bisogno, e talvolta per vera e propria costrizione (le straniere vittime della tratta), non certo per scelta.

Il contrasto tra queste due posizioni sembra irriducibile e riguarda la stessa scelta delle parole: prostituzione o sex work? “Stupro a pagamento” (come è intitolato il bel volume autobiografico di Rachel Moran) o «un lavoro come un altro», di cui si tratterebbe di garantire l’esercizio in condizioni di legalità e sicurezza? Il tema è di quelli che dividono, anche a sinistra, anche all’interno del femminismo e delle associazioni per la difesa dei diritti umani. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti, data la molteplicità delle questioni in gioco: dalla visione del corpo, della sessualità, delle relazioni tra i sessi alle nostre idee sulla libertà, i diritti, il rapporto tra Stato e mercato.”

Per leggere tutto l’articolo clicca qui.

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Le difensore dei diritti delle donne incarcerate da due anni – Michela Fontana

Michela Fontana

28 maggio 2020

Sono passati poco più di due anni da quando, il 15 maggio 2018, tredici attiviste saudite sono state incarcerate per le loro pacifiche lotte per il diritto alla guida dell’automobile (concesso dal re alle donne nel giugno successivo) e per la modifica della norma sul guardiano, che in Arabia Saudita ha potere assoluto sulla donna di cui è tutore.  Cinque di loro sono ancora in carcere , mentre otto sono state liberate, pur rimanendo tutte  in attesa di processo. Alcune di loro sono state torturate e sottoposte ad abusi. Lo ricorda un comunicato di Amnesty International  del 15 maggio scorso, dove l’organizzazione per i diritti umani chiede la scarcerazione delle attiviste e degli altri attivisti  che sono stati imprigionati nello stesso periodo. 

Durante la mia permanenza in Arabia Saudita, dal 2010 al 2013 ho  incontrato e intervistato tre delle attiviste incarcerate,  Eman al- Nafjan,  Aziza al- Yousef, Hatoon al-Fassi. Racconto le loro storie insieme a quelle di molte altre donne di diverse  estrazioni sociali ed esperienze di vita, nel mio libro Nonostante il velo ( VandA epubishing-Morellini ), premio Femminile Plurale di Allumiere 2018, attualmente in libreria nella versione riveduta.

Le loro testimonianze appassionate, a volte sconvolgenti,  fanno luce dall’interno su una società come quella saudita che considera le donne proprietà degli uomini e le priva di molti diritti elementari. Eman al-Nafjan è stata mia amica, preziosa  testimone  e compagna di viaggio  durante la nostra spedizione nella parte più conservatrice del paese dove anch’io dovevo girare con il viso interamente coperto. Poco dopo la mia partenza nel 2013, due delle donne che ho intervistato Roua e Omaima, sono fuggite dal paese, la prima ha trovato asilo politico in Canada la seconda in Italia,  che ha lasciato da poco per l’Irlanda.

Anche se a partire  dal 2018, l’erede al trono Muhammed Bin Salman, ha alleggerito alcuni divieti sociali, limitando tra l’altro  il potere della polizia religiosa  e ha concesso alle donne alcune libertà prima impensabili, come la possibilità di andare allo stadio con la famiglia e di viaggiare  senza il permesso del guardiano, l’Arabia Saudita rimane uno stato di polizia dove gli attivisti rischiano l’incarcerazione a vita o  la stessa vita, come il giornalista Jamal Khashoggi, barbaramente assassinato nel consolato saudita a Istanbul nel 2018. La strada per una vera emancipazione delle donne è ancora lunga e difficile.

Acquistate “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita” di Michela Fontana qui.
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L’Italia non rilascia il nullaosta alle coppie italiane per andare a prendere i bambini nati da maternità surrogata

Sul Corriere online è uscito un articolo di Monica Ricci Sargentini a proposito delle problematiche sorte in merito alla maternità surrogata durante questo periodo di emergenza sanitaria mondiale.

Di seguito uno stralcio dell’articolo:

“Si fa sempre più intricata la vicenda dei neonati bloccati in un hotel di Kiev in attesa che i loro genitori intenzionali (tutti stranieri) li vadano a prendere. Tra loro ci sono anche bambini commissionati da coppie italiane. Una di questi è nata il 22 aprile ed è ancora in attesa di essere registrata all’anagrafe. L’avvocato Giorgio Muccio, che rappresenta la coppia, ha scritto il 29 aprile all’ambasciatore italiano a Kiev, Davide La Cecilia e, per conoscenza, al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, chiedendo di concedere ai suoi assistiti «il permesso di recarsi in Ucraina per stato di urgente e indifferibile necessità» ma non ha ottenuto alcuna risposta: «Siamo sconcertati — dice al Corriere il legale —, abbiamo anche inviato ripetuti solleciti. A questo punto dovremo procedere a una diffida».

A differenza della Spagna, che addirittura nei primi giorni di maggio ha organizzato un volo di Stato per sette coppie che erano ricorse alla Gestazione per altri nello Stato, l’Italia ha scelto la via del silenzio. Lo dimostra la lettera di La Cecilia alla Rete contro l’utero in affitto (Radfem Italia, Snoq, Udi, Arcilesbica e molte altre) che gli aveva scritto sulla vicenda dei bambini «parcheggiati» nell’hotel: «Gentili Rappresentanti delle Associazioni firmatarie della lettera aperta, ho guardato anche io con grande disagio e preoccupazione le immagini del video diffuso in rete dalla Biotexcom di Kiev dei neonati radunati in una stanza in attesa dello sblocco della situazione che li riguarda e non esito a definirle aberranti. (…) Abbiamo infatti ricevuto una serie di richieste di autorizzazione all’ingresso nel Paese da parte di connazionali per motivi di maternità surrogata, che non sono state tuttavia riscontrate, nonostante le ingiunzioni ricevute dai loro legali». Il motivo, probabilmente, è che in Italia la pratica è vietata dalla legge 40 e la registrazione all’anagrafe delle coppie committenti potrebbe rappresentare un falso in atto pubblico come stabilito nel 2018 dalla Cassazione a sezione unite in cui si ribadisce il diritto del minore alla verità sulle proprie origini.

Il filmato dei 46 neonati stipati nella hall dell’Hotel Venezia è sconvolgente. I bambini sono tutti nati da utero in affitto e in attesa di essere ritirati da chi ne ha commissionato la nascita (i cosiddetti «genitori intenzionali»). Il lockdown per Coronavirus ne impedisce il ritiro e Denis Herman, legale di BioTexCom, lancia l’appello: «Genitori rivolgetevi ai vostri Ministeri degli Esteri perché contattino il governo ucraino, in modo che vi sia concesso il ritiro in deroga al lockdown». Si tratta di coppie americane, inglesi, cinesi, spagnole, francesi, tedesche, austriache, italiane. L’Ucraina è una meta gettonatissima per la Gestazione per altri perché il costo è un terzo o un quarto delle tariffe di California e Canada. Ci sono agenzie come Gestlife che nella tariffa de luxe includono la sostituzione del bambino nel caso ti morisse entro il primo anno di vita.”

di Monica Ricci Sargentini

Per leggere tutto l’articolo clicca qui.

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Radio inBlu – Intervista ad Agnese Bizzarri

Questa settimana su radio inBlu si lascia spazio ai bambini, in una bella intervista Agnese Bizzarri presenta la favola sul Coronavirus “Il tempo dei colori” che ha ispirato il contest ricondiviso anche dall’ONU.

Per ascoltare l’intervista completa cliccate qui.

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#iorestoacasaconvanda – la nuova rubrica video di VandA Edizioni

#iorestoacasaconvanda è un format che VandA ha creato per mantenere viva la relazione fra lettori e autori in questo periodo di “reclusione”.

Per non perdere il filo del pensiero. Per mettere al lavoro la nostra sapienza accumulata e non restare attoniti e in contemplazione di qualcosa che sembra più grande di noi. Perché solo il pensiero e la saggezza che da esso deriva porta alla coscienza e quindi alla libertà.

Come ci ha insegnato il femminismo, autocoscienza e relazione sono le due grandi leve dell’emancipazione. Ed è su questa strada che vogliamo proseguire.

Dunque parliamoci e ascoltiamoci!

Quello che sta capitando ha molto a che vedere con le cose a cui da tempo VandA sta riflettendo: la crisi di un modello di società e di economia, i danni del mercatismo e della globalizzazione, il maschile tossico, la violazione dei corpi, della Natura, della Terra, la libertà intesa come individualismo e assenza di limiti.

I nostri autori in video riprenderanno le loro tesi, i loro libri e ci intratterranno con storie, interventi, brevi lectio, riflessioni, letture, narrazioni, audio.


Ecco la programmazione del format #iorestoacasaconvanda:

Martedì 7 aprile
Lectio economia (durata circa 20’’)
Pierangelo Dacrema, “Dov’è l’Europa?”

Venerdì 10 aprile
Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 9’’)
Chiara Giunta, “Innamorate“, Letture di Francesca Fichera

Martedì 14 aprile
Saggistica: presentazione con autrice e lettura (durata 10”)
Carol J. Adams, “Carne da Macello, Letture di Barbara Mugnai

Venerdì 17 aprile
Narrativa: presentazione con autrice e lettura (durata 10″)
Agnese Bizzarri, “L’Italia a Colori, Letture di Marco De Francesca

Martedì 21 aprile
Intervento: neoliberismo e violazione di corpi (durata 10″)
Marina Terragni, “Utero in affitto mille motivi per dire NO

Venerdì 24 aprile
Intervento con autrice (durata 10’’)
Sofie della Vanth, “Pandemia Covid-19: il punto di vista di una sciamana

Martedì 28 aprile
Teatro: presentazione con performance audio (durata 12″)
Donatella Massara, “Donne che attraversano la scena teatrale“, recitato di Donatella Massara

Venerdì 1 maggio: Festa del Lavoro
Lectio neoliberismo (durata circa 20″)
Pierangelo Dacrema, “Se il mercato sostituisce il lavoro

Martedì 5 maggio
Poesia: presentazione con autore e lettura (durata 10″)
Pippo Ruiz, “Le metamorfosi dell’Haiku

Venerdì 8 maggio
Narrativa: presentazione con autrice e letture (durata 10″)
Anna Maria Briga, “Ci sei“, illustrazioni di Maria Vittoria Sesta

Martedì 12 maggio
Saggistica: intervento con autrice (durata 14″)
Giuseppina Norcia, “A proposito di Elena“, letture di Galatea Ranzi

Venerdì 15 maggio
Saggistica: intervento con autrice (durata 10″)
Michela Fontana, “Nonostante il velo

Venerdì 22 maggio
Lectio economia
Pierangelo Dacrema, “La morte del denaro

Venerdì 29 maggio
Narrativa: intervento con autrice (durata 8″)
Katia M., “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre


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“Homo donans. Per un’economia del materno”, Genevieve Vaughan

Per Genevieve Vaughan linguaggio e scambio (il commercio, il mercato) non sono poi così distanti. In entrambi, secondo l’autrice, non si fa altro che soddisfare un bisogno.

C’è però nel linguaggio un senso di condivisione che nello scambio è del tutto assente. 

In Homo donans. Per un’economia del materno l’autrice rintraccia un aspetto fondamentale del nostro essere umani: la pratica del dono che consiste in un ascolto attento e sincero dell’altro e dei suoi bisogni. 

In un’indagine che si snoda tra femminismo, linguistica, semiotica, economia e antropologia Genevieve Vaughan propone di riscoprire il valore del dono per farne un nuovo tipo di economia. 

Leggine un estratto…

“Secondo quanto sostiene David Gilmore nel suo testo Manhood in the Making (“Mascolinità in costruzione”, 1990), i valori adottati dagli uomini nel processo di formazione della propria identità possono essere ricondotti a una sorta di “copione della mascolinità” che rimane relativamente invariato a seconda delle diverse culture. Valori quali indipendenza, competitività, eccellenza performativa, coraggio, robusta costituzione e grossa taglia compongono i parametri di questo copione che viene adottato e costruito dai maschi per distinguersi dalle madri.

Credo che possiamo facilmente riconoscere quanto questi valori siano analoghi a quelli del capitalismo: autonomia, competitività, eccellenza performativa, attitudine al rischio e status elevato in base alla “taglia” sociale, per possedere più ricchezza o potere. Avendo abbandonato la pratica del dono unilaterale sia come genere sia come modello di produzione e distribuzione, potrebbe sembrare che solo tramite la legge o il rigore morale e religioso gli uomini (e le donne che vivono all’interno di un sistema capitalistico) possano venire persuasi a prestare attenzione ai bisogni altrui.

Eppure il perseguimento esclusivo del proprio interesse è un vicolo cieco dal punto di vista psicologico. Chi lo pratica finisce per trovare la propria vita priva di “significato”. Trovare significati a livello individuale è impresa virtualmente impossibile giacché, nel linguaggio come nella vita, il significato è legato alla comunicazione e all’orientamento verso l’altro. Ci aggrappiamo alla legge del prototipo maschile come misura del nostro comportamento ma ciò non serve a ricondurci sulla strada del dono, che ci appare sempre più un impossibile e non realistico Eden.

Nel frattempo il modello economico proposto dal copione della mascolinità continua a costruire un anti-Eden, creando miseria laddove dovrebbe esserci abbondanza, gratificando pochi con averi in quantità sempre maggiore e penalizzando molti, innalzando un muro oltre al quale l’Eden del donare rimane celato.

Uno dei vantaggi che il capitalismo ha avuto – forse il suo unico risvolto positivo – è che, attraverso l’istituzionalizzazione dei valori appartenenti al copione della mascolinità e all’introduzione delle donne nella forza lavoro retribuita, esso ha dimostrato che quei valori ipoteticamente “maschili” non poggiano affatto su fondamenta biologiche, considerato che le donne sono state in grado di adottarli con altrettanto successo. Una società basata sul dono unilaterale sarebbe in grado di dimostrare, istituzionalizzando il copione delle cure materne, che nemmeno quei processi sono limitati biologicamente alle femmine”.

Ti è piaciuto questo libro: lo trovi qui “Homo donans. Per un’economia del materno ”, Genevieve Vaughan

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“Carne da Macello” – intervista su Radio Radicale

Radio Radicale parla di noi nell’intervista a Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati, traduttori e curatori dell’edizione italiana di “Carne da macello, la politica sessuale della carne” di Carol J. Adams, realizzata da Cristiana Pugliese con Silvia Molè (membro dell’Associazione radicale Parte in Causa – Associazione Antispecista).

L’intervista è stata registrata martedì 3 marzo 2020 alle 18:45.

Nel corso dell’intervista sono stati trattati i seguenti temi: Animali, Antispecismo, Cultura, Donna, Femminismo, Libro, Societa’.

Potete ascoltare l’intervista al link: http://www.radioradicale.it/scheda/600021

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I corpi consumabili dell’oppressione – L’intervista a Carol J. Adams su «Il Manifesto»

In un momento in cui il pensiero femminista sembra acquistare crescente visibilità nel panorama editoriale italiano, che rende finalmente – talvolta nuovamente – disponibili autrici come Donna Haraway, Monique Wittig, Valerie Solanas, non poteva mancare all’appello Carol Adams con Carne da macello. La politica sessuale della carne (comparso per la prima volta nel 1989 con il titolo di The Sexual Politics of Meat), per i tipi di VandA (pp. 360, euro 18, traduzione di Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati, postfazione di Barbara Balsamo e Silvia Molè). Testo chiave dell’ecofemminismo statunitense e dell’antispecismo militante, il libro propone una critica del carnivorismo patriarcale con l’obbiettivo non soltanto di fornire un quadro dell’oppressione della vita animale, ma soprattutto di mettere in atto nuove pratiche di cura. Allieva di Mary Daly, teologa e femminista radicale autrice di Gyn/Ecology (1978), e per numerosi anni prima di dedicarsi alla scrittura attiva nelle lotte per il diritto alla casa e contro la violenza domestica, nel libro Adams ribadisce che creare alleanze significa innanzitutto lavorare trasversalmente, senza separare umani e non umani, e scardinando le gerarchie che discriminano i viventi e legittimano la subordinazione di alcuni e il privilegio di altri. Il libro, che discute i «testi della carne» nelle diverse tradizioni, pratiche e relazioni sociali della cultura occidentale, e nelle sue espressioni verbali e visuali, insiste sull’interdipendenza fra la violenza simbolica e materiale esercitata sui corpi umani animalizzati e quella inflitta ai corpi degli animali non umani, le cui implicazioni vanno oltre la dimensione di genere: referenti assenti sono tutti quei corpi smembrati, macellati, stuprati, oggettivati che diventano, pertanto, consumabili. In occasione della pubblicazione di Carne da macello (presentato in anteprima a Roma nell’ambito di «Feminism» il 5 marzo alle ore 17 in sala 2 Caminetto con Barbara Balsamo, Silvia Molè e Flavia Fechete) abbiamo intervistato Carol Adams.

(continua a leggere scaricando il pdf)

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La carne un simbolo e una celebrazione del dominio maschile? Brano da leggere

Carne da macello”, Carol J. Adams 

Edito per la prima volta nel 1990 il testo di Carol J. Adams è ancora attuale per chi voglia confrontarsi con i temi di femminismo, veganismo e antispecismo.

In “Carne da macello” l’autrice collega ed esplora le molteplici forme di oppressione che si fondano su sesso, razza e specie. Secondo Adams riconoscere che il consumo di carne è per gli animali non umani ciò che il razzismo è per la popolazione nera e il sessismo per le donne significa comprendere che queste forme di oppressione sono interconnesse e sono l’espressione di un sistema che vede sia le donne che gli animali in una posizione gerarchica inferiore rispetto all’uomo. 

Leggi l’estratto… 

“Cos’è che rende la carne un simbolo e una celebrazione del dominio maschile? Per molti aspetti, l’ineguaglianza di genere è integrata all’ineguaglianza di specie che proclama il mangiar carne, perché per la maggior parte delle culture la carne è procurata dagli uomini. La carne era una derrata con valore economico e coloro che la controllavano acquisivano potere. Se gli uomini erano cacciatori, allora il controllo di questa risorsa economica era nelle loro mani. Nelle società non tecnologiche lo status delle donne è inversamente correlato all’importanza della carne: L’equazione è semplice: più la carne è importante nelle loro vite, maggiore è la volontà di dominio degli uomini […] Quando la carne diventa un elemento importante in un sistema organizzato in modo prettamente economico, per cui viene distribuita sulla base dei ruoli, gli uomini iniziano a manovrare le leve del potere […] La posizione sociale delle donne si avvicina a quella degli uomini solo quando la società non è strutturata in ruoli per la distribuzione della carne. 

Peggy Sanday raccolse informazioni su oltre cento culture non tecnologiche e trovò una correlazione tra le economie basate sui vegetali e il potere delle donne, e le economie basate sugli animali e il potere degli uomini: «Nelle società dipendenti dagli animali, raramente le donne sono descritte come la fondamentale fonte di potere creativo». Inoltre, «quando si caccia un grande numero di animali i padri sono lontani, cioè non sono in costante o regolare contatto con i figli». Le caratteristiche dell’economia dipendono principalmente dal trattamento degli animali a fini alimentari, che comprendono: 

  • la segregazione sessuale del lavoro, in cui le donne lavorano di più ma sono meno retribuite; 
  • la responsabilità della cura dei figli a carico delle donne;
  • il culto di divinità maschili;
  •  la patrilinearità. 

Dall’altro lato, le economie basate sui vegetali sono molto più egualitarie, e ciò perché le donne erano raccoglitrici di alimenti vegetali e per tale tipo di economia queste risorse sono incalcolabili. In queste culture gli uomini, al pari delle donne, erano dipendenti dalle attività femminili, ragione per cui le donne raggiungevano un alto livello di autonomia e autosufficienza. Inoltre, dove le donne raccolgono i vegetali e la dieta è vegetariana, le donne non discriminano nel distribuire l’essenziale. Provvedendo a una gran parte delle proteine alimentari per la società, le donne guadagnano un ruolo sociale ed economico essenziale senza abusarne.”

Ti è piaciuto l’estratto? A Feminism” la fiera dell’editoria delle donne, che si svolgerà dal 5 all’8 marzo 2020 a Roma presso la Casa Internazionale delle Donne, in via della Lungara 19 si terrà un incontro per presentare questo saggio.

Giovedì 5 marzo alle 17.00 in sala 2 Barbara Balsamo, attivista femminista antispecista, redattrice della rivista “Animal Studies” e “Asinus Novus”, insieme a Silvia Molè, attivista antispecista, blogger di Fallacielogiche.it e insieme a Flavia Fechete, attivista ecofemminista-antispecista e studiosa di Carol J. Adams presenteranno: “Carne da macello”.

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Katia, la storia di chi ha avuto il coraggio di raccontare

Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre

Ai bambini si dice che l’Uomo Nero non esiste. E poi si aggiunge che se ci fosse sarebbe là fuori, nelle strade. Per questo ci hanno insegnato fin da piccole a non dare confidenza agli sconosciuti…

Ma cosa accade quando l’Uomo Nero ha il volto di tuo padre? Quando il pericolo non è in un indefinito “là fuori” ma all’interno delle mura domestiche?

Questa è la storia di Katia, qui di seguito un brano

“In quell’anno, quello dei miei undici anni, mi sono venute le mestruazioni: ero diventata “signorina”. Mia madre mi aveva preparato tempo prima e una mattina mi sono svegliata con la sorpresa nelle mutandine. Ho chiamato la nonna che, senza tanti fronzoli o cerimonie, mi ha detto di mettermi l’assorbente e che ero diventata signorina. Quest’estate mia figlia ha avuto le sue prime mestruazioni e mi sono commossa quando me lo ha detto e l’ho abbracciata stretta stretta, perché in fondo resta sempre la mia cucciola, anche se cresce e diventa donna, e abbiamo festeggiato! Con lei mi trovo a condividere emozioni fortissime, mi regala una seconda possibilità di provare le gioie e le emozioni che accompagnano lo sviluppo di una bambina che diventa ragazzina e poi donna. Tornando ai miei undici anni, lui non aspettava altro: l’arrivo delle mestruazioni era il via libera per andare fino in fondo. Da tempo – non ricordo con esattezza quando – i miei genitori avevano trovato una casa più grande, con una camera in più; era in un tipico centro storico ligure, in pietra, attaccata ad altre case. Dentro era molto spartana ma carina, anche se all’epoca non me ne importava nulla di queste cose. Ciò nonostante continuavo a stare dai nonni, solo qualche sabato sera andavo a dormire da loro. Una di quelle sere – che, va da sé, mia madre aveva scelto per uscire con le amiche – lui era tutto contento, mi disse che aveva preparato una cosa speciale. Mi si rizzarono i capelli solo al pensiero, avevo una tale angoscia dentro… Aveva comprato uno di quei ditali di gomma, quelli che si usano per coprire le ferite alle dita – ancora oggi, se ne vedo uno, sto male! Disse che ormai ero diventata grande ed era ora che diventassi una donna a tutti gli effetti. Avrei dovuto essere orgogliosa, sentirmi “speciale”, sicuramente sarei stata la prima della mia classe…”

Ti è piaciuto l’estratto? Vieni a conoscere l’autrice. La potrai incontrare a Feminism” la fiera dell’editoria delle donne, che si svolgerà dal 5 all’8 marzo 2020 a Roma presso la Casa Internazionale delle Donne, in via della Lungara 19. L’autrice, Katia M, insieme a Monica Lanfranco, giornalista e formatrice, presenterà il libro sabato 7 marzo alle 12.00 in sala 2.

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Evento – Carne da Macello. La politica sessuale della carne

VandA Edizioni anche quest’anno parteciperà alla Fiera dell’Editoria delle Donne Feminism che si terrà a Roma dal 5 all’8 marzo 2020.

La nostra partecipazione alla fiera inizierà con la presentazione di “Carne da Macello. La politica sessuale della carne” di Carol J. Adams, che si terrà giovedì 5 marzo alle ore 17:00 presso la Casa Internazionale delle Donne, Via della Lungara 19, in Sala 2 Caminetto.

Parleranno del libro le attiviste femministe antispeciste Barbara Balsamo, redattrice delle riviste “Asino novus” e Animal Studies”, Silvia Molé, blogger di fallacielogiche.it e Flavia Flechete, studiosa di Carol J. Adams.

Vi aspettiamo numerosi/e!

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Evento – Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre

VandA Edizioni anche quest’anno parteciperà alla Fiera dell’Editoria delle Donne Feminism che si terrà a Roma dal 5 all’8 marzo 2020.

La nostra partecipazione alla fiera si concluderà con la presentazione di “Fai la brava. Se il mostro delle favole è mio padre” di Katia M., che si terrà sabato 7 marzo alle ore 12:00 presso la Casa Internazionale delle Donne, Via della Lungara 19, in Sala 2 Caminetto.

Parleranno con l’autrice, Monica Lanfranco, giornalista e formatrice, e Paola Tavella, giornalista, scrittrice e attivista femminista.

Vi aspettiamo numerosi/e!

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San Valentino VandA: tutto il catalogo al – 20%

VandA Edizioni quest’anno festeggia San Valentino promuovendo tutto il catalogo al 20% di sconto.

Contro gli stereotipi sessisti, regala libri, libri di libertà, libri sopra le righe, libri d’amore.

Amore romantico, amore totalizzante, amore erotico, amore di tutti i colori, amore senza fine. Scolpito sul rispetto e sul consenso.

Contro la valenza e la discriminazione, festeggiamo (e agiamo) il rispetto e il consenso!

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Donne afghane, vivere tutti i giorni nella guerra

Con Corrispondenze afghane Nico Piro, inviato speciale del TG3, si pone un solo, chiaro obiettivo: raccontare la complessità di un paese problematico come è quello dell’Afghanistan per il quale gli stereotipi cui ci affidiamo per comprenderlo rivelano, alla realtà dei fatti, tutta la loro inefficacia.

Quella che si combatte in Afghanistan è un tipo di guerra in cui “a morire, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono né i buoni né i cattivi, ma persone che non c’entrano nulla”. Le guerre non si combattono solo sui campi di battaglia, ma anche nelle case e nei villaggi. Attraversano la vita dei civili e la cambiano irreparabilmente.

Le condizioni di vita di tutti sono difficili ma quelle delle donne lo sono in particolare.

Leggi l’estratto che abbiamo selezionato per te da Corrisponde afghane di Nico Piro, pubblicato dal nostro marchio associato Poets & Sailors

ADDIO AL BURQA

di Nico Piro

Proprio non riesce a venderne più. Sulle pareti della sua bottega ce ne sono tanti, ormai ridotti a far tappezzeria. Ne afferra uno, se lo stende tra le braccia, e ce lo mostra. Sul viso, l’espressione di chi sa di avere in mano un prodotto di prima qualità e non si rassegna all’idea che nessuno lo compri.
Haji Abdul Sabur è uno storico produttore – l’ultimo di Kabul – di burqa sartoriali, altra roba rispetto a quelli fatti in Pakistan e venduti sulle bancarelle del mercato. La sua bottega è nel bazar lungo il fiume, il cuore della capitale che ne conserva l’antico fascino40. Per anni i suoi burqa si vendevano in automatico, oggi Abdul deve sperare nella visita di clienti che arrivano dalle campagne. Questa tunica che copre le donne dalla testa ai piedi, lasciando loro solo il varco di una finestrella retata per provare a guardarsi intorno, è stata per anni un’icona di Kabul.
Celeste nella capitale, di altri colori – nero e persino giallo sgargiante – nelle province, il burqa è stato anche uno dei simboli più strumentalizzati e agitati dalla politica occidentale per giustificare la presenza internazionale nel Paese.
Ogni volta che la politica ha tentato di sostenere quella missione poi rivelatasi “incompiuta” ha ripetuto lo slogan: “Liberare le donne dal burqa” forse ancor di più che “fermare la produzione di oppio” o “siamo lì per garantirci sicurezza qui, a casa”.
L’obiettivo, quasi due decenni dopo la caduta dei talebani, pare finalmente raggiunto: nelle strade di Kabul ormai di donne in burqa se ne vedono sempre di meno. Molte vanno in giro solo con il chador, il velo intorno alla testa che spesso passa solo intorno alla gola, senza coprire il viso dal naso in giù. A voler fare un paragone limitandosi solo al tema del velo, la situazione a Kabul assomiglia a quella del confinante Iran (ma senza le sanzioni di legge imposte alle donne che il velo non lo indossano) mentre le cose vanno molto meglio rispetto all’ Arabia Saudita, principale alleato occidentale e luogo dove l’estremismo si è fatto Stato. Un cambiamento ben testimoniato anche dai manifesti elettorali. Com’è potuto accadere tutto questo in una città dove fino a sei-sette anni fa le uniche donne coperte solo con il velo le trovavi negli uffici e in generale in luoghi chiusi al pubblico, dove per giunta ricoprivano ruoli importanti?
Non è merito della “democrazia” né del miglioramento della condizione delle donne, un miglioramento certo importante ma limitato e fragile come del resto dimostrano le mai cessate violenze domestiche e i matrimoni combinati, come da antica tradizione tribale.
Per capire cosa sia accaduto, dobbiamo andare sull’Airport Road. Alcune donne in burqa spiccano ai lati della strada, all’apparenza sono lì di passaggio, in attesa di qualcosa. In realtà sono prostitute che usano il burqa per non rendersi riconoscibili, lavorano su questa come su altre strade. Questo tipo di prostituzione – assieme a quella che impiega donne cinesi, cominciata sin dalla fine della prima decade del 2000 – è diventata sempre più una delle attrazioni di Kabul, almeno per gli uomini che vengono dalle province. Si parte da dieci dollari in su a seconda del rapporto ma se prima di pagare vuoi vedere il viso della donna che hai appena fatto salire in auto, devi versare un’altra somma – in moneta locale circa 500 afghani. A questo punto puoi decidere se quella donna va bene per te oppure se farla scendere.
Questa è la prostituzione di “livello” più basso offerta dalla capitale tanto che i clienti occasionali sono spesso bersaglio di furti, le prostitute li borseggiano sapendo che non andranno mai a denunciarle per vergogna, anzi per doppia vergogna: erano con una prostituta e si sono fatti fregare.
Lavorano su strade come la Airport Road, dove c’è meno traffico ed è facile per i clienti fermarsi e farle salire a bordo. Portano il burqa esattamente come quelle donne che trovi accovacciate sui marciapiedi oppure che vedi aggirarsi tra le auto nel traffico, sono poverissime e mendicano la “zakat”, l’elemosina che ogni buon credente ha il dovere di lasciare ai bisognosi.
Le mendicanti e le prostitute hanno in comune due cose: sono vedove di guerra o donne cacciate di casa dai mariti, diseredate di solito per “crimini morali”; nascondono la loro vergogna dietro il burqa.
Le altre donne che non vogliono essere prese né per mendicanti né per prostitute, il burqa l’hanno abbandonato forti anche di una giustificazione morale che ha reso il gesto più socialmente accettabile; fermo restando che è stata comunque una liberazione da quella prigione tessile.
“Le donne che vestono il burqa fanno cose brutte, io e le mie amiche non l’abbiamo mai indossato”. Farzanà avrà sedici, forse diciotto anni, vive a Kabul ma la sua famiglia viene dalla provincia di Logar, dove invece – racconta – indossare quella tunica oppressiva è obbligatorio, per la tradizione e per difendersi dai comportamenti aggressivi degli uomini. Ma, come sempre in Afghanistan, la spiegazione non è mai unica: “Il problema del burqa sono le esplosioni. Le donne hanno smesso di usarlo anche per i problemi che si creavano ai posti di blocco in città, dove c’è più controllo e dove comunque gli uomini hanno cambiato atteggiamento”.
In alcuni quartieri, come il PD22 dove vivono famiglie Pashtūn più conservatrici, al posto del burqa sta prendendo piede lo hijab41, il velo nero, integrale, che copre il viso della donna come in Arabia Saudita, scendendo poi fino ai piedi oppure è accompagnato da un camicione anch’esso nero. Fino a qualche anno fa, a Kabul non se ne vedeva nessuno, oggi lentamente cominciano a spuntare nelle strade ma ancora in maniera episodica visto che la stragrande maggioranza delle donne indossa solo il velo.

Poi ci sono donne come Samira che il burqa non lo indossano perché lei non lavora in strada, si prostituisce solo su “chiamata”, per quanto orribile sia questa definizione.
Ha ventotto anni, i capelli lunghi quasi fino ai fianchi e i tratti mongoli degli Hazāra. A guardarla non capisci se la sua bellezza sia già sfiorita come capita a tante donne afghane, già vecchie a quarant’anni, oppure se quella bellezza semplicemente non ci sia mai stata.
A nove anni, nel suo villaggio nella provincia di Bamyan, è andata a casa del suo vicino, che all’epoca aveva trenta-trentacinque anni. “Mi ha dato dei soldi in cambio di una cosa che non sapevo nemmeno cosa fosse, il sesso”. Quando l’uomo l’ha penetrata, lei è svenuta. “Ricordo solo che al risveglio, intorno a me c’era tutta la mia famiglia che piangeva”.
Una vita segnata sin dall’infanzia, continuata in un campo profughi iraniano dove Samira ha capito che l’unico modo per fare soldi era vendersi. Ha cominciato a prostituirsi a sedici anni per poi scoprire che non avrebbe mai potuto avere figli. Nel 2011 è tornata in Afghanistan ma non ha mai smesso di fare il “mestiere”.
“Io il burqa non lo uso perché ho i miei clienti, non devo andare in strada a cercarmeli. Loro mi chiamano e prendiamo un appuntamento”. “Mia mamma sa che lavoro faccio ma se non lavoro la mia famiglia non va avanti”.
Nell’industria della prostituzione a Kabul, Samira è un gradino sopra rispetto alle donne che vestono il burqa. Non è solo una questione di abito ma di consapevolezza, lei sa che può contrarre malattie sessuali gravissime (l’HIV è una delle nuove piaghe dell’Afghanistan)42 e quindi prova a tutelarsi.
Il mercato del sesso nella capitale è una delle amare novità del post-2001, figlia dell’economia di guerra e quindi di quattro decenni di violenza. E’ un mercato articolato e vario seppur invisibile. Oltre Samira e le altre “squillo”, per i ricchi afghani ci sono le bellezze esotiche in vendita a Dubai, a prezzi altissimi.
Nell’ipocrita Kabul lacerata dalle bombe, il burqa – prigione per il corpo delle donne – da simbolo dell’integralismo religioso è diventato uno strumento di quella che gli zeloti definirebbero corruzione morale.

Se il burqa è stato sconfitto dai miliardi di investimenti occidentali, quest’ultimi non sono riusciti nemmeno a garantire un’effettiva tutela delle donne: in quel baratro che è la giustizia afghana, la protezione delle donne è forse il recesso più recondito.
Dal 2009 in Afghanistan è in vigore una legge contro la violenza sulle donne, la EVAW (Elimination of Violence against Women) ma in realtà è inapplicata.
In generale, per svariati motivi, sono poche le donne che trovano il coraggio di denunciare violenze domestiche o matrimoni combinati e subiti. Il fenomeno viene quindi sottostimato dai dati ufficiali.
Le poche che denunciano si trovano di fronte autorità che, al posto di occuparsi del caso come imporrebbe la legge, le spingono verso la tradizionale mediazione condotta dagli anziani del villaggio43; mediazione che può partire solo dopo aver formalmente ritirato la denuncia penale. Più della metà dei 237 casi vagliati dall’UNAMA tra il 2015 e il 2017 si sono conclusi con una mediazione, un atto che viola la legge ma che è incoraggiato da chi quella e altre leggi dovrebbe applicare.
Il risultato è che gli uomini – anche in caso di reati gravissimi come l’omicidio – se la cavano con impegni del tipo “non lo farò più” assieme al pagamento di risarcimenti di sorta alla famiglia della vittima (e all’anziano che ha condotto la mediazione).
Ci sono poi casi in cui il rimedio “concordato” altro non è che un ripetersi del crimine: per esempio, un matrimonio combinato salta per il rifiuto della sposa “designata”. I mediatori tacitano il marito “mancato” e la sua famiglia, stabilendo una nuova “baar”. Una sorella o un’altra donna della famiglia viene ceduta allo stesso uomo, al posto di quella “ribelle”.
In generale da questa prassi la giustizia, lo Stato, l’autorità nazionale ne escono profondamente indebolite e delegittimate agli occhi delle vittime, presenti e future.
Tra il 2016 e il 2017 dei 280 casi di femminicidio e delitti d’onore documentati dalle Nazioni Unite in Afghanistan, solo 50 sono andati avanti per via giudiziaria con la condanna finale del colpevole.
Una giustizia che – attraverso ordini di giudici, procuratori e poliziotti – fa anche altro per allontanare le donne: continuando a sottoporle a test di verginità scientificamente inconsistenti oltre che umilianti, invasivi e – per giunta – vietati da un ordine del presidente Ghani del 2017 e da un provvedimento del Ministero della Sanità del 2018 44.
Metà delle donne in carcere in Afghanistan (la percentuale arriva al 95% quando si tratta di detenute minorenni) sono dietro le sbarre per “crimini morali”, molti dei quali provati proprio con l’esame dell’imene45.
L’altro paradosso che indebolisce la EVAW è che non tiene conto delle necessità economiche delle vittime: “Come evidenziato dalle donne in questo rapporto, un motivo pratico che influenza le vittime, nel rinunciare alla via giudiziaria a favore di una mediazione, è il fatto che l’EVAW ricorre esclusivamente a pene detentive. (…) La donna che ha denunciato e i suoi bimbi faticano a sopravvivere durante la detenzione del colpevole e quindi la stessa detenzione rappresenta un indesiderato e non sostenibile rimedio ai problemi iniziali. Inoltre, le «sopravvissute» (alle violenze denunciate) hanno paura dello stigma sociale e della marginalizzazione ad opera delle proprie famiglie e del villaggio dove vivono, una volta lasciate sole senza un marito”46. Insomma a queste condizioni perché denunciare? Senza considerare poi che anche quando l’iter giudiziario va avanti, il livello di corruzione nel sistema è tale che non c’è certezza né di una sentenza giusta né della pena.
In sintesi, è come se in Afghanistan avessimo costruito un sistema che alimenta speranze nelle donne ma non garantisce l’incolumità di quelle donne che provano a trasformare speranze e sogni in realtà, né di quelle che si ribellano alla mafia della moschea in nome della loro radicata religiosità né di quelle che non riescono più a subire violenze domestiche e vanno dalla polizia.

Il libro è disponibile in formato cartaceo e in formato ebook e sui principali store online.

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Salario domestico: il lavoro casalingo è un lavoro?

Portata all’attenzione da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la questione del valore economico del lavoro domestico, sempre sottovalutata e mai risolta, viene curiosamente risollevata negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, da alcuni Democratici candidati alle presidenziali, che propongono un salario domestico per i genitori che rimangono a casa ad occuparsi dei figli.

Per saperne di più, date un’occhiata all’articolo “Stay-at-Home Parents Work Hard. Should They Be Paid?” di Claire Cain Miller, pubblicato lo scorso ottobre sul sito del New York Times.

Sulla spinosa questione del salario domestico, leggi in “Manifesti Femministi“:

Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato.
La chiamano frigidità. Noi la chiamiamo assenteismo.
Ogni volta che restiamo incinte contro la nostra volontà
è un incidente sul lavoro…
Omosessualità e eterosessualità sono entrambe condizioni di lavoro […]
ma l’omosessualità è il controllo degli operai

sulla produzione non la fine del lavoro.
Più sorrisi? Più soldi.
Niente sarà più efficace per distruggere le virtù di un sorriso.
Nevrosi, suicidi, desessualizzazione: malattie professionali della casalinga.

da “Salario contro il lavoro domestico” di Silvia Federici
in “Manifesti Femministi“, edito da VandA Edizioni

Si constata l’esistenza di due modi di produzione nella nostra società:
la maggior parte delle merci è prodotta in base al modo industriale;
i servizi domestici, l’allevamento dei figli e un certo numero di merci sono prodotte in base al modo familiare. Il primo modo di produzione dà luogo allo sfruttamento capitalista. Il secondo dà luogo allo sfruttamento familiare, o più esattamente patriarcale.

“Formalmente libera di lavorare fuori casa, la donna non lo è di fatto. Una parte della sua forza-lavoro resta appropriata, dato che lei deve “assumere i propri obblighi familiari”, cioè fornire gratuitamente il lavoro domestico e allevare i figli. Non solo il lavoro fuori casa non la dispensa dal lavoro domestico, ma esso non deve nuocere a quest’ultimo. La donna è dunque
soltanto libera di fornire un doppio lavoro in cambio di una certa indipendenza economica. La situazione della donna sposata che lavora mette bene in evidenza l’appropriazione statutaria della sua forza-lavoro. Infatti, la fornitura di lavoro domestico non è più giustificata dallo scambio economico a cui viene abusivamente assimilato il servaggio della donna
“a casa”: non si può più sostenere che il lavoro domestico venga effettuato in cambio del mantenimento, che il mantenimento sia l’equivalente del salario e che questo lavoro, quindi, sia pagato. Le donne che lavorano si
mantengono da sole e forniscono dunque il lavoro domestico in cambio di nulla. Inoltre, quando una coppia calcola quello che guadagna una donna che lavora “fuori”, deduce le spese di custodia dei figli, gli oneri aggiuntivi ecc. soltanto dal salario della donna invece di sottrarre queste spese dall’insieme dei redditi della coppia. Ciò dimostra che:
1) si ritiene che tali consumi dovrebbero essere gratuiti, al contrario di consumi come l’alloggio, i trasporti ecc. che non vengono a propria volta dedotti dai guadagni;
2) si ritiene anche che tali consumi dovrebbero essere prodotti esclusivamente dalla donna: una parte del suo salario è considerata come nulla, poiché serve a pagare ciò che lei avrebbe dovuto fare gratuitamente. Alla fine di questo calcolo, generalmente si scopre che la donna non guadagna “quasi niente”. In Francia, secondo il censimento del 1968, il 37,8% delle donne sposate lavora fuori casa (Rouxin 1970).”

da “Il Nemico Principale” di Christine Delphy
in “Manifesti Femministi“, edito da VandA Edizioni

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Il teatro sposa la politica delle donne – Recensione di “Donne che attraversano la scena teatrale”

Nell’ultimo numero della rivista Leggere Donna è uscita una bella recensione del nostro libro “Donne che attraversano la scena teatrale” di Donatella Massara, firmata da Serena Fuart.

Donne che attraversano la scena teatrale” è un sette pièce di Donatella Massara, andate in scena in questi anni con la compagnia teatrale Donne di parola. Un teatro dove prende corpo ora la storia delle donne ora la parola, la politica e l’ironia femminista. Le biografie e l’opera di artiste e scrittrici hanno ispirato la sua drammaturgia, maturata con la passione per la differenza sessuale. L’autrice diventa così una cantora che raccoglie vite ed esperienze del nostro tempo.

Di seguito alcuni estratti della recensione.

“Il libro unisce la passione artistica dell’autrice alla sua pluriennale esperienza politica nel movimento femminista della differenza sessuale. Ne esce un testo che scardina i tradizionali punti di vista della storia e dell’arte per farne una rilettura originale in chiave femminista. In questo libro l’arte teatrale sposa la politica delle donne nel senso che, attraverso l’arte scenica, l’autrice fa anche politica femminista: il libro è, principalmente ma non solo, un viaggio di donne, donne in relazione tra loro, che attraverso i testi teatrali, scritti da Donatella Massara e fedelmente riportati, ci portano dentro la vita e la storia di grandi protagoniste.”

“Un altro aspetto politico del libro è certamente quindi il cambio di prospettiva con cui si legge la realtà: nella cultura mainstream le donne che si sono distinte per aver disatteso i classici ruoli di mogli e madri vengono spesso etichettate come pazze, malate o, nella migliore delle ipotesi si descrive il loro successo in quanto mogli o parenti di qualche uomo illustre. Donatella dà alle protagoniste il ruolo di soggetti attivi, con una loro storia e una loro prospettiva esistenziale.”

“Si tratta insomma di un libro che presenta più piani, più livelli: storico, politico, emotivo. Inoltre la scrittura di Donatella, raffinata ed elegante, ci conduce per mano dentro vite, storie, vissuti, emozioni, arte e cultura. Ci fa gustare delicatamente ogni dettaglio culturale e riferimento politico della differenza sessuale. Un libro che mentre si legge, trasforma, perché, si sa, quando c’è una pluralità di punti di vista avviene il cambiamento dentro e fuori di noi.”

Per la recensione completa vi invitiamo a seguire il seguente link e a scaricare la rivista in formato pdf: https://www.leggeredonna.it/2019/11/03/leggere-donna-n-185/

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Presentazione Ci sei laFeltrinelli di Catania

VandA è lieta di invitarvi alla presentazione del libro “Ci sei” di Anna Maria Briga che si terrà alla libreria laFeltrinelli di Catania, in via Etnea 283/285/287, il giorno martedì 21 gennaio 2020 dalle ore 18:00.

Parlerà del libro con l’autrice la scrittrice Chiara Aurora Giunta, con le letture di Grazia Previtera.

Ci sei” è una raccolta di pensieri di una nonna che aspetta l’arrivo del suo nipotino. Ci avevate mai pensato che anche le nonne sono “in attesa”?

Soprattutto quando la futura madre è la figlia femmina! Una sorta di simbiosi scatta con la propria figlia, che a sua volta genererà un/a erede che continuerà la storia della famiglia e del mondo.
Un teatro di emozioni e sentimenti si schiude alla “grande notizia” per la giovane nonna e il cuore è un fiume in piena. Quante cose da dire allo sconosciuto in arrivo, quante cose da spiegare, quante da svelare, che mondo ricco ha davanti!
Un piccolo libro, un grande dono per il nascituro: una lieve annotazione quotidiana delle emozioni, le gioie, le paure che hanno accompagnato la sua gestazione e la sua nascita! Commovente e autentico, impreziosito da sognanti illustrazioni d’autore.

Vi aspettiamo numerosi alla presentazione!